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La Madonna e il Bambino nella scultura di Michelangelo

di Deoclecio Redig de Campos

 

fotografie di Giorgio Avigdor

 

Ente Fiuggi SPA

 

 

Ricorre in quest’anno 1975 il quinto centenario della nascita di Michelangelo Buonarroti, ed ovunque tale evento viene celebrato con iniziative diverse a rendere onore a colui che fu, forse, il più grande e completo artista comparso sulla scena del mondo.

L’ENTE FIUGGI S.p.A., da parte sua, ha voluto non mancare a questo appuntamento della cultura e dell’arte ed è lieto ed onorato di presentare, in tale grande circostanza, questo volume da leggere e da guardare insieme — redatto, vorremo dire, a quattro mani — da due grandi personalità della cultura: il Dottor Deoclecio Redig de Campos, Direttore Generale dei Musei, dei Monumenti e delle Gallerie Pontificie, e l’Architetto Giorgio Avigdor, fotografo d’arte.

Insieme ad una incomparabile illustrazione visiva e critica di queste opere di Michelangelo, abbiamo voluto presentare ai nostri amici anche una documentazione che riteniamo insolita ed estremamente interessante e stimolante nello stesso tempo, e dove un gruppo di lettere costituenti — oltre ad una curiosa e divertente “cronaca familiare” del sommo artista, ed uno splendido squarcio di lingua viva — anche una vivace documentazione di medicina e di ” materia medica ” degli anni Cinquecento.

In tali lettere, custodite parte presso gli Archivi del British Museum di Londra e parte alla Casa Buonarroti in Firenze, Michelangelo a lungo e  ripetutamente  informa il suo interlocutore,  il nipote Lionardo, circa  il  “male della pietra” che lo colse attorno agli anni 1548-49 e che a lungo lo tormentò sinché non trovò sollievo, cura e guarigione — dietro prescrizione del suo medico Realdo Colombo — “da una certa acqua la quale rompe la pietra”.

Un’acqua di “una fontana che è a 40 miglia da Roma”, appunto Fiuggi, allora conosciuta come la fonte di Anticoli di Campagna.

Questo volume segue ad alcuni anni di distanza una nostra prima pubblicazione Michelangiolesca, dedicata ai mirabili gruppi delle Pietà, che ebbe ad incontrare tanto favore e simpatia.

Mi auguro che anche questa nostra nuova proposta venga accolta dai nostri amici con lo stesso favore e la stessa simpatia.

CAV. LAV. AVV. FRANCO DE SIMONE NIQUESA

Presidente dell’ENTE FIUGGI S.p.A.


 

Questo volume intende presentare, in una serie di fotografie espressamente eseguite, le cinque sculture in cui Michelangelo tratta uno dei temi da lui prediletti, e cioè quello della « Madonna col Bambino ». E’ pertanto un libro da guardare più che da leggere, ed infatti il breve testo introduttivo ha solo il compito di offrire a chi ne voglia sfogliare le pagine i dati indispensabili a meglio apprezzare quelle opere ed a comprenderne il significato nell’arte del Buonarroti e del tempo in cui visse.

 


 

IL TEMA ICONOGRAFICO

 

Il tema iconografico della madre in atto di allattare e di vezzeggiare il figlioletto, può dirsi, come tale, ignoto al mondo antico greco e romano, dove la donna è, di solito, rappresentata come dea, eroina di miti, o come ritratto (per lo meno nelle opere di alta qualità), ma dove la più genuina espressione dell’amore materno non è figurativa, bensì poetica, e vive nel virgiliano: Incipe, parve Puer, risu cognoscere matrem(1).

Virgilio e le Sibille, secondo una credenza diffusa nel Medioevo, avevano in qualche oscuro modo annunciato fra i Gentili la venuta del Messia, e veramente in quel soavissimo verso par quasi di vedere anticipata l’immagine cristiana per eccellenza (con quella del Crocifisso) della Madonna col Bambino, nata sin dagli esordi della Chiesa, dalle pagine dei Vangeli, sulle pareti delle catacombe.

Il più antico esemplare finora noto di questo tema,   un frammento d’affresco,  orna  infatti  il  cosiddetto « arenario » del Cimitero di Priscilla in Roma, e vien datato alla fine del II sec. E’ di livello artigianale, e ritrae una donna seduta col bambinello al seno. Il pittore ha preso a modello un commovente, ma consueto episodio della quotidiana vita familiare, raffigurandolo senza tentar di conferirgli alcun particolare carattere distintivo. Nessuno riconoscerebbe qui la Madre di Gesù, se non le stesse accanto il profeta Balaam, col dito alzato ad indicare la stella di Giacobbe, lucente sopra il suo capo.

Maria è una figura piena di mirabili contrasti, esaltati già nel Magnificat, e cantati  da  Dante  —  con  cadenza  di  campane  a  festa  —  nella  preghiera  di San  Bernardo:

«Vergine  madre,  figlia  del  tuo  figlio, / umile ed alta più che creatura»… [Par. , XXXIII , 1-21].

Ma il contrasto fondamentale, da cui sorgono tutti gli altri, è quello fra la sua natura umana ed il divino mistero che in lei si compie, per « eterno consiglio » [ibid., 3].

E questi due aspetti della sua personalità, per la prevalenza ora dell’uno ed or dell’altro, oppure pel loro equilibrio, daranno origine ai vari tipi in cui la fantasia degli artisti volle immaginarla nel corso dei secoli e nelle diverse regioni della Cristianità.

Se l’affresco di Priscilla, dipinto nelle tenebre d’un ipogeo ed espressione quasi clandestina della Chiesa martire, mostra la Madonna nella sua umiltà, come una qualsiasi madre, quello delle Catacombe di Commodilla, eseguito nel VI sec., la raffigura nella sua regalità, seduta su un trono adorno di gemme, come una basilissa. All’avvento di questa nuova immagine concorrono due fattori di genere diverso: il primo concerne la forma ed è di carattere storico-artistico; l’altro riguarda il contenuto ed ha natura teologica, cioè l’affermarsi in Italia, fra il V e il VI secolo, dello stile bizantino, e la dottrina del concilio mariano per eccellenza, quello riunitosi ad Efeso nel 431.

Il realismo  ideale,  premessa  teorica  dell’arte classica,  favoriva  il  primo  tipo iconografico, quello « umano », ma era il retaggio di un mondo che si andava spegnendo per molte cause, non ultima il trionfo del Cristianesimo. Infatti, verso la fine del periodo tardo-antico, questo principio estetico (esclusivamente proprio della civiltà greco-latina), avendo ormai esaurito ogni sua vitalità, non poté contrastare il passo al nuovo linguaggio formale venuto dall’Oriente: quello bizantino, nato in Grecia nel V sec. dalla stilizzazione calligrafica delle forme classiche decadenti, e volto più a suggerir concetti religiosi che a fingere apparenze verosimili.

Questa stilizzazione si era attuata sotto l’influsso di correnti artistiche provenienti dall’Asia Minore, dalla Mesopotamia, dall’Egitto e dalla Persia, tutte affatto estranee alla tradizione ellenica. Era uno stile ieratico, per natura propizio al secondo tipo iconografico: quello di Maria Regina (2).

Non meno contribuì all’universale e rapido diffondersi della nuova immagine il culto più fervido e cosciente reso alla Madre di Dio (Theotokos) in seguito alla solenne definizione della sua divina maternità, decretata nel 431 dal Concilio di Efeso. Precise norme doveva poi dettare nel 787 il Secondo Concilio di Nicea circa i vari modi di raffigurare i temi sacri, e in primo luogo le effigie di Cristo e della Madonna, cangiando la forma in formula quasi liturgica e quindi pressoché immutabile (3).

Contro la soluzione data dai bizantini alla crisi tardo-antica reagì la Rinascita, restaurando non già l’arte classica (come credevano alcuni suoi teorici), ma la sua essenziale premessa estetica, ossia il realismo ideale. E ciò fin dai primissimi segni, in Cimabue, di quella corrente innovatrice che senza frattura sfocerà poi, attraverso Giotto ed i Pisano, nello stil nuovo del Quattrocento. Ben lo intese il popolo fiorentino quando portò in trionfo una sua Madonna (non si sa quale) perché era più viva, più naturale di quelle della «maniera greca» (4).

A questa evoluzione contribuì non poco, in Italia, il movimento francescano, cui si deve il cosiddetto «Crocifisso doloroso» (5), qual’è (o meglio, purtroppo, era) il mutilato capolavoro di Cimabue nel Museo di Santa Croce. In esso si esprime non più un astratto concetto teologico — come nel Logos in croce dei bizantini —, ma i patimenti sofferti dal Redentore nella sua carne umana. Ebbe così termine la egemonia di un tipo iconografico della Madonna che consentiva ben poca libertà alla fantasia creatrice dell’artista, ed il vetusto tema fu ripreso in mille modi, variando dall’eterea maestà di un Piero della Francesca, alla dolente dolcezza delle Vergini botticelliane.

 


 

MICHELANGELO E IL TEMA DELLA MADONNA COL BAMBINO

 

In questa fioritura rinascimentale, che raggiunge il suo culmine nella prima metà del sec. XVI, s’inseriscono le cinque sculture di Michelangelo di cui ora si dirà, e cioè : i tre bassorilievi della Madonna della Scala, dei tondi Taddei e Pitti, e le due statue della Madonna di Bruges e della Medicea, tutte, salvo la penultima, rimaste in varia misura incompiute. Inoltre, il Buonarroti ha trattato il medesimo tema nel solo dipinto su tavola sicuramente suo: il Tondo Doni degli Uffizi, in quello discusso di Manchester, e in numerosi disegni, di cui alcuni sono schizzi e studi preparatori per le sculture ora ricordate, ma non pochi sembrano varianti gratuite su questo soggetto che tanto lo affascinava, come bene osserva il Tolnay in un suo recente scritto (6).

Il motivo di tale sua predilezione non va solo indicato nella ricchezza di possibilità formali offerta dalle due figure diverse e unite, nell’equilibrato contrasto da lui sempre ricercato, ma ancora e soprattutto nel loro significato spirituale: nella sua fede. Michelangelo è infatti, col Beato Angelico, l’artista più religioso della Rinascita, e chi non tenga conto di ciò non andrà mai di molto oltre alla corteccia nel cercar di comprendere opere come la Volta della Sistina, il Giudizio finale, e in particolar modo quelle della cosiddetta « terza maniera », quali i due affreschi della Cappella Paolina e le tre ultime Pietà,  dove l’angoscia mistica spezza l’euritmia della forma classica, incapace di contenerla e darle voce (7). Né va dimenticato che Michelangelo perdette la madre nel 1481, quando era in età di sei anni.

Le sue lettere — non ne scriveva molte né volentieri, e diceva l’essenziale in poche parole — sono piene, quand’anche trattino cose pratiche, di espressioni religiose. Fra tante altre, si veda quella mandata il 26 maggio 1507 da Bologna, dov’era intento a modellare la statua di bronzo di Giulio II, in cui scrive al fratello Buonarroto: « … dì a Lodovico [il padre] che a mezzo quest’altro mese io credo gittare la mia figura a ogni modo; però se vuole far fare orazione o altro, faccialo a quel tempo, e digli che io ne lo prego » [Milanesi, 76]. O ancora quella del 20 dicembre 1550, diretta al nipote Lionardo, in cui lo consiglia circa il prender moglie, e termina:

« Arei caro quando tu sapessi qualche strema miseria di qualche cittadino nobile, e massimo di quelli che ànno fanciulle in casa, che tu m’avisassi, perché gli farei qualche bene per l’anima mia ». [ibid., 270].

Notissimo, e ancora più esplicito, è poi il carattere religioso di molte sue poesie, specie di quelle composte sotto l’influsso spirituale di Vittoria Colonna, anche dopo la morte di lei (1547), come il sonetto, degno di Dante, in cui prende congedo dall’arte nella famosa terzina:

«…Né pinger né scolpir fie più che quieti / l’anima, volta a quell’amor divino c’aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia» [Girardi, n. 285].

Ma la più solenne testimonianza della sua appassionata fedeltà alla Chiesa, la diede quando volle consacrare gli ultimi anni di vita ad innalzare la cupola di San Pietro sulla tomba del Principe degli Apostoli, e — come ricorda il breve di Paolo III, dell’11 ottobre 1549 — lo fece nullo premio nullave mercede, sibi a nobis sepe sepius oblata, acceptata, sed ex eius mera charitate et singulari devotione quam ad ipsam basilicam gerit [Barocchi, III, 1456-1457] (8).

Per seguitare a svolgere il tema che ci siamo proposti, interessa ora sapere quale particolare importanza avesse nella religiosità di Michelangelo il culto della Madonna. Alla domanda rispondono alcuni fatti della vita e dell’arte sua, non numerosi, ma molto significativi. Parlando col Condivi del rimprovero mossogli  da  alcuni  per  aver  raffigurato,  nella  Pietà  di  San  Pietro,  la Madre « troppo giovane rispetto al Figliuolo », gli spiegò con parole piene di dottrina e di delicatissima poesia, d’averlo fatto per esaltarne così « la verginità e purità perpetua » [Condivi, 70-71].

Nel Giudizio, poi, collocò Maria non solo alla destra di Cristo, ma nella medesima aureola, e nello stesso affresco glorificò il rosario come ancora di salvezza, e ciò nel tempo della più aspra polemica fra cattolici e luterani (9). E ancora sappiamo, da una lettera del 31 ottobre 1556 al nipote, di un suo pellegrinaggio a Loreto, che non poté condurre oltre Spoleto per essere stato richiamato a Roma (10).

 


 

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