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Christiane Apprieux, La tempesta, olio su tela, 1997, cm 12 x 23

 

La poesia che accompagna la pittura, come quando Baudelaire raccontava gli impressionisti o Klee cercava nei suoi dipinti le strade meravigliose dei titoli.

O la pittura che si insinua nella poesia: nascono insieme, come gemelli, nelle ansietà del raccontare o del simulare. Gioco di specchi e di superfici. Giochi infiniti dell’ambiguità.

E la pittura da sempre è simulazione, e la poesia da sempre è ambiguità. Da Altamira, da Omero, fino a Rimbaud e a Mirò.
Fino ai giorni che sono nostri.

I colori semplici che parlano, distesi in superfici di nuvola. Dove Sansone lascia appena il profumo del suo miele e un mare distende le sue onde.

Non sai mai se regala o nasconde, la superficie di musica del mare. Di certo è un gioco infinito di luce, dove le onde si illudono di arrivare alla loro meta, che non esiste se non nel loro inatteso scomparire.

 

Christiane Apprieux, Les abondantes chevelures, carboncino, 2000, cm 15 x 21

 

E i disegni, che si aprono in campiture percorse, intorno a modulate aggregazioni di curva, per metamorfosi colorate di forme: cercano e raccontano volumi di dialogo o fenici senza colpa.
Che sempre rinascono dalle loro ceneri di luce.

L’ambiguità è danza e la musica è silenzio, mentre rimane dentro le nostre illusioni la sensazione di un incontro che ci cambia: ci sospende per un attimo, il consapevole dono della bellezza, che non ha regole né continuità: appare e scompare, semplice e improvvisa. Come un amore.

 


 

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