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Introduzione

Si pensa istintivamente al primo ambiente figurativo del « Cavaliere azzurro » di Monaco, alle pitture e agli schizzi semi-astratti e cromaticamente intensi di Kandinsky, che ri­tengono qualche cosa della tematica e dell’ordine reali e nei quali gli oggetti ancora riconoscibili sono diventati meta­fore poetiche. Anche nei quadri di Fucini sembra che la realtà abbia imparato dall’arte, più che l’arte dalla realtà. Ma al cli­ma pittorico del « Cavaliere azzurro » appartengono anche Franz Marc, con le sue costruzioni mistico-interiori, e August Macke, con la sua arte dell’equilibrio a contrappunto: e in­fine Paul Klee, che nei segni della sua palingenesi grafica e coloristica indica la via di una nuova creazione della natura.

Questi sono i pensieri che sollecita la prima presa di contatto con le opere di Fucini. Ad una osservazione accorta, Fucini appare un artista di rango e un pittore di alta qualità: è un inventore, nei cui segni c’è l’eco spirituale del « nuovo corso » pittorico dopo il 1900 ma in termini assolutamente personali; ed è un esperto che sa mettere brillantemente a profitto tutte le « chances » del suo mestiere. Egli sa porre ogni colore {e il colore è l’elemento base della sua pittura) in rapporto tale con gli altri, che il tessuto cromatico ne ri­sulta un tutto armonico, immune da smagliature e perfettamente conseguente. Sa risolvere ogni linea ed ogni piano in coerente funzione con gli altri, in modo che ne nascono figu­razioni di limpida giustificazione; e lo stesso tessuto di colore assume una più consistente solidità. E dove interviene una figura, una cosa, un albero, un essere umano, anche questa è più segno che cosa, è cifra, come una parola-chiave che in una lirica improvvisamente illumina sul senso e la ragione segreta della composizione: una traccia che l’osservatore può seguire per addentrarsi in un’altra realtà.

Mi sembra di poter dire che la tempera, con la sua tra­sparenza, viene incontro al mondo espressivo poetico di Fu­cini in maniera forse più aderente che non la tecnica dell’olio. I soggetti « georgici », i più vicini alla natura e i più illumi­nanti dell’arte di Fucini, sono infatti dipinti a tempera. È sta­to un ripensamento nostalgico della virgiliana descrizione della vita agreste, così ricca di calore vitale, che ha condotto al carattere iconografico di queste opere, oppure è stato un desiderio segreto del pittore che l’ha forzato alla rappresenta­zione di un tema tanto inconsueto e polemico, nei confronti del mondo in cui viviamo?

Tanto meglio si serve l’arte se ad essa ci si avvicina da molte strade. Fucini saprà perchè rifiuta la comoda via del successo.

Berlino, gennaio 1963

WILL GROHMANN


Del termine « astrattismo » s’è fatto tale scialo, in senso proprio e — molto spesso — in senso improprio, che risulta piuttosto complesso darne ora una interpretazione definitoria. Non solo ad illuminazione di chi crede che l’arte astratta sia un atteggiamento linguistico dell’ultima ora o del capriccio (e sono forse i più, quelli che usano l’aggettivo con lo stesso spirito che s’attribuiva in certe epoche storiche alle quali­fiche di « gotico », « manieristico » o « barocco »); ma anzi per quanti riescono ancora a rendersi conto delle ragioni cul­turali e del lungo corso della corrente, e ciononostante, man­cando di sufficiente informazione storicistica, sono portati a far rientrare nel significato del termine soltanto determinate forme e ad escluderne altre.

Questa considerazione viene spontanea, quando si cerca di chiarire criticamente la pittura di Fucini. Ricordo che Will Grohmann, il più grande critico d’arte del mondo te­desco, quando per la prima volta vide i suoi dipinti nell’apri­le del 1962, a Berlino, disse che era giusto parlare di astrat­tismo e, fino a un certo punto, anche di disposizione cubista, purché prima si precisasse rigorosamente dentro quale clima astratto e cubista poteva essere valutata questa pittura. E con estrema limpidezza tracciò un quadro delle istanze artistiche del primo Novecento, sottolineandone i frequenti processi di osmosi e gli irriducibili contrasti: e dal fervore neofitico di quell’Europa rivoluzionaria, che seppelliva tra illuminanti presagi di tragedia il mondo romantico, trasse il filone pro­spettico di una visione e di un gusto al quale facilmente, logi­camente, assegnò l’arte di Fucini.

Da perfetto conoscitore dell’arte tedesca contemporanea, Grohmann rilevò quindi agevolmente, senza titubanze, l’ascen­denza astrattista dell’espressione fuciniana. Klee, Kandinsky, Macke, Marc erano i termini che più spesso ricorrevano, co­me paragoni determinanti, nel suo discorso, trasparentemente venato di piacere per aver ritrovato sulle tele, che andava scorrendo con occhio attento, lo stesso clima dei mitici anni venti. Il clima favoloso della pittura dei suoi grandi amici, alla fama dei quali egli ha contribuito in maniera decisiva. Delle ascendenze italiane, invece, del tessuto culturale e figu­rativo sul quale Fucini ha operato, pur senza restarne irretito, ma che non è possibile ignorare perchè è in definitiva la sua matrice, Grohmann sembrò non rilevare la necessità di ri­chiamo; non tanto, probabilmente, per scarsezza di informa­zione, quanto perchè l’aspetto di quelle pitture che vedeva per la prima volta gli imponeva con forza primaria e prepo­tente il giusto ricordo di quell’arte tedesca.

Dovrò quindi proporre anch’io alcuni ricordi dei per­corsi storici dell’arte europea, perchè il discorso su Fucini sia sgombro da equivoci e, ciò che più importa, la sua pit­tura — che è alta e personalissima — possa venir compresa entro l’angolazione che le compete. A questo riepilogo, che s’articola sul tracciato di Grohmann, e che appare indispen­sabile anche se prende le mosse da lontano, non sarà inutile far seguire un appunto stilla radice toscana di Fucini, ben in­dividuabile in molti suoi atteggiamenti formali: che è come dire la sua giustificazione remota, la sua eredità profonda di cultura.

* * *

Tra le date importanti che segnano altrettanti punti di avvìo alla creazione di nuovi linguaggi nei primi anni del secolo, mia è il 1913, quando si attua la definitiva trasfor­mazione del cubismo analitico, alla Bracque e alla Picasso, in cubismo sintetico.

Il pittore che fa da perno al mutamento è Jean Gris, col quale si chiude — almeno nel senso sperimentale — la fase interlocutoria dei collages. La critica ha chiarito che il cubismo sintetico (o emblematico) è esattamente il contrario del primo cubismo. Infatti il pittore non è più mosso alla figurazione da una presupposta conoscenza degli oggetti, non scompone quindi la realtà figurale in termini astratti, ma sono gli oggetti che vengono creati (trovati) attraverso la simbologia astratta. Walter Hess dice che questo secondo cubismo fu una scuola di libertà, proprio perchè svincolava il pittore da una sudditanza preconfigurata alla realtà naturale.

(Se avessero valore soltanto le teorie, la cosa non appari­rebbe nuova, se è vero, come è vero, che, ancora nel Duecen­to, Villard de Honnecourt consigliava di muovere dall’astrat­to per scoprire la realtà umana, usando le forme primarie della geometria, tringoli, cerchi, quadrati. Anche Villard pen­sava quindi che è l’arte ad essere maestra della natura e non viceversa).

La posizione mentale del cubismo emblematico va as­sunta come pietra miliare della pittura moderna, proprio per la sua qualità di indipendenza, di svincolo totale e coraggioso dell’espressione, dalle dimensioni e dagli schemi della verità fenomenologica. Ma il cubismo, per i suoi stessi presupposti spaziali e temporali, esclude la pittura totalmente astratta.

Un anno prima del mutamento nella coinè cubista, Gleizes preconfigurava il passaggio alla figurazione astratta: cioè la figurazione pittorica senza oggetti riconoscibili, basata uni­camente sui piani e sulle linee, che — rifiutando lo spazio tridimensionale euclideo — stanno simultaneamente e sovra-spazialmente in complessi rapporti tra di loro. Questo è il vero cardine formale dell’arte astratta. Persa la strutturazione tettonica e spaziale che ancora resisteva nel cubismo, la pit­tura astratta ambisce solo ad una strutturazione ritmica e temporale, vale a dire ad una sintassi cromatica e grafica che crea da se stessa i propri spazi pittorici senza nesso con quelli reali; e di conseguenza anche i propri nessi narrativi e tem­porali, in un altro registro che quello tradizionale.

La versione pratica di questa nuova teoria, o meglio la pittura che la individua, è quello di Robert Delaunay, con cui viene indagata principalmente la dinamica dei colori del­lo spettro, la simultaneità di compenetrazione dei colori e si impostano spazi veramente astratti, totalmente immaginati. Il colore di Delaunay è purissimo, cristallino, è una gamma di luci colorate di straordinaria suggestione poetica, che astrae dal dimensionamento consueto e vive in forza della sola astra­zione. Apollinaire la chiamò pittura orfica, con evidente ri­chiamo all’orfismo come poesia primitiva: come poesia del mito. È da Delaunay che viene sollecitata in Germania la tra­sformazione del cubismo verso un orientamento astratto, e pittori come Klee e Marc debbono a lui il primo impulso in questa direzione.

Già dal 1910 in Germania s’era andata costituendo quel­la rete di incontri alla cui conclusione sta il movimento del «Cavaliere Azzurro». Il «Blaue Reiter» sorse, come si sa, dalla collaborazione di Wassily Kandinsky con Franz Marc: l’almanacco di arte moderna che essi prepararono nel 1911 venne reso pubblico l’anno seguente, e infatti il 1912 è ufficialmente l’anno di inizio del movimento astrattista vero e proprio.

Ma non è vero che il movimento sia stato unidirezionale, perché tra il 1910 e il 1912 si registrò in varie parti d’Europa una fioritura di tendenze astrattiste, con intendimenti e pre­supposti teorici e pratici diversi e spesso contrastanti. Ad una forma di astrattismo giunse in questi anni il pittore Adolf Hoelzel, provenendo dal più rigido realismo (è vicino a De­launay, ma rifiuta di astrarre assolutamente dalla realtà degli oggetti); è del 1913, anche, il famoso quadro di Kasimir Malevich — un quadratino nero su fondo bianco — dal quale ordinariamente si fa derivare i movimenti suprematisti e costruttivisti russi, che sono anche forme di astrattismo. Non va ignorato, poi, l’importante movimento astrattista del «De Stijl» olandese, che però è leggermente posteriore, fondato dal pittore Piet Mondrian con intendimenti esclusivamenti grafici (niente colore e niente forme, soltanto proporzioni).

In questo fervido ambiente internazionale, il « Cavaliere Azzurro » sta ad indicare una prevalente derivazione francese, che in esso si conclude in termini nuovi, e per questo gran parte della critica storica vi ravvisa un fattore preminente nel sorgere dell’arte astratta.

Il critico Haftmann scrive che i colori del « Blaue Reiter » vogliono vedere natura e uomo uniti in un grande rapporto di esistenza. . . il metodo è meditativo ». La quali­ficazione romantica del movimento, per quanto possa sem­brare eccentrico parlare di romanticismo, trova in Haftmann il primo acuto osservatore.

Da un punto di vista strettamente filosofico, l’astrattismo può sembrare astorico e agnostico. Non è questa natural­mente la sede per disquisire sulla natura teoretica del movi­mento, ma è indubbio che molte formulazioni astrattiste, pre­se nella loro accezione generica e assoluta, intendono rifiutare ogni posizione che coinvolga una coscienza storica dell’evolu­zione spirituale; ed anche persino ogni forma di penetrazione conoscitiva (intuitiva) del mondo.

Specialmente in Kandinsky e in Marc tali posizioni ap­paiono teoreticamente nette. Marc sostiene che la pittura è una costruzione mistico-interiore del mondo, intende imme­desimarsi nel ritmo organico delle cose, nel « sangue » della natura, con un processo panteistico, ma spingendo troppo ol­tre queste idee trova che è necessario « animalizzare » l’arte: « non posso dipingere uomini » scriveva, ed infatti i suoi sono quadri di alberi, d’aria, soprattutto di animali. Il suo quindi è un ritorno alla felice, libera barbarie, ad una realtà — seppure trasferita in ritmi e spazi astratti — precedente all’uomo.

Di Kandinsky sono note le teorie sul « suono dei colori » e sugli effetti spirituali delle forme e dei colori stessi (e qui c’è un ricordo anche di Rimbaud).

Un effetto sul profondo dell’anima si sprigiona dagli ele­menti astratti, con la medesima intensità che è esercitata dagli elementi reali: è l’irrazionalismo della sensazione che si sostituisce alla coscienza storica e gnoseologica.

Dice ancora Kandinsky: un colore può destare l’idea di un accordo come il timbro di uno strumento musicale: l’ec­citazione ottica porta a vibrare anche altri campi sensoriali, secondo il fenomeno della sinestesia, per cui il colore può risultare duro, molle, caldo, freddo, umano, dolce, ecc. E qui appare chiara la qualità puramente emotiva, o sensoriale, della pittura. Nel catalogo della prima mostra del « Blaue Reiter » a Berlino, nell’autunno del 1913, era detto che l’artista deve tenersi lontano dalla vita, che i pittori non debbono confon­dersi con il mondo. Una pittura, quindi, questa astratta del « Cavaliere Azzurro », che rifiuta il contatto con l’esistenza, se ne pone al di fuori, alla ricerca di incanti e magìe che sol­tanto i colori e le forme arbitrarie possono creare.

Quanto tale atteggiamento mentale fosse sollecitato dalla necessità dei pittori di reagire ad una realtà storica e sociale europea in profonda crisi (siamo alle soglie della prima con­flagrazione mondiale e delle restaurazioni nazionalistiche) non è qui il caso di dire. Gli astrattisti protestavano così contro un’esistenza instabile e irretita nelle antiche e fruste ipocrisie; ma va anche detto che l’astrattismo del « Cavaliere Azzurro » preso nel suo complesso, è alla realtà dei fatti più umanamente sincero, più socialmente addentrato di quanto non possa sem­brare dalle sue enunciazioni teoriche.

In Italia, questo astrattismo si chiamò poi Magnelli, Licini, Soldati, dei quali solo il primo può essere considerato nella scia della pittura kandinskiana, sia pure in chiave di­versa; ma tutti e tre operano ormai in sfere di interessi che con il « Cavaliere Azzurro » hanno affinità sempre minori con il passare degli anni. Del secondo periodo astrattista ita­liano, quello che stiamo tuttora vivendo, si può soltanto dire che coinvolge un discorso più vasto e complesso, e che ormai s’è allontanato definitivamente dalla matrice.

Questa rapida sintesi, che vuole seguire una sola traccia astrattista (la più importante, criticamente) porta alla consta­tazione che questa arte astratta è pura forma, oppure puro ritmo, attraverso la sintesi delle sensazioni di spazio e di tempo.

Ecco il mondo astratto dentro il quale si muove la pittura di Fucini. I suoi interessi formali e cromatici vanno da De­launay a Marc, da Macke a Klee; ma se dovessi trascegliere fra i nomi per fissare i più prossimi, citerei Klee e Kandisnky.

Vicini alla visione di Klee appaiono senz’altro le opere n. 17, 21, 23 e 24 a quella di Kandinsky le opere 25 e 28 Ma è pur evidente che a distanza di tanti anni e con l’inter­mezzo di altre posizioni artistiche, il paragone ha il valore di pura indicazione. Lo si prospetta soltanto per stabilire un polo di orientamento, un grado di affinità elettiva e non, come è logico, per indicare scale di dipendenza. Fucini ha assimilato profondamente, per congenialità di temperamento e di gusto, certa pittura del « Blaue Reiter » e ne ha condiviso la sfera di interessi espressivi, ma nel quadro di questa appartenenza spirituale ha una posizione di assoluto spicco: e questo è in rapporto alla sua prima formazione, alla sua indole di artista e di uomo.

Anzitutto l’oggetto, in Fucini, non perde quasi mai com­pletamente i contrassegni reali. Anche nelle tele più astratte, la parte formale appare ancorata per qualche verso all’espe­rienza sensoriale. L’oggetto quindi resiste nella sua pittura, ma­gari soltanto come pretesto, come chiave allo sviluppo ritmi­co: e questo è un dato della estrazione toscana del pittore, per cui il possesso quasi fisico dell’elemento figurale si pre­senta come una eredità artistica di lontane prospettive storiche. A ritroso in questa necessità espressiva si risale alla « mac­chia » toscana dell’Ottocento e più indietro i terniini di an-coramento si fissano nel Quattrocento realistico e naturalistico.

Fino al 1950 circa Fucini fu pittore figurativo — si ve­dano le opere n. 12 e 13, e vorrei intendere « figurativo » proprio nel significato di « aderente alla forma sensibile ». La testa dell’opera n. 12 ha una solidità volumetrica e una sicurezza spaziale di limpido e balzante effetto, al quale nulla tolgono le vaste superfici cromatiche sentite come valori as­soluti. Gli oggetti sparsi dell’opera n. 13 conservano tale solidità figurativa, ma la risoluzione pittorica ha già fatto un passo avanti verso la disintegrazione dello spazio classico: sono già avviati verso una realtà pittorica estranea al dato na­turale, fatta di luci colorate e di cromie pure. Possiamo dire che anche nel Fucini più figurativo era presente, in fieri, quel­la poetica astrattista che a partire dal 1950 sarà il contras­segno più afferrabile del suo linguaggio.

Le dimensioni fisiche si cambiano in dimensioni liriche, grazie ad un colore sempre più assoluto, sempre più puro. Il tempo narrativo delle composizioni perde la frequenza cronistica della figuratività tradizionale, inventa cadenze e accadimenti che s’intrecciano in una sintassi decisamente astratta. I nessi spaziali e temporali sono svincolati dall’or­dine umano delle cose: sono le forme stesse o i colori che creano i loro spazi e i loro tempi di esistenza estetica, come proiezioni emotive. In tale senso, la pittura di Fucini rientra perfettamente in quell’ordine di attività astratta che ho prima seguito, con una incidenza personalistica che trova il suo va­lore più probante nella qualità lirica. Se infatti l’astrattismo fu per alcuni pittori ordine matematico o intellettualistico, per Fucini è fissazione lirica, contemplazione staccata ed emo­zionale. Ecco perchè la sua pittura è più affine a Kandinsky ed a Klee, che non, poniamo, a Macke o a Mondrian.

Il quadro nasce in Fucini da un determinato oggetto, da un tratto riconoscibile, come spunto di partenza. La forma di questo tratto, penso, più che la sua qualità cromatica, deter­mina lo sviluppo astratto della figurazione totale, perchè •s’avverte in tutte le sue opere che meglio lo individuano una intelaiatura propriamente formale, spaziata da campiture di colore intenso. Sul ritmo quasi sempre ondulante delle forme si libera il tessuto cromatico, di una consistenza profonda ne­gli olii e di ima gradualità assai tenera nelle tempere.

Sono quindi i colori che fissano distanze, primi piani, fondali in compenetrazioni irreali e di timbro magico, presenze tutte simultanee, a-cronologiche; presenze contemplative, emotive, presenze astratte. Il rigore di questo tipo di composizione è assoluto dovunque, come risoluzione conseguente di unità cromatiche e formali che si saldano nel tessuto del quadro con incastri perfetti.

Quando, tanto facilmente, si parla di ar­bitrio a proposito della pittura astratta, si dovrebbe riflettere che il pittore astratto è certamente più impegnato alla coe­renza ed alla logica formale del dipinto che non il pittore figurativo: a questi, infatti, è sufficiente — e riposante — la coerenza dell’ordine naturale delle cose, a quello è stimolo e croce la coerenza dell’invenzione pura, la coerenza, tutta da creare, del lirismo e dell’emozione.

L’orizzonte degli interessi fuciniani s’allarga talvolta fino ad includere il simbolismo estetico di Gauguin, trasferito sul piano astratto ma coti minore determinazione, cioè con mag­giore resistenza del contrassegno sensoriale. Così certi suoi squarci di paesaggio sognato, dove ardono di rossi e di gialli mitici cavalli. Così ancora certe sue figure umane, costruite di densi gialli e verdi su scala monumentale: idoli assorti di terre poetiche, in lontananze immemori.

Sarà anche facile stabilire una scala di valori iconografici fuciniani, con significato di predilezione tematica ed emotiva insieme: ed al primo posto porrei il tema della « pastorale », proprio nell’accezione classica di paesaggio agreste composto di elementi umani ed animali e di lavoro dei campi. È a que­sto proposito, appunto, che Grohmann parla di ricordi virgi­liani, ai quali — se debbono essere considerati come dati di avvio — occorrerà aggiungere la suggestione costante del paesaggio naturale che a Fucini è stato sempre consueto, la sua Toscana dolce e pittorica.

La vera ispirazione della pit­tura di Fucini — al di là anche di un non trascurabile inter­vallo socialmente « attivizzato » nel clima milanese dell’im­mediato dopoguerra — Va ricercata nella sua straordinaria purezza di colore, nella sua invenzione di climi assorti, nella sua poesia fuori del tempo e dello spazio. La sensibilità di questa invenzione poetica è riscontrabile anche nella sua at­tività grafica, nei disegni a matita ed a penna, sovente d’una eccezionale leggerezza di tocco.

Si potrebbe rintracciare nella grafica fuciniana i motivi costruttivi di molti suoi dipinti importanti, specialmente per quanto riguarda la presenza di elementi figurali: basta vedere come il segno muova da un atteggiamento realistico per creare formulazioni di respiro nettamente irreale.

Fucini è di certo uno dei meglio dotati pittori astratti ita­liani. Uno dei puri, che è rimasto nello spirito del vero astrattismo, senza lasciarsi tentare dalle lusinghe di facili affermazioni con gli adattamenti alle mode, cari a certa parte della nostra pittura. In tale senso la sua arte è stata ricono­sciuta e valutata dalla critica più seria. Arte che oggi ha un valore di esempio e di richiamo, come l’ha sempre l’arte, quando è davvero tale.

CARLO PACHER


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