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La redazione ringrazia il dottor Marco Ciatti per averci permesso la riproduzione parziale del suo libro “Codici Miniati Di Empoli”, Grafiche Giorgi & Gambi, Firenze, 1993

 


 

Introduzione

di Giovanni Pagliai

 

E’ assai difficile, a volte, nell’osservare i prodotti di quell’antica arte della miniatura che anche in terra toscana ha una sua storia più che ragguardevole, pensare che ci troviamo di fronte a una cosiddetta “arte minore”.

E questo non perché i risultati siano sempre all’altezza delle grandi opere pittoriche che in Toscana hanno avuto per lunghi secoli la loro culla, quanto per la particolare suggestione che, come ben mette in evidenza il Prof. Paolucci, anche raffigurazioni di non eccezionale qualità possono esprimere.

L’intento che la Cassa di Risparmio di Firenze si propone con la pubblicazione di questo volume, ricco di impegno scientifico e di straordinaria documentazione fotografica, e quello di permettere a un più vasto pubblico di apprezzare il fascino di questi codici miniati, che da quasi cinquanta anni non venivano più esposti.

In questo anno celebrativo del nono centenario della fondazione della Chiesa Collegiata di Sant’Andrea a Empoli, avvenimento di grande rilevanza storica e culturale al quale la Cassa di Risparmio di Firenze si onora di avere attivamente partecipato, l’occasione e infatti data da una mostra che ricolloca, purtroppo momentaneamente, questi libri liturgici nel loro luogo di origine.

Ma l’auspicio di tutti e che questa preziosa collezione possa quanto prima trovare una definitiva collocazione museale, in modo da permettere una più generale fruizione di questa raccolta, dopo che questo volume l’avrà ripresentata all’attenzione degli studiosi.

 

Giovanni Pagliai

 

Direttore Generale della Cassa di Risparmio di Firenze S.p.A.

 


 

Si apra il Codice E della Collegiata di Sant’Andrea alla carta 18r (e alla pagina 45 del volume che queste righe introducono) e si osservi con attenzione. Un miniatore ignoto di ultimo Quattrocento che Marco Ciatti propone di collocare nell’ambito di Gherardo e Monte di Giovanni, raffigura in capolettera l’episodio evangelico della “Chiamata degli Apostoli.

L’artista non è sicuramente uno dei più grandi. Ben altri ne esprimeva la civiltà fiorentina in quegli anni straordinari. Eppure la miniatura non manca di affascinare per il sapore di rustica verità che la caratterizza.

E come se il Cristo reclutasse i suoi discepoli non già sulle rive del lago di Tiberiade ma sulla sponda dell’Arno, fra Brucianesi e Montelupo, in un tranquillo pomeriggio d’estate. Gli apostoli si avvicinano senza affrettarsi, arrancando sui remi, mentre la rete tirata a bordo increspa di onde concentriche la superficie dell’acqua.

Così, in quell’epoca, le verità del mondo, le opere e i giorni degli uomini, potevano entrare, con viva naturalezza, in un antifonario miniato, dentro un severo libro liturgico scritto in latino e destinato a celebrare le festività di S. Andrea e del Corpus Domini.

Il Codice E si colloca in una serie di dieci, databili fra il XIII e il XVI secolo, disuguali per caratteri stilistici, qualità e stato di conservazione, appartenenti tutti al Museo della Collegiata di S. Andrea ad Empoli.

Da un secolo, da quando Guido Carocci li schedò per la prima volta, i dieci codici rappresentano una sezione del museo della Collegiata; museo che esiste dal 1859 e che di recente è stato oggetto di un intervento radicale di restauro e di adeguamento.

Va detto tuttavia che il museo e la collezione dei suoi libri miniati hanno avuto, almeno negli ultimi tempi, destini diversi.

Mentre la raccolta dei dipinti, degli affreschi staccati, delle sculture e delle robbiane, sia pure con qualche difficoltà, rimaneva unita e visibile negli ambienti costruiti nel 1956 e poi opportunamente revisionati e messi a norma nel 1990, i codici non erano più esposti da circa mezzo secolo, finendo prima nei depositi di Soprintendenza e poi nei laboratori di restauro della Biblioteca Laurenziana.

Ragioni di precaria conservazione, di vulnerabilità, di deperibilità, oltre che di mancanza di spazio e di strutture espositive adeguate, giustificavano l’occultamento di una parte tanto importante del museo empolese.

Purtroppo, come spesso succede in questi casi, il provvedimento di ricovero che doveva essere temporaneo durò a lungo. A parte gli studiosi specialisti, solo in pochi sapevano dell’esistenza di questo straordinario tesoro e, soprattutto, si era persa la consapevolezza della sua appartenenza alla pinacoteca di S. Andrea.

Quando nel 1985 curai per la Cassa di Risparmio fiorentina l’edizione del catalogo del museo empolese, primo volume di una serie fortunata che ha già coperto a tutt’oggi nove collezioni pubbliche della Toscana (da Sansepolcro ad Arezzo, da Cortona a Volterra, a Prato), concludevo il saggio introduttivo con queste parole:

 

“il riordinamento del 1956 prevedeva, come ipotesi di lavoro per il futuro, l’allestimento di un piccolo vano alla base del campanile, di vetrine per la conserva­zione e l’esposizione degli oggetti d’arte minore di proprietà della Collegiata (anche se non di dotazione del museo) e, soprattutto, per la presentazione dei libri miniati; questi ultimi parte integrante ed essenziale del museo dall’epoca della ristrutturazione di Guido Carocci ed esposti fino all’ultima guerra. Ora, dopo una provvidenziale campagna di restauro promossa dalla dr. Rosanna Proto Pisani della Soprintendenza di Firenze, i codici di Empoli sono conservati in deposito presso la Biblioteca Laurenziana, in attesa di una restituzione, ovviamente in condizioni adeguate di sicurezza e di protezione climatologica, all’ente proprietario e alla sede storica di appartenenza. La schedatura scientifica dei codici curata da Marco Ciatti e la ricca documentazione fotografica che l’accompagna troveranno la loro prossima opportuna collocazione in un volume a ciò predisposto dalla Cassa di Risparmio di Firenze.”

 

I tempi della tutela e della ricerca scientifica, si sa, sono lunghi. Il mio augurio del 1985, si è realizzato otto anni dopo e soltanto in parte. Perché se è vero che vede finalmente la luce il volume di Marco Ciatti dedicato ai codici empolesi (e per aver reso possibile la pubblicazione vivamente ringrazio Lapo Mazzei e Giovanni Pagliai rispettivamente Presidente e Direttore Generale della Cassa di Risparmio) è anche vero che in questo anno 1993 – nono centenario della fondazione della Collegiata di Sant’Andrea – la restituzione degli insigni libri liturgici al loro luogo di origine ha carattere di mostra temporanea e non di allestimento definitivo.

Tuttavia, grazie allo sforzo congiunto dell’Amministrazione civica e della Propositura di Sant’Andrea, per cura della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici e con il decisivo contributo della Cassa di Risparmio, questa preziosa collezione di arte miniata potrà essere offerta, da maggio a luglio, all’ammirazione di tutti.

Le celebrazioni del centenario rappresentavano, in questo senso, una opportunità da non perdere. Occorreranno ancora tempo e risorse, perché i codici della Collegiata tornino stabilmente – nell’allestimento e con le garanzie che la moderna scienza della conservazione prescrive – nel museo di cui sono parte integrante e irrinunciabile.

Intanto, dopo quasi mezzo secolo, il Cristo che chiama i suoi apostoli in riva all’Arno fra Brucianesi e Montelupo (la miniatura del Codice E di cui parlavo all’inizio) è tornato, sia pure temporaneamente, a casa sua.

Con lui sono tornate a casa le miniature dei codici fratelli, benissimo restaurate nel laboratorio della Biblioteca Laurenziana (un grazie caloroso è di dovere a Antonietta Morandini), vigilate dagli specialisti dell’Opificio delle Pietre Dure, amorosamente tutelate da Rosanna Proto Pisani alla quale dobbiamo l’organizzazione della mostra ma anche la promozione di questa iniziativa editoriale così che un risultato in più, e di indubbio rilievo, potrà aggiungersi alla brillante serie dei suoi successi empolesi.

Il prossimo appuntamento è, quindi, per la sistemazione definitiva, in museo, dei codici che Marco Ciatti ha analizzato con minuziosa competenza e che il suo libro restituisce al circuito degli studi.

Speriamo che, per celebrare questo ultimo risultato, non debbano passare altri otto anni.

 

Antonio Paolucci

 


 

I CODICI MINIATI DI EMPOLI

 

I Corali provenienti dalla raccolta della Collegiata di Empoli costituiscono un gruppo eterogeneo per provenienza ed epoca, ma nell’insieme presentano un interessante panorama sulla miniatura toscana a partire dalla seconda meta del Duecento fino al Cinquecento.

La loro storia materiale e collegata con le vicende della formazione del Museo d’arte antica annesso alla Collegiata nell’ambito della rivalutazione delle glorie artistiche cittadine avvenuta nella seconda meta del secolo XIX. Come e noto inoltre, non furono raccolte solo le opere d’arte provenienti dalla Collegiata, ma anche da tutto il territorio cittadino e limitrofo storicamente gravitante su Empoli.

Il Bucchi a questo proposito ricorda, piuttosto genericamente, dopo aver parlato dei dipinti, che: « in seguito si raccolsero nella Pinacoteca gli ammirevoli libri corali ed altre cose degne di essere gelosamente custodite ». Si noti che nell’inventario dei quadri e delle sculture raccolti nella già compagnia di S. Lorenzo compilato nel 1863 da Carlo Pini, non compare nessun codice.

Anche questa fase nella formazione della raccolta d’arte fu attentamente seguita dal Carocci, che compilò delle schede descrittive dei corali, piuttosto accurate, nel 1894.

A tale prima analisi infatti si adeguerà precisamente anche il Bucchi nella successiva guida del museo del 1916, nonostante che il Giglioli avesse già ampliato le conoscenze sui corali pubblicando alcuni interessanti documenti d’archivio nei quali pero cita solo di sfuggita i codici esistenti.

Anche l’elenco manoscritto dello stesso Gennaro Bucchi, realizzato nel 1913 come denunzia dei beni artistici dell’Opera della Collegiata, segue letteralmente le schede suddette.

Nonostante il notevole valore storico artistico dei corali, da tale epoca la ricerca su di essi si e interrotta e solo alcuni sono stati presi in esame, ma esclusivamente per il loro significato stilistico.

Raccogliendo i dati storici desumibili dalle fonti, dalla letteratura, ma soprattutto dai codici stessi si può formare un quadro, sia pure provvisorio ed incompleto delle loro realtà e delle loro vicende.

Il messale senza lettera di segnatura, in quanto non preso in considerazione dal Carocci, è di grande importanza per l’antichità della sua origine: può essere infatti collocato nella seconda metà del Duecento e, nonostante il cattivo stato di conservazione che ha causato gravi danni a molte miniature e la perdita di diverse carte, ci presenta un ricchissimo apparato decorativo attualmente formato da ben 852 iniziali calligrafiche, 58 iniziali miniate decorate e 28 iniziali miniate figurate.

Dall’esame di queste si può desumere la provenienza francescana del messale in quanto nel fregio della carta 18 relativa al Natale, « Puer natus est nobis », si vede chiaramente la figura di un francescano scrivente mentre a carta 20v, sempre nel fregio dell’iniziale « Etenim sederunt principes », relativa alla festa di S. Stefano, e collocato un frate francescano che legge.

Se si esaminano le altre miniature su questa base si possono allora comprendere meglio certe iconografie inconsuete e particolari.

Nella scelta dei versetti da illustrare e quindi da sottolineare con particolare efficacia sembra di poter scorgere una preferenza per quelli che più si avvicinano ad una delle parti più importanti del messaggio francescano e cioè il senso del riscatto miracolistico dei deboli e quasi l’ansia di un rinnovamento del mondo.

In tale senso vanno forse interpretate le miniature di c. 34v (« Exurge quare obdormis domine ») e la particolare versione scelta per la festa di San Giovanni Evangelista di c. 22v (« In medio Ecclesie ») con il santo che predica ad una piccola folla.

Altrettanto rare come iconografia sono le scene del miracolo delle nozze di Cana miniata per la se­conda domenica dopo l’Epifania a c. 29r (« Omnis terra adoret te deus »), e il miracolo della moltiplicazione dei pani di c. 83v (« Let are lerusalem et conventum ») per la quarta domenica in quadragesima, che contribuiscono a sottolineare l’aspetto spirituale francescano.

La provenienza francescana pone comunque grossi problemi in quanto l’unico insediamento di questo ordine ad Empoli ricordato dalle fonti e quello di Santa Maria a Ripa, detta anticamente Santa Maria in Castello, nominata fin dal 1109, ma donata ai francescani osservanti dalla famiglia Adimari solo nel 1483 o 1484.

E quindi presumibile che il corale originariamente fosse stato miniato per qualche altro convento e sia giunto a Empoli solo alla fine del Quattrocento con i francescani, i quali lasciarono poi la città con le soppressioni del 1810.

Da un punto di vista stilistico l’opera, che non è stata finora mai presa in considerazione dagli studi, si colloca nella seconda meta del sec. XIII, coeva cioè dei piu antichi libri corali dei francescani. La costruzione delle lettere, l’apparato decorativo e la struttura dei fregi costruiti con aste, nodi e tondi figurati rivela una qualche influenza  bolognese ma i modi stilistici più composti sembrano riconducibili alla miniatura toscana.

II nostro messale, presumibilmente toscano dunque, è però di difficile collocazione topografica in quanto nel terzo quarto del Duecento si assiste alla presenza di una certa omogeneità stilistica nel linguaggio della miniatura che rende problematica l’individuazione di chiare caratteristiche locali.

A testimonianza di questo troviamo un vasto numero di miniature di questa fase in Toscana (Firenze, Arezzo, Cortona, Grosseto, Lucca, Pistoia) accomunate dall’essere legate a quella tendenza della miniatura bolognese che il Toesca chiama « primitiva » e « incertamente bizantineggiante », la cui importanza al di sotto degli Appennini è stata recentemente puntualizzata dalla Degli Innocenti Gambuti a proposito dei codici di Cortona (Bibl. Com. ms. 4C-5D-6E-7F-8G) per i quali propone una datazione fra il 1260 ed il 1279, e che il Conti ha proposto di ricondurre alla personalità del cosi detto Maestro di Sant’Alessio in Bigiano che avrebbe avuto una formazione bolognese.

Questi motivi che recano una indecifrabile simbologia derivano dalla miniatura romanica e sono assai frequenti tra il sec. XII e la prima meta del sec. XIII. La datazione che per tutti questi aspetti si propone per il messale e quindi tra il 1270 e il 1280.

II corale segnato ‘ L ‘ è un antifonario diurno e notturno del tempo, completo per tutto l’anno, escludendo il proprio dei santi ed il comune. Non compare la festività del Natale, ma dall’esame del codice non risultano mancanze di singole carte.

Si può ipotizzare che per tale tempo festivo sia stato approntato un volume a parte, oppure che manchi un fascicolo intero, ma in quest’ultimo caso dovrebbe non essere originale la numerazione che non riporta nessun salto.

La tipologia dei caratteri e della colorazione, la scrittura dei numeri romani sembrano indicare un’originalità degli stessi e si deve quindi propendere per la prima delle due ipotesi anche se piuttosto particolare.

Il codice compare nelle schede del Carocci, il quale erroneamente ricorda solo tre miniature figurate saltando, evidentemente per un disguido, l’iniziale di c. 173r (« Viri Galilei qui admiramini ») con l’Ascensione di Cristo; la decorazione e considerata rozza e riferita alla scuola fioren­tina della prima metà del secolo XV.

Molto piu interessante è il riconoscimento dello stemma che compare in basso a c. lv (« Ad te levavi animam me am ») nel fregio, raffigurante un leone rampante nero barrato di bianco su fondo rosso, riferito alla famiglia fiorentina Del Vigna che, sempre secondo il Carocci, ebbe alcuni possedimenti ad Empoli.

Il Bucchi si limita ad elencare il codice riportando in sintesi il giudizio già espresso nelle schede della Soprintendenza.

Non è possibile, al momento, accertare la provenienza del codice in quanto non è ricordato dalle fonti alcun ecclesiastico di tale famiglia nella propositura della città nè in altri insediamenti religiosi. Si può solo supporre quindi che il corale sia stato regalato dalla famiglia ad una chiesa del territorio, e, a giudicare dalla struttura liturgica, non ad un ordine religioso.

La struttura decorativa del corale è molto semplice con 111 iniziali calligrafiche grandi, poste all’inizio delle messe feriali, 921 piccole poste all’interno, 46 iniziali miniate decorate per le celebrazioni di maggior importanza e solo 4 figurate riservate alle festività principali come la Pasqua, l’Ascensione, Pentecoste e l’inizio dell’anno liturgico con la prima domenica d’Avvento.

II corale e stato pubblicato solo recentemente dal Boskovits che lo inquadra giustamente nell’ambito della vasta attività miniatoria di Pacino di Buonaguida datandolo intorno al 1314.

Senza voler entrare nel vasto e complesso problema dell’attività di Pacino si deve dire che, nelle parti decorative, il corale ci presenta sia gli elementi di foglie sia i racemi abbastanza sviluppati in senso naturalistico, in confronto con analoghe produzioni in cui questi sembrano più rigidi e stilizzati.

Questo tenderebbe a spostare leggermente più avanti la datazione che trova un limite massimo ante quem nella mancanza della festa della SS. Trinità istituita ufficialmente dopo il 1334.

Si può quindi ipotizzare più verosimilmente una datazione intorno agli anni ’20, a meno di non considerare l’intervento di un collaboratore particolarmente sviluppato, trattandosi ovviamente di un lavoro a cui partecipavano varie figure della necessariamente popolosa bottega di Pacino.

Le scene sacre, per il resto, sono assolutamente tipiche del miniatore, nella composizione d’insieme e nei tratti fisiognomici delle figure che sono identiche a quelle di altri codici attribuiti allo stesso, come per esempio gli antifonari dell’Archivio Capitolare di Prato, che rientrano in quella produzione ordinaria di minor impegno figurativo rispetto alla produzione più impegnativa come le note miniature dell’Imaginae Vitae Christi della Pierpont Morgan Library.

Un gruppo a sè stante e di grande interesse e formato dai corali B, C, D, che formano insieme un graduale del tempo diviso in tre parti.

Di questi il Carocci ricorda solo due corali fra quelli esposti, il ‘ B ‘ e il ‘ D ‘, forse perchè solo questi recano miniature figurate riferendoli ad un miniatore fiorentino della meta del secolo XV, vicino alla scuola degli Angeli.

II Bucchi seguendo, come sempre, le indicazioni delle schede, li cita tutti e tre attribuendoli al secolo XV precisando che il ‘ D ‘ è accuratissimo; per via delle iscrizioni dedicatorie sono poi citati dal Pogni. Sul problema dell’origine e della provenienza il Carocci ha fatto efficacemente il punto delle informazioni desumibili dai corali stessi: origine carmelitana e provenienza ipotetica dal convento dei SS. Simone e Giuda a Corniola presso Empoli.

Tale insediamento tuttavia, come ricordato dalle fonti, secondo il Bucchi, fu concesso dal Capitolo ai frati carmelitani nel 1569 e fu chiuso nelle soppressioni napoleoniche del 1808. Niente vieta tuttavia che i carmelitani si siano portati con se i corali necessari per le funzioni liturgiche dalla precedente sede, oppure che nel corso del tempo si siano procurati codici da altri conventi.

Dalle iscrizioni presenti sui tre corali, si desume che il corale ‘ D ‘ ordinato secondo il messale carmelitano, fu comprato dal frate — si suppone carmelitano — Antonio Maria Bernucci nel 1735, che si dichiara allievo del convento di Siena; e che il corale ‘ C ‘ fu comprato e restaurato insieme ad altri libri per cantare la messa, dallo stesso frate Antonio Maria Bernucci nell’anno 1750.

Va precisato che nonostante il lasso temporale intercorso nell’acquisizione dei vari corali, questi si presentano come sicuramente realizzati insieme.

L’indicazione che il donatore, di cui per altro allo stato attuale non si sa nulla, ma che si può ipotizzare come un frate del convento della Corniola, era stato « conventus senarum alumno » assume molta importanza nell’esame stilistico dell’opera.

I tre corali infatti si presentano stilisticamente appartenenti alla scuola senese del pieno Trecento con notevoli affinità sia nelle parti decorate sia nelle figurazioni con l’opera del miniatore e pittore Niccolo di ser Sozzo Troverebbe cosi conferma anche la generica affermazione del Toesca, il quale segnalava l’esistenza, senza precisare meglio, di

« altre minia­ture di scuola senese della meta del Trecento in due antifonari del Museo di Empoli ».

Del tutto tipico di Niccolò, e di derivazione lorenzettiana, e il volto della Vergine come appare nel cod. ‘ D ‘, c. 66r, in posizione frontale, col volto largo, gli occhi ravvicinati e la bocca piccola. La matrice senese si fa evidente in tutte le tipologie dei volti, nei vecchi barbuti di lontana ascendenza duccesca, negli scorci delle figure giovanili dal profilo acuto e nei panneggi secchi, profondi, spiccatamente gotici e di gusto senese.

I confronti con le nostre miniature a sostegno dell’attribuzione suindicata possono essere agevolmente compiuti grazie alla ricostruzione dell’attività di miniatore di Niccolò di ser Sozzo notevolmente arricchitasi in questi ultimi anni.

Oltre alla nota miniatura con l’Assunzione della Vergine del Caleffo dell’Assunta (Siena, Archivio di Stato, Capitoli 2, c. 8) i due corali di San Gimignano e gli altri due della Biblioteca Comunale, a c. 31r e nel cod. LXVIII-1 a c. 54r, la Pentecoste (cod. D, c. 66r) a quella del cod. LXVIII-1 a c. 56v, il San Giovanni Evangelista (cod. B, c. 105r) allo stesso del codice LXVIII-1 a c. 12r, l’Adorazione dei Magi (cod. B, c. 55r) infine si avvicina molto sia a quella del cod. LXVIII-1, c. 17r, sia a quella con lo stesso soggetto della Coll. Wildenstein di New York.

L’affinità stilistica dei codici di Empoli con quelli di San Gimignano e della Biblioteca Comunale, ma soprattutto con i primi, e veramente notevole ed interessa anche la struttura delle lettere, gli elementi decorativi e le caratteristiche cornici rettangolari finemente operate.

Tali aspetti delle iniziali mi­niate sono di grande interesse per la storia della miniatura in quanto pur contenendo ancora elementi del primo Trecento in alcuni nodi, mostrano una monumentalità e una chiarezza di decorazione che non sara senza influenza sulla successiva produzione, fino ad arrivare a Firenze alla scuola degli Angeli con don Simone, miniatore per altro legato a Siena.

La datazione dei codici di Empoli può dunque essere ragionevolmente collocata tra la fine degli anni ’30 e i primi anni ’40 del Trecento in attesa che un approfondimento degli studi e le disponibilità delle carte d’archivio rendano possibile una più precisa definizione.

Un altro interessante raggruppamento è costituito dagli antifonari ‘ P ‘ e ‘ O ‘, che furono realizzati insieme come e attestato dalle sottoscrizioni del committente e dall’evidenza codicologica e stilistica.

Essi tuttavia, da un punto di vista liturgico, fanno parte di un ciclo che doveva essere più vasto in quanto costituiscono l’uno un antifonario notturno del tempo dalla Pasqua all’Avvento escluso e dei santi da Pasqua a Pen­tecoste, e l’altro un sequenzario e antifonario santorale per il tempo dopo Pentecoste fino all’Avvento escluso.

La parte restante della liturgia doveva essere completata da altri due volumi che potevano contenere l’uno il proprio del tempo dall’Avvento alla Pasqua esclusa e l’altro il corrispondente santorale, oppure recare ciascuno una parte del tempo e le relative messe votive.

Una riprova di ciò si ha nell’interessantissima iscrizione del codice ‘ O ‘ la quale ci informa che il corale era la terza parte di un antifonario notturno donato dal sacerdote ser Moriale di Giovanni di Empoli alla pieve di S. Andrea nel 1444.

Anche il corale ‘ P ‘ presenta un’interessante iscrizione, che reca la data febbraio 1445, stile comune 1446, ed il nome completo del committente, ser Moriale di Giovanni Lupi. E’ evidente che un ciclo di almeno quattro corali richiedeva un lungo periodo di esecuzione, dall’acquisto dei fascicoli, alla loro scrittura, alla decorazione miniata, alla legatura che completava l’impresa.

Su questi due codici conosciamo dei documenti tratti dall’Archivio dell’Opera di S. Andrea di Empoli pubblicati dal Giglioli che vi vede tuttavia un’influenza tedesca per il « realismo rude » di certe figure.

Nell’inventario dell’Opera del 1488 troviamo dunque queste voci:

« uno antifonario grande nuovo con i minii messi d’oro e fighure domenichale e festivo el quale chomincia dalla prima domenica dopo pen-thecoste per insino all’avvento el quale dette et lascio alla sacrestia la buona memora di ser moriale »

che corrisponde al codice ‘ P ‘ e

« uno antifonario grande nuovo miniato d’oro et di fighure domenichale et festivo el quale inchomincia dalla pasqua della resurrezione insino al corpo di xto donollo come di sopra ser moriale »,

che sembra corrispondere invece al codice ‘ O ‘.

Non sappiamo se il Giglioli abbia compiuto una scelta fra i documenti d’archivio riportando queste due sole citazioni tra quelle relative al nostro piccolo ciclo che, se realizzato per intero, doveva esistere ancora nel 1488, oppure se i documenti siano frammentari o infine se la realizzazione del ciclo sia stata interrotta con questi soli due volumi.

Il Carocci seguito poi dal Bucchi riporta i due corali individuandone i legami ed attribuendo le miniature alia scuola fiorentina del Quattrocento forse ad un discepolo di Gherardo di Giovanni, nato per altro nel 1446.

Più recentemente la Ciardi-Duprè ha convincentemente riferito le miniature a Bartolommeo d’Antonio Varnucci la cui personalità era già stata in parte ricostruita dalla Levi D’Ancona.

Tale chiarimento fu possibile grazie ad un pagamento in data 1458 riferibile ad un Messale per il Duomo fiorentino, ora alla Biblioteca Laurenziana, Edili 104, dal quale si potevano dedurre con certezza le caratteristiche stilistiche di Bartolommeo, in quanto posteriore alla morte del fratello Giovanni, anch’egli miniatore, con cui era stato fino ad allora confuso.

Su tale base e stata riconosciuta la sua mano in due volumi di un lezionario commissionato ai due fratelli dagli Operai del Duomo di Firenze nel 1447, sempre alla Biblioteca Laurenziana, Edili 144 e 147 ed in un messale, Edili 103, collocabile nel 1456.

La Ciardi Duprè ha approfondito l’esame identificando inoltre la sua mano in un « Ofiziolo », collezione De Polo, in un libro di compagnia con le « regole della Schuola di Sancto Giovanni Evangelista », che può per motivi storici risalire al 1451 e nei due corali di Empoli.

Infine Giuliana Tonini ha attribuito al Varnucci le miniature dei codici segnati O, P, S, T, X, U, V, del Museo della Cattedrale di Chiusi, ma provenienti dall’archicenobio di Monte Oliveto Maggiore, eseguite presumibilmente in un largo periodo dalla fine degli anni Cinquanta a tutto il decennio successivo.

Nelle tre miniature figurate con l’Ascensione (cod. ‘ O ‘, c. 2r), San Giovanni Battista nel deserto (cod.  ‘ P ‘, c. 92v) e la Natività della Vergine (cod. ‘ P ‘, c. 194v) la Ciardi Duprè coglie gli aspetti caratteristici della sua cultura artistica influenzata dall’Angelico e da Masolino, ed un gusto narrativo popolare basato su di una prevalenza formale del disegno sul colore.

La decorazione non è costituita da un alto numero di miniature sia decorate che figurate, ma forse le carte mancanti che combaciano spesso con la parte della liturgia detta « ad Laudes », che reca in genere le iniziali miniate più grandi, contenevano altre immagini.

II codice ‘ E ‘ e sicuramente proveniente dalla Collegiata: si tratta infatti di un corale espressamente dedicato alla festa di S. Andrea ed in secondo luogo a quella del Corpus Domini; per questo delle cinque iniziali figurate, quattro raffigurano il Santo Patrono.

La particolarità del codice e il fatto che non vi siano iniziali decorate miniate, ma solo calligrafiche di bella fattura, e che a partire dalla c. 51 l’aspetto del corale cambi, con un maggior numero di linee di testo e di note, rispettando però lo specchio di scrittura iniziale.

Sembra di poter escludere che questa parte sia frutto di un’aggiunta posteriore poiché del tutto simile e la calligrafia dello scriptor e le altre caratteristiche codicologiche. Solo criteri di opportunità materiale possono quindi aver suggerito tale riduzione di formato e di impegno economico.

Il Carocci seguito poi dal Bucchi cita il codice e tutte le iniziali figurate attribuendolo alla scuola fiorentina del Quat­trocento vicino a Vante degli Attavanti.

La prima miniatura (c. 1r, Unus ex duo bus) presenta una ricca decorazione con un fregio che si sviluppa sui quattro lati con un andamento regolare e contenuto, con racemi vegetali disposti simmetricamente, intercalati da elementi grotteschi e tondi figurati, chiuso entro una cornice d’oro.

Tale aspetto della decorazione vegetale spinge la datazione verso gli ultimi anni del secolo quando le forme ampie e vitali elaborate nel corso del Quattrocento da Filippo di Matteo Torelli e Fran­cesco d’Antonio del Chierico sono riviste e sistemate con nuovi valori di equilibrio, simmetria e compostezza che si realizzano tra la fine del Quattrocento e gli inizi del nuovo secolo.

In questo apparato si inseriscono due tondi, l’uno col simbolo bernardiniano e l’altro con San Giovanni Battista, ed in basso uno stemma, per ora non identificato, sorretto da due angeli.

Un altro aspetto caratterizzante queste figurazioni dalla salda struttura ghirlandaiesca, sono le ampie vedute di paesaggio poste sullo sfondo della scena, come a c. 2v, nella chiamata degli apostoli (« Dum perambularet ») e 21v, nel S. Andrea apostolo (« Michi autem nimis »), quest’ultima assai significativa per l’inserimento di una veduta di città dotata di torri e guglie.

Questi elementi insieme ad una certa durezza monumentale ci inducono a non riferire le miniature ad Attavante, caratterizzato da un tono più dolce e con minori interessi spaziali, ma all’ambito di Gherardo e Monte di Giovanni, i due fratelli che segnarono l’attività miniatoria del proprio tempo operando sia in opere di grande impegno, come per esempio il Salterio di David e il Nuovo Testamento (Laur. ms. Plut. 15.17.) per Mattia Corvino sia in imprese più modeste come il grad. ‘ D ‘ per la SS. Annunziata, attribuito al solo Monte, o il codice 67 del Bargello.

Anche nelle miniature più belle si possono individuare confronti interessanti, come la veduta di città sullo sfondo della Crocifissione a c. 186v del codice Laurenziano, Edili 109, segnata dalle stesse torri acuminate di quelle presenti a c. 21v nel nostra codice, oppure i due angeli con la ghirlanda e lo stemma posti nella prima carta del cod. Laur. Plut. 52.6 che appaiono molto vicini ai nostri.

La datazione del codice, nell’ambito del processo di trasformazione dei motivi decorativi, sembra potersi collocare tra il 1480 e il 1490 mentre la qualità delle figurazioni non tutte dello stesso livello, ci orienta verso la bottega di Gherardo e Monte.

II codice segnato ‘ Z ‘ e l’unico a non essere un corale, ma un Evangeliario e proprio la struttura del testo distribuito in due eleganti colonne ha suggerito la realizzazione di un apparato decorativo particolare costituito, tranne che nella prima carta, da un sottile stelo posto fra le due colonne terminante in alto in un’infiorescenza ed in basso in un tondo figurato.

La decorazione figurata e così in gran parte svincolata dall’iniziale che in trentatrè casi e esclusivamente decorata e solo in tre casi figurata, ma sempre di piccole dimensioni.

II Carocci scheda il codice ritenendolo di scuola fioren­tina del sec. XVI ad imitazione della miniatura del secolo precedente, identificando lo stemma presente in due carte (c. 1r e c. 96r), come quello del proposto Del Paglia.

Il Bucchi, come al solito, ripete l’indicazione precedente sottolineando pero che nella prima carta e raffigurato il ritratto del donatore.

Infatti a c. 1r vediamo che la decorazione comprende sia un’iniziale figurata con Cristo risorto benedicente (« In illo tempore ») sia una cornice sui quattro lati, arricchita da un fregio vegetale in cui è inserito a destra il ritratto del prelato di profilo, piuttosto sciupato, ed in basso lo stemma.

II nostro prelato e da identificarsi con Bindo d’Antonio d’Andrea di ser Martino Paglia, importante personaggio della chiesa empolese che, come ci ricorda il Pogni fu canonico della Collegiata fin dal 1482; dieci anni dopo fu elevato alia carica di Pievano a cui rinunciò nel 1502 a favore del nipote Francesco, con riserva però di una pensione consistente nella metà dei frutti del beneficio, accordatagli con bolla di Alessandro VI.

Aveva inoltre vari altri benefici a Empoli e a Firenze, tra cui, per esempio, il rettorato della Cappella di Santo Stefano in Santa Maria del Fiore.

La donazione di questo Evangeliario si inseriva in una larga serie di codici offerti da Bindo del Paglia: abbiamo infatti dei documenti relativi ad

« un salterio grande pel coro il quale detto messer Bindo fece legare et miniare et covertare di cuoio rosso con bullettoni et canti d’ottone le quali ligatura e mi­niatura detto messer Bindo pago di suo »

del 1492, e ad

« uno messale di penna nuovo ed e nel principio dipinto uno sancto Andrea costo fior. otto d’oro larghi »

del 1494.

Inoltre il Pogni riporta questa iscrizione su di un libro contenente le orazioni per la benedizione del fonte battesimale e per le pro-cessioni di S. Agata e di S. Andrea che recava il suo stemma miniato nella prima carta:

« Iste liber fieri fecit Bindus Antonii di Empulo p. istius plebis MCCCCLXXXXII ».

II ricco apparato decorativo ha fatto si che i 32 tondi rechino tutti una scena figurata in relazione con il contenuto liturgico del brano del testo oppure, come alle carte 58v, 59v, 6Or e 66v, il ritratto di un Evangelista.

La strut­tura decorativa del codice è molto simile a quella presente nel codice 68 del Museo del Bargello, si confronti, ad esempio, la c. 127r, attribuita a Gherardo di Giovanni, e superiore al nostro per la qualità delle miniature. Si tratta di un’opera di scuola fiorentina per le caratteristiche compositive e lo stile, giustificabile anche per i molti legami che il donatore aveva con quella città.

L’Evangeliario è databile quindi alia fine del Quattrocento e comunque entro il 1502, quando il pievano rinuncio alia carica.

La divulgazione e semplificazione del linguaggio formale di Gherardo, da cui sono ripresi molti ele­menti, e realizzato soprattutto con una pennellata veloce e con una sommaria trattazione pittorica delle figure avvicinandosi per questo ad altre opere prodotte in quegli anni a Firenze come, per esempio, il ms. della Biblioteca Laurenziana Acquisti e Doni 237 o l’Ashburnham 936 lat. 14 dei quali si possono citare per confronto rispettivamente le carte 346 e 156.

Per tutto ciò si potrebbe avvicinare il nostro Evangeliario all’attività di Giovanni di Giuliano Boccardi detto il Boccardino Vecchio, largamente presente nella miniatura fiorentina dello scorcio del secolo e del primo Cinquecento, ripetendo corsivamente le creazioni dei miniatori precedenti.

L’ultimo codice compreso in questa presentazione e quello segnato ‘ V ‘ di scarso interesse artistico per la sua mediocre qualità, ma interessante come fatto storico e per l’immagine che esso ci dà, proprio in confronto con i precedenti, del declino inesorabile a cui Parte della miniatura ando incontro nel corso del Cinquecento.

II corale, graduale del tempo, e schedato dal Carocci e semplicemente citato dal Bucchi. Il primo da una valutazione negativa delle miniature definendone l’autore come «sconosciuto affatto alla storia dell’arte».

A c.11v si legge in un’iscrizione che l’opera fu commissionata da don Giovanni Ronconcelli, proposto della chiesa di S. Andrea di Empoli e vicario della propositura di Prato e dal Capitolo, e che fu realizzato da Bernardo di Pietro da Prato nel 1552.

Inoltre attorno alla lettera ‘ I ‘ iniziale dell’iscrizione, sono disposte delle lettere che formano la frase:

« T.F.B. Presbiter Bernardus scripsit ».

Giovanni di Cristofano Ronconcelli apparteneva ad una famiglia originaria di Empoli, fu canonico di S. Andrea dal 1499, arciprete dal 1524 e proposto dal 1546 al 1556, morendo poi nel 1564.

Aveva stretti legami con la città di Prato dovuti alla sua carica di canonico e vicario che lo indussero nel 1539 a chiedere la castellanza pratese per sè e per Leo­nardo di Girolamo, suo nipote e, a seguito di ciò, appare nella decima pratese del 1543, da cui si desume la sua abitazione in quella città.

Quando ancora era canonico, nel 1520 regalò alla sua chiesa di Empoli il bel leggio d’ottone tuttora esistente.

Bernardo di Pietro afferma di avere scritto il codice, ma vista la qualità dilettantesca delle immagini che si rifanno ai prototipi degli inizi del secolo, si può supporre che egli sia il responsabile di tutta la decorazione.

Questa vicinanza con la città di Prato ed il fatto che l’autore avesse quella stessa origine ci inducono a confrontare il codice ‘ V ‘ con un caso analogo presente nell’Archivio Capitolare di Prato segnato ‘ F ‘ che ci appare molto vicino.

Tale rapporto ci appare evidente confrontando le iniziali figurate ed il fregio decorativo della prima carta per cui si può proporre di attribuire a Bernardo di Pietro anche l’esecuzione del corale pratese.

Come accennato nelle singole schede i codici miniati di Empoli subirono gravi danni a causa degli eventi bellici e rimasero per lunghi anni inaccessibili.

Il restauro, promosso dalla d.ssa Rosanna Protopisani della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Firenze, è stato realizzato grazie al’intervento della d.ssa Antonietta Morandini, direttrice della Biblioteca Laurenziana, dai restauratori Sergio Giovannoni, Marco Ponzoni, Giancarlo Porciatti.

I codici infine, in attesa di essere restituiti al Museo della Collegiata che ne è il legittimo proprietario, furono esposti nella Biblioteca fiorentina nel 1981.

Dopo la stesura di queste note, avvenuta nel 1985, Annamaria Giusti nel 1988 ha esaminato con la ben nota competenza questi codici miniati (A.M. Giusti, Empoli. Museo della Col­legiata. Chiese di Sant’Andrea e S. Stefano, Bologna, 1988, pp. 45-54), giungendo a conclusioni analoghe a quelle qui presentate.

L’unica valutazione discordante e relativa all’attribuzione del codice segnato ‘ E ‘ per il quale preferisce mantenere la tradizionale attribuzione all’ambito di Attavante, mentre chi scrive e tuttora dell’opinione che l’attenzione vada spostata verso la bottega di Gherardo e Monte di Giovanni.

 


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