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Poetiche occidentali e filosofia orientale : Yves Klein

di GRAZIA BONOMO

(27.06.2010)

Klein usava i termini Revolution Bleue e Époque pneumatique per annunciare non delle fasi stilistiche ma un’evoluzione sociale. Nel 1958 scrisse una lettera a Eisenhower per proporre La Revolution Bleue.

 

“Il cielo e la terra sono fusi nell’analogia dell’arte che avvia la sensazione a comporsi nella sfera dell’intelligibile e tende a quell’ultima perfezione in cui il contemplante scorge tutte le cose rispecchiate in se stesso.”
Ananda K. Coomaraswamy

 

Premessa

In più occasioni Coomaraswamy, il grande studioso di arte orientale, si è espresso in termini di condanna nei confronti della prassi artistica occidentale, colpevole di tradire quella funzione analogica capace di fondere il cielo e la terra. Tale tradimento secondo Coomaraswamy non è recente e risale sino alla cultura rinascimentale, mentre nell’arte orientale – quella autentica non ’contaminata’ dall’Occidente – ancora oggi troverebbe espressione l’originaria esperienza artistica umana, ovvero quella che egli definisce la lingua universalmente intelligibile delle idee basilari.

In altre parole il tradimento occidentale è stato quello di un affrancamento nei confronti di un’arte intesa come canone religioso tradizionale e il conseguente progresso dell’espressione individuale e arbitraria dell’artista: dove è nato l’Artista con la A maiuscola è morta l’Arte con la A maiuscola. Il giudizio di Coomaraswamy nei confronti dell’arte occidentale è stato senza dubbio ingiusto, ma al di là di un integralismo chiaramente provocatorio non manca di fondamento.

Peraltro egli auspicava un nuovo rapprochement tra Occidente e Oriente: un ritorno per l’Occidente a dei valori originari mediato dal confronto con la cultura orientale che ne è tuttora in parte portatrice: “Non che l’Asia possa servire da modello all’Europa: gli stili ibridi non sono che caricature delle forme autentiche, mentre un’assimilazione genuina di nuove idee dovrebbe e può sfociare in uno sviluppo attraverso forme completamente diverse da quelle originali”(1).

Yves Kein, “Das blaue Schwammrelief”, cm 80 x 60

Il pittore dell’immateriale: “I miei quadri sono le ’ceneri’ della mia arte.” L’opera di Yves Klein rappresenta uno tra i gesti più radicali entro la prassi artistica di questo secolo. Con una drastica riduzione negli strumenti individuali di espressione, formulò la monocromia quale unico atto pittorico rivolto a una progressiva dissoluzione non solo della figurazione ma dell’opera d’arte stessa. La sua carriera coprì a mala pena l’arco di un decennio; le prime annotazioni sull’idea di una pittura monocroma datano 1951, ma l’attività come artista è documentata solo a partire dal 1954 e si concluse con la morte a 34 anni nel 1962.

Un arco di tempo sufficiente a imporre la sua opera sulla scena parigina ed europea come una sorta di tabula rasa che ha prodotto un nuovo impulso alla ricerca artistica degli anni 60’. Klein non approdò peraltro al monocromo attraverso la pittura, approdò piuttosto alla pittura e all’arte attraverso la monocromia quale corrispondente visuale di una propria mistica, intendendo l’espressione del colore puro come trascendenza dal mondo fenomenico: “la monocromia – ha scritto – è la sola maniera fisica di dipingere che permette di raggiungere l’assoluto spirituale“(2).

Una concezione ontologica dell’arte conseguente a un personale sincretismo attuato tra differenti sistemi spirituali: in particolare il pensiero esoterico di Max Heindel (fondatore in California della Società Rosacrociana di Oceanside), che integra un ermetismo ispirato alla filosofia dei Rosa Croce del XVII secolo con elementi di derivazione indiana e tibetana; la pratica del Judo e tramite questa l’influenza del Buddhismo Zen (3). Lo studio del Judo iniziato nel 1947 contemporaneamente all’interesse per Heindel, rappresenta l’iniziale vocazione di Klein e la prima esperienza essenziale di quell’ espace immatériel che dominò tutta la sua opera. Come ha scritto Pierre Restany: “L’autodisciplina del Judo ha strutturato la sua personalità, gli ha donato con la padronanza del sé la facoltà di concentrazione, di impregnazione e di recupero, sulle quali ha basato il proprio metodo di sensibilità“(4).

Dopo essere diventato cintura marrone al termine di cinque anni di pratica in Francia, Klein si recò a Tokyo nel 1952 per apprendere il vero spirito del Judo direttamente alla fonte, studiando presso l’istituto Kodokan fondato nel 1882 dal famoso Jigoro Kano. Iniziatore dell’arte marziale in senso moderno, Kano trasformò le tecniche attacco-difesa dello Jiujitsu, ormai divenuto alla fine del secolo scorso una mera forma di combattimento, qualificando il Judo come una ’Via’ di ricerca etica e spirituale oltre che una disciplina fisica. Il termine Judo coniato da Kano significa infatti ’Via dell’adattabilità’, mentre Jiujitsu è più semplicemente ’abilità nell’arte dell’adattabilità’ (ju o jiu derivati da yawara: adattabilità o cedevolezza, adeguarsi alla forza avversaria per ottenerne un pieno controllo); una nobilitazione che intendeva ricollocare questa disciplina accanto alle altre arti tradizionali giapponesi sviluppatesi sotto l’influenza del Buddhismo Zen. Ha scritto Kano: “Il Judo è la Via (Do) più efficace per utilizzare la forza fisica e mentale. Allenarsi nella disciplina del Judo significa raggiungere la perfetta conoscenza dello spirito attraverso l’addestramento attacco-difesa e l’assiduo sforzo per ottenere un miglioramento fisico-spirituale. Il perfezionamento dell’io così ottenuto dovrà essere indirizzato al servizio sociale, che costituisce l’obiettivo ultimo del Judo“(5).

Klein soggiornò a Tokyo 15 mesi durante i quali riuscì ad ottenere il grado di cintura nera 4° dan, malgrado il Kodokan non avesse accettato la validità del diploma francese obbligandolo a ricominciare l’apprendistato dalla cintura bianca. A sua volta la Federazione Francese al rientro di Klein a Parigi nel 1954, non riconobbe il titolo ottenuto in Giappone e assunse una posizione di ostracismo vanificando ogni progetto di realizzazione nel Judo (6).

È negli anni di pratica intensa dell’arte marziale che Klein formula la propria concezione della pittura come percorso ontologico. Al soggiorno a Tokyo risalgono i primi tentativi monocromi di cui si ha testimonianza: opere a pastello nei colori primari realizzati su fogli di carta da lettere. Ma il primo passo verso la carriera artistica, immediatamente conseguente lo sfumare della possibilità di una carriera di successo nel Judo, fu la pubblicazione nel 1954 di un fascicolo intitolato Yves: Peintures con dieci tavole monocrome di diversi colori realizzate con dei fogli di carta colorata (non con riproduzioni fotografiche di dipinti), con cui presenta la propria pittura e la qualifica di artista prima ancora di avere in realtà materialmente dipinto delle tele. Un manoscritto dello stesso anno documenta inoltre un progetto per un film intitolato La guerre, de la ligne et de la couleur, ou vers la proposition monochrome (la guerra della linea e del colore o verso la proposizione monocroma) in cui è espressa in modo compiuto la dimensione mistica della monocromia che metterà in pratica negli anni successivi.

Il testo progettuale del film risale sino all’avvento dell’espressione segnica da parte dell’uomo preistorico – ossia all’impronta della mano nelle grotte del paleolitico superiore – identificandolo come il momento in cui l’essere umano afferma attraverso il segno la propria identità psicologica e introduce la linea; di conseguenza da inizio alla tradizione figurativa uscendo dal ’reame inviolato’ del colore puro e perdendo la propria ’visione’. Una perdita analoga a quella dell’Eden in seguito al peccato originale.

Con la negazione della linea in favore di una impersonale campitura monocroma, Klein ricerca l’accesso a una dimensione visibile del trascendente; un ritorno allo spazio spirituale del colore puro e della visione ancestrale. Il monocromo è l’espressione di un’energia immanente al colore stesso, la cui manifestazione pittorica nella figurazione tradizionale verrebbe limitata dal segno e dai problemi formali e compositivi conseguenti al segno: “Sono giunto a dipingere il monocromo […] perché sempre di più davanti a un quadro, non importa se figurativo o non figurativo, provavo la sensazione che le linee e tutte le loro conseguenze, contorno, forma, prospettiva, componevano con molta precisione le sbarre della finestra di una prigione.” Ma anche due soli colori su una stessa tela secondo Klein forzerebbero “il lettore a non entrare nella sensibilità, nella dominante, nell’intenzione pittorica” obbligandolo ad assistere “sia allo spettacolo del combattimento tra questi due colori, sia a quello della loro perfetta intesa.”

Il concetto di combattimento tra due forze presenti sulla tela sembra essere direttamente derivato dal Judo, ove la riduzione pittorica ad un unico elemento cromatico corrisponderebbe a un atto espressivo non affetto da condizionamenti psicologici o soggettivi: è pura azione incondizionata esattamente come lo è la giusta azione nel Judo, nell’arte della calligrafia giapponese o nella pittura Zen sumi-e (pittura ad inchiostro di china). Se il monocromo di Klein sotto l’aspetto formale è poco assimilabile alla pittura tradizionale giapponese che trova fondamento proprio nel segno, nella sua accezione mistica e analogica ne incarna gli stessi principi. Peraltro anche la sumi-e è una pittura ’monocroma’ e l’inchiostro nero sul foglio di carta bianca, come ha scritto Seiroku Noma, “sotto gli occhi di chi lo contempla, si trasforma in un’immagine della natura – una particella della natura, certo, intravista appena come attraverso una bruma, ma un frammento capace di guidare lo spirito alla magnificenza del tutto. La sumi-e, riducendo tutti i colori a sfumature di nero, paradossalmente riesce a farne sentire le genuine vibrazioni” (7) .

Esattamente come il monocromo nelle intenzioni di Klein si trasforma nella visione del ’mondo del colore’. Un processo in cui Klein riconosce sincreticamente sia la possibilità offerta dalla Via (Do) Zen delle arti giapponesi di realizzare qui ed ora (attraverso il corpo fisico) la trascendenza dall’ego individuale e l’unione con il tutto; sia l’ideale rosacrociano che annuncia per l’umanità intera l’imminente superamento del ’mondo della forma’ (corpo fisico) per aprirsi al ’mondo del desiderio’ (unione con il tutto), ultimo stadio superiore dell’evoluzione umana che Heindel stesso prima di Klein definisce come ’il mondo del colore’.

Nel 1956 con l’esposizione parigina alla “Galerie Colette Allendy” intitolata Yves: Proposition monochrome, Klein iniziò a far conoscere la propria opera ed ebbe la possibilità di verificare l’impatto appercettivo della pittura monocroma sul pubblico. In seguito alla constatazione che i 10 monocromi esposti di diversi colori producevano nell’insieme l’effetto di una ’policromia decorativa’, impedendo perciò allo spettatore di penetrare nella contemplazione del colore, l’artista operò una ulteriore riduzione semantica decidendo di utilizzare il blu come unico colore: “Il blu non ha dimensioni, è fuori dalla dimensione, mentre gli altri colori ne hanno. Ci sono degli spazi psicologici, il rosso per esempio presuppone un fuoco di irraggiamento del calore; tutti i colori portano a delle associazioni in maniera psicologica a delle idee concrete, materiali o tangibili, mentre il blu ricorda al limite il mare e il cielo, dopo tutto ciò che è più astratto nella natura tangibile e visibile.”

Eletto a colore assoluto, il blu è per Klein l’espressione non solo del colore puro estraniato da ogni aspetto spettacolare di combattimento o di intesa, ma anche di ciò che egli definì come sensibilité picturale (sensibilità pittorica): un’energia intangibile e sovraindividuale che l’artista trasmette all’opera d’arte e questa allo spettatore per ’impregnazione’: “Il periodo dei monocromi blu è stato il frutto della mia ricerca dell’indefinibile in pittura […] le mie esperienze monocrome effettuate con altri colori oltre al blu non mi hanno mai fatto perdere di vista la verità fondamentale dei nostri tempi, ovvero che la forma non è ormai più un semplice valore lineare ma un valore di impregnazione“.

Il valore di impregnazione che sostituisce quello lineare è per Klein una conquista della nostra epoca, il compimento e l’esaustione di una tradizione visuale. E dichiara una concezione della forma che trascende la presenza fenomenica, bidimensionale o tridimensionale, dell’opera d’arte: la forma è paragonabile a una spugna che si impregna in ogni cellula di un’energia universale trasmessa dall’artista (le numerose opere realizzate con spugne marine imbevute di colore sono il simbolo di tale processo), in questo modo diventa espressione visibile ’dell’indefinibile’, del privo di forma e dimensione.

Una concezione che presenta delle affinità con il Judo e le arti tradizionali giapponesi. Jigoro Kano definì il proprio metodo ’il migliore impiego dell’energia’ (Sei ryoku zen’yo) e formulò i kata (forme) insistendo sia sull’assimilazione della tecnica sia sullo ’stile di espressione’ (Hyogen-shiki), secondo un’astrazione simbolica del movimento che prende a modello le manifestazioni della natura e dell’universo in modo analogo all’elaborazione del gesto e alla caratterizzazione dei personaggi nella tradizione del teatro Nô: “nel Kodokan-judo abbiamo Itsutsu-no-kata [forme dei cinque], di cui le ultime tre forme mettono in evidenza lo stile di espressione, ispirandosi alla raffigurazione di un’idea piuttosto che al contenuto del Bujitsu [l’ultima forma per esempio è una rappresentazione allegorica dell’acqua e raffigura le manifestazioni dell’energia dell’universo]; lo stesso accade in certe forme del Ju-no-kata [forme dell’adattabilità], i cui gesti mimano di raccogliere l’energia dell’universo per scaricarla sull’avversario“(8) L’apprendimento del Judo procede attraverso la ricerca di un equilibrio tra kata e randori, ossia ’mettere dentro’ e ’tirare fuori’ la forma di una tecnica, o forma e non forma. Analogamente per Klein si deve impregnare e fissare l’energia.

Zeami il grande Maestro del teatro Nô del XV secolo, parla di stile e non stile (fû e mu-fû): “quando avrete sviluppato nel modo miglore le vostre facoltà, quando sarete diventati l’abilità in persona e sarete penetrati nella sfera della scioltezza [inerente] al grado della maturità, l’effetto che produrrete sullo spettatore innalzandovi, indipendentemente dalla tecnica della vostra interpretazione, fino al grado della non-coscienza e dello stile assoluto (mu-fû), sarà, senza dubbio, abbastanza prossimo al meraviglioso [myô: apparenza priva di forma](9)”. Anche per Klein l’opera d’arte deve tendere al ’meraviglioso’, all’apparenza della ’sensibilità pittorica’ oltre la forma, e l’artista deve operare un distacco dall’ego condizionato e psicologico per attingere alla fonte stessa sensibilità: “Un pittore deve dipingere un solo capolavoro: se stesso, costantemente, e divenire una sorta di pila atomica, una sorta di generatore a irraggiamento costante che impregna l’atmosfera di tutta la sua presenza pittorica fissata nello spazio dopo il suo passaggio.”

L’artista, come il judoka, deve in primo luogo lavorare per perfezionare il proprio essere; scrive Jigoro Kano: “Distaccarsi dall’io è una preparazione spirituale […] Il pensiero fisso di dover vincere a tutti i costi [proiezione nel futuro] o di non essere sconfitti [legame con il passato], provoca una fissità psicologica che rende incerti e toglie la possibilità di essere disponibili all’azione. Sapersi distaccare da se stessi significa scacciare qualsiasi timore dell’avversario e permette quindi di combattere serenamente impiegando nel miglior modo l’energia [essere nel tempo presente](10)”. Allo stesso modo per Klein si deve superare il problema del combattimento tra linea e colore che può condurre a una vittoria o a una sconfitta, ed essere disponibili all’atto pittorico come presente assoluto: “La pittura non serve che a prolungare, per gli altri, il ’momento’ pittorico astratto, in una maniera visibile e tangibile. […] A poco a poco, per tentativi, quadro dopo quadro, [il pittore] arriva a vivere il ’momento’ continuamente. […] È la qualità del ’momento’ che determina la maniera di dipingere.”

La funzione dell’opera d’arte quindi non è tanto il comunicare, quanto il rendere accessibile allo spettatore l’energia del momento pittorico impregnata e fissata dall’artista nella tela. Questa concezione del processo creativo corrispose anche a una ricerca tecnica: a partire dalla fine del 1956 Klein iniziò ad usare una resina sintetica trasparente – il Rhodopas M – che corrispondeva alle esigenze di un ’mezzo fissativo neutro’ dei grani di pigmento puro al supporto della tela, capace quindi di non alterarne le qualità materiche e di non ridurre la manifestazione della sensibilité picturale. La composizione chimica del blu così ottenuto fu brevettata da Klein nel 1960 con la sigla IKB, International Klein Blue, che divenne il marchio dell’artista.

Nel 1958 Klein tentò una creazione non fenomenica dell’opera d’arte: ’la specializzazione della sensibilità allo stato materiale primario in sensibilità pittorica stabilizzata’. L’evento tenutosi a Parigi alla “Galerie Iris Clert”, è conosciuto più semplicemente con il titolo di Le vide (il vuoto): “Con questo tentativo desideravo creare, stabilizzare e presentare al pubblico uno stato pittorico sensibile nei limiti di una ordinaria sala espositiva di pittura. In altri termini creare un ambiente, un clima pittorico invisibile ma presente. […] Nello spazio della galleria questo stato pittorico invisibile deve essere in ogni punto, […] [come] irraggiamento invisibile e intangibile, questa immaterializzazione del quadro deve agire, se l’opera di creazione riesce, sui veicoli o corpi sensibili dei visitatori all’esposizione con molta più efficacia dei quadri ordinari visibili e solitamente rappresentativi, che siano figurativi o non figurativi, o anche monocromi.”

Klein restò per 48 ore chiuso da solo nelle sale della galleria e ridipinse le pareti di bianco, il non colore, per epurare lo spazio dalle energie residue delle precedenti esposizioni pittoriche e impregnarlo di una nuova sensibilità. Quello che espose fu una galleria bianca e vuota. Secondo il resoconto della mostra redatto dallo stesso Klein, Le vide ebbe una ricezione sensibile straordinaria da parte del pubblico: “Alcuni visitatori non potevano entrare come se un muro invisibile lo impedisse. […] Sovente le persone restavano delle ore all’interno senza dire una parola, certi tremavano o si mettevano a piangere.” L’epurazione dal quadro e dallo stesso colore per rendere esperibile il non-tangibile come sostanza reale, corrispose all’immaterializzazione dell’opera d’arte; un processo esattamente inverso all’atto pittorico o linguistico tradizionale che esprime una concezione vicina all’enunciato buddhista della vacuità: la forma non differisce dal vuoto, il vuoto non differisce dalla forma, la forma pertanto è vuoto, il vuoto pertanto è forma, lo stesso vale per sensazioni, percezioni, impulso e coscienza (Sutra del Cuore, Hannya Shingyo: shiki fu i ku ku fu i shiki shiki soku ze ku ku soku ze shiki ju so gyo shiki yaku bu nio ze). Scrive Klein: “Io cerco […] di creare nelle mie realizzazioni questa ’trasparenza’, questo ’vuoto’ incommensurabile in cui vive lo spirito permanente e assoluto liberato da tutte le dimensioni (11)”.

Le vide inaugurò l’Époque pneumatique (epoca pneumatica) che segnò il passaggio dal colore assoluto, il blu, al non colore della sensibilità pittorica e del superamento della connotazione formale dell’opera d’arte. Klein intraprese una serie di immaterializzazioni, come la famosa vendita delle ’zone di sensibilità pittorica immateriale’ cedute in cambio di 20, 40, 80, o 160 grammi d’oro puro in foglia. Allo stesso tempo riformulò la propria teoria cromatica entro una concezione triadica e simbolica che, oltre al blu, includeva l’oro puro (il valore economico per eccellenza e il risultato spirituale della ricerca alchemica della pietra filosofale) e il pigmento rosa (citazione del simbolismo ermetico della rosa e della croce). Una riformulazione dei colori primari – blu, giallo e rosso – dai quali derivano tutti i colori. Iniziò anche a ricercare l’espressione delle forze stesse della natura realizzando opere come le Peintures feu (ottenute aggredendo con un getto di fuoco la tela) o le Cosmogonies (’impronte atmosferiche’ della pioggia, della luce o di elementi vegetali), nelle quali ricompare il segno come superamento dell’espressione psicologica della linea: non è dovuto direttamente alla mano dell’artista, ma è un trasferimento impersonale per ’impronta’ sulla tela di una energia che si manifesta in natura in modo da “estrarre e ottenere la traccia dell’immediato dagli oggetti naturali.”

Un principio anti-figurativo che è particolarmente esplicito nelle Anthropométries (antropometrie) realizzate con il corpo umano: “Le mie modelle sono state i miei pennelli. Le ho fatte imbrattare di colore e ho fatto imprimere la loro impronta sulla tela.[…] una sorta di balletto di ragazze imbrattate su una grande tela paragonabile alla stuoia bianca dei combattimenti di Judo (12)”. Le impronte di colore sono per Klein analoghe ai segni più impercettibili di sudore e polvere che si imprimono sui tatami per le cadute durante un combattimento: un’idea che risale ai primi anni di pratica del Judo, quando – secondo la testimonianza di Arman – Klein “avrebbe desiderato imbevere i judoisti di colore blu per ottenere delle impronte nette e violente [sui tatami](13)”. Ma le antropometrie sono anche un’evocazione delle impronte delle mani lasciate dall’uomo preistorico sulle pareti delle grotte, e significarono per Klein un ritorno alla primordiale espressione segnica liberata però da ogni ’valore lineare’ – esattamente come i monocromi – per manifestare un ’valore di impregnazione’.

L’ideale di un ritorno a una condizione primordiale rappresenta l’ultima fase dell’evoluzione verso l’immateriale. Nel 1961 Klein edificò un muro e una fontana di fuoco come prime realizzazioni sperimentali entro il suo progetto più ambizioso e utopico formulato in collaborazione con l’architetto tedesco Werner Ruhnau: L’architecture d’air (l’architettura d’aria) prevedeva di impiegare, in luogo di materiali fisici e tangibili, le stesse energie della natura – acqua, aria, fuoco – come elementi di costruzione per climatizzare il globo terracqueo e l’atmosfera in modo da renderli confortevoli all’uomo; una metamorfosi del pianeta che includeva lo sfruttamento futuribile delle conquiste tecnologiche più avanzate. Immaterializzazione ultima non solo dell’arte ma anche dello stesso pianeta, L’architecture d’air è l’utopia del ritorno alle origini come trasformazione verso il futuro; una riconquista dell’Eden adamitico nella futura evoluzione spirituale e tecnologica dell’umanità intera.

Il rosacrocianesimo di Heindel prefigura l’utopia di una simile evoluzione verso ’il mondo del desiderio’; ma anche il Judo di Jigoro Kano, secondo un’utopia più pragmatica e radicata nel quotidiano, si presenta come Via di evoluzione etica e spirituale valida non solo per il singolo e non solo per la società giapponese: “la nostra ambizione è risolvere ogni problema o questione sociale applicando il principio fondamentale del Judo […] [il Judo] ci può condurre al perfezionamento dell’io, al ’progredire tutti insieme’ e alla prosperità della nazione, mirando infine al progresso e alla prosperità dell’intera umanità(14)”. Klein usava i termini Revolution Bleue e Époque pneumatique per annunciare non delle fasi stilistiche ma un’evoluzione sociale. Nel 1958 scrisse una lettera a Eisenhower per proporre La Revolution Bleue come progetto di rinnovamento del sistema governativo francese chiedendo al Presidente americano un’opera di intercessione presso l’ONU al fine di promuoverne la realizzazione (naturalmente Eisenhower non rispose).

Alla visionarietà rosacrociana della sua utopia corrispondeva uno sforzo pragmatico nell’arte indirizzato a un progresso collettivo. Parlava di se stesso come antesignano dell’artista del futuro e di un’arte ’senza problematica’ che avrebbe superato il limite fenomenico dell’espressione linguistica: “L’artista del futuro non sarà quello che, attraverso il silenzio, ma eternamente, esprimerà una pittura immensa alla quale mancherà ogni nozione di dimensione?” Credeva non nell’affermazione individuale dell’artista ma, come nel Judo si unisce la propria forza a quella dell’avversario, nella cooperazione: “Cooperare vuol dire unire la propria azione a quella degli altri in vista di uno scopo da raggiungere, lo scopo per il quale io propongo la cooperazione è l’arte. Nell’arte senza problematica si trova la fonte di vita inesauribile per la quale, se siamo dei veri artisti liberati dall’immaginazione trasognante e pittoresca del dominio psicologico che è il contro-spazio, lo spazio del passato, noi arriveremo alla vita eterna, all’immortalità. L’immortalità si conquista insieme, è una delle leggi della natura dell’uomo in funzione dell’universo. […] propongo in effetti di superare l’arte stessa e di lavorare individualmente al ritorno alla vita reale, quella in cui l’uomo pensante non è più al centro dell’universo, ma l’universo al centro dell’uomo. […] penso che l’Occidente europeo comprenderà il valore della nostra impresa immaterializzante in tempo per vivere senza tardare nel vergine, nel perenne, nella bellezza oggi.”

 

 


 

note

(1) Ananda K. Coomarasvamy, Il grande brivido, Adelphi, Milano, 1987, p.109.
(2) Per brevità elenco qui tutte le fonti delle citazioni dai testi di Klein: “Sur la monochromie”, “Manifeste de l’hôtel Chelsea”, “L’aventure monochrome”, in: Yves Klein, MNAM Centre George Pompidou, Paris, 1983; “Conférence de la Sorbonne”, in: Yves Klein , Galerie Montaigne, Paris, 1992. Negli altri casi è indicato diversamente.
(3) Un’analisi esaustiva dovrebbe considerare anche la profonda fede cattolica di Klein e l’influenza anche se tardiva della fenomenologia analitica di Gaston Bachelard.
(4) Pierre Restany, Yves Klein, Chêne Hachette, Paris, 1982, p.15. Klein iniziò lo studio del Judo nel 1947 a Nizza insieme agli amici Claude Pascal e Armand Fernandez (lo scultore noto con il nome di Arman), dedicandosi anche a letture sul Buddhismo e alla pratica ’autodidatta’ della meditazione Zen che, secondo la testimonianza di Arman, continuò regolarmente a fare sino alla morte.
(5) Jigoro Kano, “Judo Kyohon”, in: “Quaderni del Bu-Sen”, n°3, supplemento di: Kyu-shin Do, n° 31, aprile 1995, p.19.
(6) Dopo il rifiuto della federazione Klein cercò delle forme alternative di affermazione nel Judo. Scrisse un libro progettato in Giappone, dove aveva realizzato un film da cui derivare le fotografie illustrative, intitolato Les fondaments du Judo e pubblicato con l’editore Grasset. Fu invitato a Madrid da Franco de Sarabia per insegnare Judo presso la sua scuola e divenne consulente tecnico della Federazione Spagnola. Rientrato nuovamente a Parigi nel 1955 aprì una propria scuola ’amatoriale’ perché non riconosciuta dalla Federazione.
(7) Seiroku Noma, cit. in: Thomas Hoover, La cultura Zen, Mondadori, Milano, 1981, p.121. Nella conferenza che tenne alla Sorbonne nel 1959, Klein indicò l’arte della calligrafia giapponese come gesto pittorico analogo al proprio.
(8) Jigoro Kano, “Judo Kyohon”, in: “Quaderni del Bu-Sen”, n°3, supplemento di: Kyu-shin Do, n° 31, aprile 1995,, pp.150-151.
(9) Zeami Motokito, Il segreto del teatro Nô, Adelphi, Milano, 1966, p.181.
(10) Ibidem, p.31.
(11) Cit. in: T. McEvilley, “Yves Klein et les rose-croix”, cit., p.235.
(12) Cit. in: Sidra Stich, Yves Klein, versione inglese, Cantz Verlag, Stuttgart, 1994, pp.170-171.
(13) Arman, “L’esprit de la couleur”, in: Yves Klein, MNAM, cit., p. 260. Secondo Shinichi Segi, un critico d’arte giapponese che conobbe Klein sin dal soggiorno a Tokyo, l’idea delle antropometrie fu ispirata anche da una antica tecnica a impronta molto popolare in Giappone, il gyotaku, con cui si imprimono le fattezze di un pesce con l’inchiostro di china su un foglio di carta (Cfr.. Shinichi Segi, “Le réaliste de l’immatériel”, in: ibidem, p.84).
(14) Jigoro Kano, cit., pp.59-60.


 

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