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LA LUNETTA DI MASOLINO

Valfredo Siemoni

 

Da: Studi, scoperte e restauri in Santo Stefano degli Agostiniani a Empoli (n. 4),
Collana a cura di Valfredo Siemoni

Stampato da:
Tipografia NUOVA IGE – Empoli (Fi), Gennaio 2018

 

 

Credo sia molto difficile anche solo provare a dire qualcosa che già non sia stato detto su questa pittura, un affresco dalle ridotte dimensioni raffigurante un tema di per se affatto originale, la Madonna col Bambino adorati da una coppia di angeli.

In netto contrasto con la sua attuale notorietà, la quale nel corso dell’ultimo secolo ha portato l’opera ad assurgere – a torto o a ragione – ad una sorta di simbolo dell’intero patrimonio storico-artistico conservato nella chiesa di santo Stefano per quanto ricco e variegato esso sia, parrebbe che la pittura durante la plurisecolare vita dell’insediamento agostiniano non avesse goduto di una particolare fortuna, anche sul semplice piano devozionale, essendo l’altare attorno ad essa eretto semplicemente ricordato dalle fonti come Madonna di sacrestia.

E’ cosa oramai nota come committente dell’opera sia stata la famiglia Federighi originaria di Sovigliana come attesta la presenza dello stemma sul pilastro sinistro della porta di sacrestia, verosimilmente in origine in coppia con uno analogo sull’altro lato, scomparso.

Nonostante le lacune, lo stemma appare sostanzialmente uguale all’arme lapidea che tuttora si intravede, sia pure con difficoltà risultando nascosta dal massiccio emblema settecentesco dei Pistolesi, al sommo dell’arcata della cappella di san Nicola da Tolentino, anch’essa concessa sempre nello stesso 1401 ai Federighi (fig.1a-b).

 

 

 

Lo stemma appare nella sua forma più antica, d’azzurro, con sei palle d’argento, analogo anche a quello presente nella predella della Madonna con Bambino antica pala d’altare della chiesa di santa Maria a Spicchio, non lontana da Sovigliana, opera tardo trecentesca riferibile a Jacopo di Cione 1 (fig.2).

 

 


1 Archivio di Stato di Firenze, Ceramelli Papiani, fascicolo n. 1957; sulla poco conosciuta Madonna di Spicchio, vedi  Siemoni, Chiese, Cappelle, Oratori del territorio empolese, Santa Croce sull’Arno, 1997, p.135.


 

Nei primi anni del Quattrocento si stava portando avanti l’edificazione del complesso agostiniano ed erigendo gli altari della chiesa anche allo scopo di far fronte alle ingenti spese che l’opera comportava tramite lasciti e donazioni.

Nel 1401 Matteo di Benozzo Federighi fonda un benefizio per mantenere un altare dedicato al suo proprio eponimo presso la sacrestia del cui ricordo resta la quattrocentesca lunetta con l’evangelista raffigurato a schiacciato al sopra del lavabo in pietra serena (fig.3) 2.

Il contratto, rogato nel giugno di quell’anno, prevedeva un uffizio perpetuo all’altare nonché la festa di san Matteo basandosi su parte dei proventi derivanti dalla “nave di Sovigliana”, verosimilmente un’imbarcazione che collegava le opposte rive dell’Arno. Non è ben chiaro fin quando dovette protrarsi il patronato dei Federighi ma crederei non oltre la metà del secolo poiché nelle testimonianze posteriori il loro ricordo pare del tutto scomparso.

Questo parrebbe indirettamente confermato dal preciso inventario di arredi, stilato nel 1508 e postillato sino al 1512, in cui la famiglia non è mai ricordata oltre che dall’alienazione della “nave” nel 1503 per cui, al più tardi a tale data, l’uffiziatura era da considerarsi cessata.

In questo lasso di tempo, verosimilmente attorno al 1424 come comunemente si ritiene, pressochè in contemporanea con l’esecuzione del ciclo con Storie della Croce nella vicina cappella di sant’Elena, Masolino dovrebbe aver affrescato la nostra lunetta.

Come ebbi a rilevare, la committenza dell’opera spetta ai Federighi, forse allo stesso Matteo o al più ai nipoti Giovanni e Bartolomeo, suoi eredi, come testimonia la presenza dell’arme familiare affrescata sul plinto del portoncino d’accesso alla sacrestia, in precedenza confusa con le insegne medicee 3.

 


2 In merito si veda quanto ebbi a scrivere a suo tempo in: Santo Stefano… cit., 34-36.

3 Si veda, a puro titolo indicativo, quanto ricorda Rosanna Proto Pisani la quale per prima accolse il riferimento da me proposto ai Federighi in: Masolino a Empoli, Zanini, Castelfiorentino, 1987, 87 nota 1.


 

Questo desta alcune perplessità riguardo alla possibile cronologia della pittura poiché, stante l’erezione dell’altare nel 1401, parrebbe strano che per eseguire il piccolo affresco si sia atteso oltre un ventennio, circostanza forse da porsi spiegarsi con la morte di Matteo Federighi ed un suo possibile la- scito testamentario del quale a tutt’oggi però non resta traccia.

Ad ogni modo, l’opera, certo anche a seguito della scomparsa o quantomeno del disinteresse dei patroni, dovette cadere nel più completo oblio poiché non è mai rammentata dalle fonti note. Per proseguire la narrazione dobbiamo attendere molto tempo, sino alla metà del Seicento.

Un tale insolito silenzio potrebbe tuttavia spiegarsi con la diretta cura dell’altare da parte degli stessi agostiniani in quanto facente parte della sacrestia alla quale era adibito un apposito frate pur restando il silenzio delle fonti note.

A metà Seicento veniamo a sapere come, approfittando della naturale rientranza causata dal breve transetto dell’edificio, al di sopra dell’ingresso di sacrestia in precedenza vi era stato collocato l’organo della chiesa di cui resta ancora visibile la cantoria in una foto scattata nel 1943 e conservata al Gabinetto Fotografico della soprintendenza fiorentina (fig.4) 4.

 

 


4 Archivio del Gabinetto fotografico della Soprintendenza di Firenze, Prato e Pistoia, n. 31226.


 

Nell’ottica del riassetto controriformato sin dalla fine del secolo precedente gli agostiniani avevano cercato – con successo – di collocare cappelle e altari presso le principali famiglie della ricca borghesia cittadina quali Zeffi, Scarlini, Salvagnoli ed altri.

L’altare della Madonna di sacrestia pare non aver avuto particolari richieste, ulteriore conferma della scarsa considerazione in cui questo era tenuto.

Nel 1644 fu infine richiesto da Jacopo Cocchi, il quale poi ebbe a mutar parere forse proprio a causa della presenza dell’organo il quale avrebbe probabilmente ostacolato l’erezione di un altare lapideo analogo a quelli presenti in chiesa. La situazione si risolse con un nulla di fatto, per cui il Cocchi semplicemente mutò altare.

Nel 1658 il priore agostiniano Francesco Franchi, donatore dei confessionali che tuttora si vedono in chiesa, si offrì di erigere il nuovo altare ottenendo al contempo di spostare l’organo sulla parete in fondo alla chiesa.

Terminato alcuni anni dopo, 1661, al suo interno fu posta una grande tela, ora nel coro a seguito della distruzione dell’altare, raffigurante i santi Antonino, Biagio, Stefano, Gabriele, Chiara da Montefalco in adorazione appunto dell’affresco quattrocentesco del quale la piccola finestra rettangolare posta centralmente alla tela lasciava vedere solo le due figure principali (fig.5).

La corretta conoscenza di alcune fonti (Pini, Carocci, Pogni) mi permise a suo tempo di rintracciare firma e data dell’autore altrimenti difficilmente visibili nello strumento da cardatore – simbolo di san Biagio – elegantemente sorretto dall’angioletto in primo piano, Giacinto Botteghi 1664, pittore fiorentino dal non troppo originale cortonismo.

Fu con ogni probabilità in questa occasione che l’affresco fu staccato a massello, cioè con l’intera muratura, e rialzato di circa un metro allo scopo di inserirlo entro il nuovo altare al centro della tela (fig.6) secondo una tipologia variamente attestata, anche nella stessa chiesa agostiniana, dove la quattrocentesca tavola di Bicci di Lorenzo con san Nicola da Tolentino restò compresa all’incirca nello stesso periodo nella tela eseguita da Francesco Furini 5.

 

 

Nel 1943, durante l’imponente campagna di ricerche e restauri intrapresa da Ugo Procacci fu eliminato l’altare lapideo ripristinando un contesto pseudo quattrocentesco in linea col gusto del tempo.

Fin qui la storia.

Ad onta di illustri viaggiatori che ebbero la sorte di transitare per Empoli nella seconda metà dell’Ottocento (Cavalcaselle, Eugène Müntz) pare nessuno di essi ebbe a notare quella pittura che di lì a poco invece sarebbe divenuta così celebre.

Nicolò Vannucci, nel redigere nel 1818 un sia pur molto approssimativo e ricco di errori Inventario, non la cita in alcun modo; Carlo Pini, regio ispettore delle Belle Arti, nel suo Inventario redatto invece con grande precisione nel 1863, si limita a definire l’affresco dipinto pregevole relegandolo tuttavia nell’anonimato e dedicando più righe alla tela del Botteghi che ancora lo comprendeva 6.

Fu per primo Bernard Berenson nel 1902 ad attribuirne la paternità a Masolino dopo che l’anno precedente l’affresco era stato riferito a Masaccio dallo Schmarsow. La scoperta nel 1905 da parte di Giovanni Poggi del pagamento fatto a Masolino nel 1424 come saldo per il ciclo delle Storie della Croce, amplificata poi da Odoardo H. Giglioli l’anno seguente, costituirono le basi su cui andò ad appuntarsi l’attenzione della critica, interesse ben testimoniato di lì a poco (entro il 1912) da un rapido quanto misterioso passaggio in città di Gabriele d’Annunzio il quale citò di sfuggita la pittura ne Le faville del maglio edito appunto quell’anno 7.

 


5  Siemoni, Santo Stefano….cit. pp.130.133.

6 Inventario formato da Noi, Vicario Regio di monumenti di belle arti esistenti nei pubblici stabilimenti… Chiesa di Sant’Agostino; Chiesa di Santo Stefano – Empoli Compilato dal Regio Ispettore Carlo Pini, entrambe conservati presso l’archivio dell’Ufficio Catalogo della soprintendenza Eugene Munz cita di sfuggita la chiesa agostiniana ricordando la Presentazione al tempio di Jacopo Chimenti e l’Annunciazione marmorea di Bernardo Rossellino (Eugène Münz, Firenze e la Toscana, Milano, Treves, 1899, pp.83-84 pubblicato da Mario Bini sul Bullettino Storico Empolese n.6, 1959, col titolo: Empoli “fin de siecle” nelle osservazioni di uno scrittore francese, pp. 465- 475. Interessante rilevare come, anche allo stesso Bini, parve insolito come Al Muenttz, di solito così attento, passò inosservata la splendida lunetta mariana di Masolino. Ivi, p.471 nota 6. Su Masolino cfr. anche: G. Poggi, Masolino e la Compagnia della Croce, in: Rivista d’Arte, III, 1905, pp.46-53; O. H. Giglioli, Empoli artistica, Firenze, Lumachi, 1906, pp.136-138.

7 Sulle vicende attributive rimando volentieri a quanto ebbe a scrivere Rosanna Proto Pisani, in: Masolino a Empoli…cit. Questa la completa citazione pubblicata sul Corriere della Sera del 3 marzo 1912: L’ avevo conosciuto nella Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine, fior di giaggiolo chinato sotto la querciosa strapotenza masaccesca, ne avevo ricevuto in cuore tutta la castità della lunetta sopra l’altare in Santo Stefano d’Empoli, ma non avevo tremato di gioia e di meraviglia come dinanzi a quella pallida Erodiade che riceve sulle ginocchia il capo del Precursore seduta sotto la loggia ove le donzelle sbigottiscono. Quivi il colore assumeva il carattere delle apparizioni.


 

Accertata la committenza dell’opera, circoscritta attorno al 1424 la sua esecuzione, questa è generalmente confermata per via stilistica grazie al confronto con altre pitture quali la nota Madonna Boni-Carnesecchi conosciuta anche come Madonna di Brema datata 1423 (figg.7a-b).

 

 

La piccola tavola, cardine della cronologia masoliniana, a mio avviso, pur presentando evidenti assonanze nel volto delle due figure mariane, evidenzia rispetto all’affresco una minor solidità chiaroscurale che mal si adatta ad un solo anno di distanza secondo la datazione comunemente accettata.

Per il resto la pittura non credo abbia altro da rivelare da questo punto di vista, avendone già numerosi studiosi evidenziato i colori soffusi, l’eleganza compositiva, la solidità quasi masaccesca del Bambino quasi a compensare l’aristocratica e principesca Vergine la cui eterea delicatezza è accentuata ancor più dalla perdita del blu di lapislazzulo aggiunto a secco che ne caratterizzava in origine la veste.

In questa sede vorrei invece sviluppare un aspetto dell’opera mai messo nella dovuta evidenza.

Recentemente osservai come il fondo sul quale si stagliano le eleganti figure fosse in origine dorato (fig.8), non tanto per ricreare l’effetto di un mosaico come è stato affermato ma, invece, più logicamente, quello di una pittura su tavola a fondo oro.

Nella medesima circostanza ebbi a soffermarmi sulla corniciatura che in origine doveva includere la lunetta, oggi parzialmente visibile sulla destra ma idealmente completabile senza distacarsi troppo dal vero.

Doveva trattarsi di un’ edicola cuspidata, provvista lateralmente di slanciati pinnacoli e percorsa da acanti elegantemente arricciati. La parte superstite evidenzia un’elaborata corniciatura in marmo bicromo, bianco e – forse – verde, rafforzando quindi il senso di una vera e propria architettura marmorea (fig.9).

 

 

Non conosco esempi pittorici coevi affini; il solo caso che mi torna alla mente è il noto affresco eseguito da Pietro Lorenzetti attorno al 1315 nella basilica inferiore di Assisi, la Madonna tra i santi Francesco e Giovanni Battista in cui il pittore senese imita un trittico a fondo oro in cui compare anche una cornice architettonica sia pure – ovviamente – di diverso gusto e stile (fig.10).

 

 

In virtù delle origini umbre di Masolino e della notorietà della basilica francescana e dei tesori d’arte in essa raccolti, non potrei escludere la conoscenza da parte sua di tale opera ponendomi dei legittimi interrogativi su di una possibile influenza della pittura senese nei confronti dell’affresco.

Inoltre, riflettendo come la lunetta, inserita in origine in un’architettura perfettamente illusiva, si trovi – allora come ora – perfettamente in asse con l’ingresso principale di chiesa al tempo unico accesso all’interno dell’edificio, mi è tornato alla mente quanto ebbi a leggere anni fa a proposito della Trinità dipinta da Masaccio a pochissimi anni di distanza rispetto al nostro affresco nella navata sinistra di santa Maria Novella.

Tale notissima pittura, oltre al tema sacro, comprende la creazione perfettamente illusiva di un altare sul quale assistiamo alla miracolosa apparizione delle figure divine.

La scena in origine pare fosse stata concepita in rapporto ai frati i quali accedevano in chiesa dal convento tramite una porta esattamente sulla parete opposta creando pertanto un effetto ottico di grande suggestione emotiva oltre che di notevole abilità prospettica.

Estremamente intrigante l’ipotesi formulata recentemente da Cristina Danti a seguito del restauro della Trinità secondo cui, basandosi su precise osservazioni tecniche ed esecutive, l’affresco potrebbe essere anticipato di qualche anno, verso il 1425, e quindi a strettissimo contatto con la lunetta empolese 8.

 


 

8 Danti, La Trinità di Masaccio, il restauro degli anni Duemila, Firenze, Edifir, 2002.

 


 

Pur non volendo stringere i possibili contatti tra Ie due opere è innegabile che la nuova datazione proposta per la Trinità porterebbe a posticipare la lunetta rispetto alla datazione comunemente accettata ma d’altra parte nulla suffraga con certezza che Masolino l’abbia dipinta in contemporanea con le Storie della Croce.

Sempre in via ipotetica, se ciò fosse accaduto non dovrebbe essere avvenuto oltre il settembre 1425 quando questi si recò in Ungheria al seguito di Pippo Spano; d’altra parte niente impedisce di datarla al suo rientro in patria, nel 1427, prima della partenza per Roma anche se riterrei più probabile la prima ipotesi.

Il mio pensiero è che Masolino abbia voluto creare qualcosa di simile all’opera masaccesca altrimenti non si comprenderebbe l’insolita e quanto mai rara scelta di dorare il fondo della pittura con un procedimento non comune, circostanza che, a quanto mi risulta non compare in altre opere del pittore ma neppure nella coeva tradizione fiorentina, venendo quindi a costituire un curioso quanto particolare unicuum stilistico da parte sua. In questo momento la nostra attenzione si sta appuntando sulla lunetta affrescata ma credo sia doveroso ricordare come il problema dell’intero ciclo pittorico che in origine decorava il transetto in prossimità della sacrestia sia tuttora irrisolto ed in genere glissato dagli studiosi.

Masolino, in tempi tutti da verificare, ebbe infatti a dipingere la parete posta alla destra della lunetta del cui ciclo resta solo il noto frammento col cosìddetto sant’Ivo con i pupilli seguendo la felice intuizione di Ugo Procacci pur restando da verificarne l’attendibilità storica poiché nessuna dedica a tale santo compare mai nella chiesa agostiniana.

Va inoltre ricordato come anche a sinistra della sacrestia si trovano vari resti pittorici: un piccolo Profeta entro polilobo di incerta attribuzione e, sul pilastro, varie sinopie tra cui un’Annunciazione probabilmente di poco più antica rispetto alla lunetta.

Le domande, al momento senza risposta, riguardano proprio il ruolo avuto da Masolino nei cicli affrescati in questa parte di chiesa: subentrò a uno o più pittori i quali avevano iniziato l’opera o si trattò di esecuzioni contemporanee e tra loro indipendenti o invece del lavoro di una stessa equipe?

Vorrei poi soffermarmi sulla parte architettonica, anch’essa a torto trascurata, complice l’eleganza compositiva della scena in cui la coppia di angeli accenna dolcemente a seguire il percorso acuto della lunetta dove la centralità dei due protagonisti in asse col vertice della piccola edicola pare richiamare la solennità classica dei frontoni templari.

La pittura appare modernamente studiata in rapporto alla direzione della luce proveniente dalla finestra posta nella limitrofa cappella della Purificazione, illuminando la parte sinistra del piccolo affresco, mostrando una concezione innovativa che, in quel giro di anni, è evidenziata dal solo Masaccio.

Se riterrei appurato il carattere illusivo della cornice architettonica, vorrei ora richiamare l’attenzione sulla tipologia stessa che essa presenta, così vicina a tanta architettura realmente edificata nella Firenze del secondo-terzo decennio del Quattrocento.

 

 

 

In particolare mi tornano alla mente alcune edicole di Orsanmichele o ancor di più la celebre Porta della Mandorla lungo la fiancata settentrionale del duomo fiorentino il cui cantiere, iniziato sullo scorcio del secolo precedente, ebbe a concludersi nelle sue linee essenziali proprio nell’arco di tempo (1423) in cui Masolino potrebbe aver posto mano all’affresco empolese (fig.11) in cui ritrovo i medesimi elementi compositivi e decorativi in modo talmente puntuale da non poterlo ritenere un semplice caso (fig. 12).

Fermo restando la comprovata familiarità dell’allora giovane pittore umbro con Lorenzo Ghiberti e di conseguenza col coevo mileau di scultori, e non solo, che gravitavano attorno a questi al tempo della prima porta del battistero, mi preme rimarcare anche in tale frangente l’unicità dell’opera all’interno del non amplissimo corpus masoliniano.

A lungo la critica, comprensibilmente, si è unicamente concentrata sui personaggi dipinti da Masolino con inconsueta abilità e rara eleganza, chiaro segno di un autore oramai affermato e padrone dei propri mezzi espressivi limitandosi a considerare la cornice un mero dettaglio decorativo. Vorrei marcare ancora una volta l’unicità della pittura poiché credo che questa sia la sola opera nota di Masolino a presentare un legame così stretto con l’architettura.

Difatti questa non vi compare come semplice sfondo narrativo o paesaggistico ma diviene parte integrante della pittura stessa nell’accentuarne il forte aspetto illusivo per cui la cornice non costituisce un semplice dettaglio ma ne diviene parte integrante venendo a creare un raffinato quanto per l’epoca precoce troempe l’oeil raggiungendo quel forte aspetto di mimesi secondo un gusto oramai pienamente rinascimentale, contribuendo a sfatare – se fosse ancora necessario – il mito di un Masolino delicatamente adagiato sulle eleganze tardogotiche.

 

 


 

Referenze fotografiche

 

Foto 2a, 7 a, 10, 11, 12a Archivio Valfredo Siemoni
Foto 1a-b, 3, 6, 7 b, 8, 9, 12b © Alena Fialovà
Foto 4, 5, Gabinetto fotografico SBAPSAE Fi, n. 31226

 


 

Di admin

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