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Rutilio Manetti

Siena Palazzo Pubblico

15 giugno – 15 ottobre 1978

 

Catalogo a cura di Alessandro Bagnoli

 

Introduzione

di Pietro Torriti

 

Pietro Torriti

 

L’ultimo decennio del Cinquecento, a Siena, vede un’impresa pittorica che deve aver fatto qualche scalpore nell’ambiente artistico cittadino: si trattava, infatti, di decorare le lunette e le vele, fra pareti e soffitto, nel Salone del Concistoro in Palazzo Pubblico, con alcuni soggetti più salienti della vita politico religiosa dell’antica repubblica senese.

Una specie di mostra collettiva cui parteciparono i frescanti allora più in vista con a capo, naturalmente, i due più noti: i fratellastri Francesco Vanni (1563-1610) e Ventura Salimbeni (1568-1613). Iniziò, probabilmente, la serie, sul 1592, Giovan Paolo Pisani, cui seguirono il Folli, il Vanni, il Salimbeni, il Rustici e, allo scoccar del nuovo secolo, Crescenzio Gambarelli.

Ma all’impresa, almeno per quanto scrissero il Romagnoli e il Pecci, sembra aver partecipato il giovane (e non più tanto) Rutilio Manetti, forse nelle due Storie di Santa Caterina e Papa Gregorio (1597) e nelle altre due di Mons. Antonio Piccolomini (1598).

La maggior parte delle lunette mostra il tipico stile tardo manierista senese che aveva alla sua base il baroccismo più stretto e che proprio in quel momento trionfava colla Annunciazione della Madonna di Francesco Vanni, nella Chiesa di S. Maria dei Servi a Siena: un fulgido dipinto, specialmente dopo la recente pulitura, forse il capolavoro dell’artista e che, seppur quasi copiato da opere del Barocci, nulla veramente ha da invidiare all’arte dell’urbinate.

Nelle lunette, dunque, il baroccismo fa presa, nel trascolorar delle ampie vesti dei personaggi o nella sofficità dei colori chiarissimi. Così, in questa unità di stile, è difficile stabilire i vari interventi: uno per tutti, tutti per uno, nell’esaltazione delle glorie patrie. Vi si è accinto il Bagnoli con paziente accuratezza accertando la probabile mano del Manetti la quale, tuttavia, si fonde nello stile comune.

Sono le prime fatiche pubbliche dell’artista, probabilmente all’ombra, o meglio ancora nella bottega del Vanni, suo quasi certo maestro.

Rutilio Manetti era nato nel 1571 e quindi, nel ’97, aveva già 26 anni, abbastanza per un artista ancora al suo primo lavoro, pensando in special modo a quali giovanissime età molti artisti iniziarono la loro carriera con opere spesso subito celebrate.

Il Manetti, dunque, deve essere stato uomo mite ed umile, senza voli improvvisi o slanci precorritori, per cui la vita corre piena e sicura, soddisfatto di sé e delle buone azioni in seno alla compagnia laicale di S. Antonio, pronto a soddisfare le esigenze religiose e politiche della città col dipingere, ad esempio, gli stendardi per la Compagnia di San Giovannino in Pantaneto, per i giubilei romani, la « Pianta » di Siena con veduta in prospettiva e finanche certe figurine di Santi da applicare ai ceri votivi.

Nel suo primo stendardo, quello del pellegrinaggio giubilare del 1600, lo stile tutto alla Salimbeni e, particolarmente, alla Vanni; né poteva essere diversamente per un giovane le cui aspirazioni verso la pittura, sia pur provincializzante, si dovevano rivolgere a quello che, proprio tramite il Vanni e il Salimbeni, giungeva di nuovo in città da fuori e specialmente da Roma ove i due fratellastri si erano formati e avevano a lungo soggiornato presi dalla passione del paesaggio alla Paolo Brill e dalle novità di un Cavalier D’Arpino, di un Lilli e di un Fenzoni.

Ma è proprio in questo momento, agli inizi del secolo, che al Manetti non sono più sufficienti le invenzioni del Vanni e del Salimbeni i quali sempre più sembrano adagiarsi in un troppo comodo filone ripetitivo e con scarsa riuscita di altre novità.

Già nello stendardo del 1600, qualche preziosismo luministico, qualche più accentuata vibrazione cromatica, indicano una strada verso ricerche più personali e moderne che subito si concretizzano, pur sempre nell’ambito della scuola senese del Salimbeni (il più interessato dei due fratellastri ed ottimo frescante) nell’impegnativo ciclo di affreschi dell’Oratorio di S. Rocco alla Lupa in Siena (1605/1610) ove, oltre tutto, Rutilio acquista una posizione di primo piano nell’attività pittorica senese del primo decennio del Seicento.

Come accenna giustamente il Bagnoli, gli affreschi, con Storie della vita di S. Rocco, di una chiarezza « didattica » sono svolte in perfetta sintonia colle direttive religiose e morali del Concilio di Trento o « assumendo quasi il ruolo di manifesti dello spirito controriformistico che anima le compagnie laicali ».

Ma le novità pittoriche non sono poi tanto rilevanti nel rigore architettonico delle composizioni, in quelle squadrature dei morti ignudi fin troppo accademicamente composti nel loro perfetto studio geometrico.

La foresta nel S. Rocco e il cane è chiaramente un ricordo dei paesaggi romani di Paolo Brill (quindi trasmessi a Rutilio ancora dal Salimbeni), i colori  « acquarellati » delle singole scene, con macchie di verde smeraldo, di rosa pallido, di grigio celeste, sono tipici dei manieristi senesi in genere e di Ventura in particolare.

Le novità sono, dunque, da ricercare nella preziosità delle dalmatiche sacerdotali, pesantemente concrete e naturali, nella chiarezza cristallina di qualche particolare di natura morta, quale, ad esempio, è la bacinella d’acqua nel S.Rocco e gli appestati.

Dove, invece, il Manetti sopravanza tutta la pittura senese contemporanea è nell’acuta indagine di alcuni personaggi ritratti dal vero con immediatezza e capacità costruttiva. Si osservino, nel S. Rocco trasportato al sepolcro, i due sacerdoti sorreggenti il cataletto, l’uno grosso e tarchiato, solido come una colonna, l’altro esangue, dagli occhi stralunati e fissi in avanti che sembra camminare per inerzia.

Ora la luce costruisce con solidità di forme o squaderna sugli sfondi la chiarezza di qualche facciata architettonica, di qualche angolatura di strada in prospettiva ove si perdono figurine appena abbozzate ma vivide, di colore a macchia.

E in questi ritratti o in questi studi del particolare che Siena sembra veramente incominci a parlare un nuovo linguaggio figurativo oltre i confini manieristi del tardo Cinquecento.

E il Manetti prosegue questa strada anche con l’affresco del 1609 in S. Sebastiano in Camollia, mentre in quello di S. Maria sotto le volte dell’Ospedale, torna a schemi salimbeniani. Che Rutilio, per giungere a tali risultati si sia adeguato a correnti forestiere è chiaro, la fonte non era poi tanto lontana: a Firenze col Passignano, col Cigoli, col Commodi e coll’Empoli o, nella stessa Siena, col fiorentino, ma più compassato, Bernardino Poccetti.

Quando Rutilio torna contemporaneamente a dipingere lo stendardo per lo stesso Oratorio di S. Rocco, riprende il gusto baroccesco del suo maestro e quello del Salimbeni (cui lo stendardo era attribuito fino al recente riconoscimento effettuato da Alessandro Bagnoli) quasi che la tela più dell’affresco (non tanto congeniale al Vanni) lo costringesse a modi più compassati ma certo piacevoli ed accetti in quel momento ai vari committenti.

Fa un poco eccezione il Martirio di S. Giacomo nell’omonimo oratorio in Salicotto, che è del 1605, ove le novità del taglio prospettico, la ricerca di maggiore spazialità ed un accentuato contrasto chiaroscurale preannunciano gli affreschi di S. Rocco, or ora osservati, indicando, comunque, uno stimolo a ricerche pittoriche e luministiche al di fuori di moduli vanneschi e salimbeniani, anche se la base è poi sempre quella del tardo manierismo senese.

Lo si potrebbe confermare dalle opere eseguite da Rutilio sul 1609/’10 quali, ad esempio, la Predica del Battista in S. Giovannino in Pantaneto a Siena (a meno che non si tratti del dipinto del 1602 come proporrebbe il Brandi), l’Arcangelo Michele con S. Galgano agli Uffizi assegnatogli da Carlo del Bravo e quindi le Tre Grazie della Galleria Borghese a Roma e la Susanna Chigi Saracini a Siena.

Per comprendere quanto la pittura del Manetti sia prossima, in questo momento, al Vanni basterebbe pensare a quel delizioso quadretto della Borghese: già attribuito al Vanni dal Della Valle, fu ritenuto dal Longhi di un manierista romano e quindi dal Brandi riconfermato al Vanni, dallo Scavizzi al Salimbeni, dal Voss e dalla Della Pergola a Rutilio Manetti.

A quest’ultimo artista spetta forse tale dipinto e non tanto o non solo per i rapporti col S. Galgano degli Uffizi, pure assegnato al Manetti da Carlo del Bravo, ma particolarmente per la morbidità chiara della luce come ci sembra non mai in Vanni e in Salimbeni, una morbidità che fa tornare alla memoria il Correggio alla cui pittura il Manetti attinse per il suo Riposo durante la fuga del Museo di Kassel (c. il 1612) ricopiando addirittura la composizione della celebre “Zingarella” dell’Allegri.

Non siamo lontani dalla Susanna Chigi Saracini, ma in quest’ultimo dipinto vi è più saldezza plastica degli incarnati, una organata struttura compositiva che ci porta dritti dritti all’Andromeda della Galleria Borghese, sul 1613.

E’ un tormentato rinnovarsi in Rutilio con forme ove la luce, per maggiormente rilevarsi, ha bisogno di gorghi d’ombra sempre più sentiti e profondi; si guardi, ad esempio, all’Incoronazione della Madonna nella Pinacoteca senese (c. il 1611/’12): accanto al volto vannesco del Redentore, chiaro e sfocato, si costruisce quello della Vergine con nettezza di profili e più ancora quello del S. Carlo Borromeo tutto risolto nei tagli decisi della luce e dell’ombra con una anticipazione sorprendente di opere manettiane di otto/dieci anni posteriori.

La conferma che un nuovo passo è stato fatto ce l’offre il Crocifisso e Santi in S. Silvestro a Pisa (1612) che, coerentemente allo stile di quella “pittura riformata” fiorentina, era stato assegnato al Curradi. Ma è ancora il connubio Manetti-Salimbeni a vincerla nel pendant colla Crocifissione di S. Pietro e colla Decapitazione di S. Paolo, il primo firmato dal Salimbeni e l’altro, per evidente parallelismo, assegnato ugualmente a questo artista dalla critica e quindi riconosciuto dal Bagnoli come opera di Rutilio.

Una lampante conferma è il fatto che lo Scavizzi abbia assegnato ambedue le tele al Salimbeni ma vi veda anche “il frutto di una prima violenta impressione delle novità luministiche che maturavano a Roma in quegli anni”. Novità non però salimbeniane ma del Manetti, dunque, che si preparava a proseguire ben oltre e a “ricevere” il verbo caravaggesco.

Il trapasso non avviene tanto colla Pietà Chigi Saracini (1613) o con quella della Chiesa di S. Maria in Betlem, sempre a Siena (id) e neppure colle due Storie di S. Galgano nella Chiesa senese di San Raimondo al Refugio (1613) quanto, invece, col Martirio di S. Ansano, sempre del ’13, già nel Palazzo Pubblico di Siena ed ora nella Pinacoteca di questa città.

Il fondo scena, con i gruppi laterali dei cavalieri, è ancor tutto vecchio stile, ma ecco, sui primi piani, la luce costruire con naturalezza i torsi nudi degli uomini e tutta la figura del martire con più sicurezza di contrasti chiaroscurali che per la prima volta possono richiamare al Caravaggio.

Il carnefice, nello slancio mal riuscito, piroetta su se stesso forzatamente in equilibrio instabile fra una contorta posizione di “maniera” ed un naturalismo sorretto ancora dalla vivezza della luce.

Con uno sforzo che rasenta il ridicolo, la nuova strada è ormai aperta verso una poesia personale e sentita: i rami più o meno secchi della tradizione manierista tardo cinquecentesca vengono recisi uno ad uno, ad ogni nuovo dipinto, nel purificarsi della luce sempre più vera e costruttiva. Intorno al 1615/’16, Rutilio Manetti ha già 45 anni, dovrebbe aver raggiunto una sua propria personalità, matura e definita; invece è all’inizio di una svolta, ora decisiva, che lo porterà ad una trasformazione.

Occorreranno ancora esperienze per altri anni, non cambierà improvvisamente, come ritenne Cesare Brandi in quel suo saggio che, pur scritto nell’ormai lontano 1931, a venticinque anni, resta ancora il più grande omaggio all’opera dell’artista senese.

Infatti, nelle tele della Certosa a Firenze (1613/’17), in quella del Poggiolo a Monteriggioni (1614), nell’Immacolata di Massa Marittima, nel Matrimonio della Madonna a Sinalunga (1615), nella Visitazione in S. Stefano alla Lizza di Siena (c. il 1615) è un accavallarsi di nuove impressioni senza, tuttavia, un sicuro raggiungimento.

La Visitazione sembra un’opera fiorentina di “pittura riformata” prossima all’Empoli o al Passignano, comunque ormai ben distante dal manierismo senese: ma bisogna giungere a circa il 1618 perché Rutilio, colla Beata Margherita nella biblioteca della stessa Certosa fiorentina, colla Epifania dell’Accademia degli Intronati a Siena e più decisamente col S. Agostino della Collegiata di Casole d’Elsa, volti definitivamente pagina verso una pittura dal colore assai più consistente e da una luce che delinea gli spazi e quindi costruisce con decisione le forme, rende vivi gli oggetti, umanizza i personaggi tanto da far pensare a modelli caravaggeschi.

Ma se le mani del S.Agostino che lava i piedi a Gesù pellegrino, nella citata pala di Casole, nel bianco grembiule del santo o nel mantello di Cristo stesso, la luce par veramente riecheggiare l’agghiacciante luminismo del Caravaggio, il resto del dipinto, e particolarmente l’Eterno Padre e la Maddalena, è sostenuto da un’atmosfera luminosa più morbida che trae origine non da una fonte pittorica romana, ma bolognese, guercinesca in particolare.

Quasi certamente, infatti, intorno al 1617, il Manetti deve essere stato a Bologna; non si spiegherebbe altrimenti il fatto per cui il bolognese Conte Virgilio Malvezzi fu, proprio in quell’anno (23 settembre 1617) padrino di “Gostanza” figlia di Rutilio.

Influsso romano, dunque, ma anche bolognese guercinesco, due correnti che non sono poi tanto lontane e che si innestano nella pittura di Rutilio poco avanti il 1620; ma se quella bolognese, come abbiamo detto, deriva dal Guercino stesso (e forse anche dal Cesi), quella romana di ricordo caravaggesco non sembra essere giunta a Siena direttamente dal Merisi, ma trasmessa a Rutilio da altri pittori giunti in Toscana (per non dire a Firenze) da Roma.

Si prendano, ad esempio, la S. Lucia dell’Ospedale della Scala a Siena (c. il 1618-’19?), la Maddalena di Palazzo Pitti a Firenze (1618-’20) o la straordinaria Lucrezia della Collezione Chigi Saracini pure a Siena, forse di poco posteriore: in tutti e tre i dipinti, accanto ad accenti guercineschi, è presente quel realismo caravaggesco filtrato da opere di seguaci, particolarmente stranieri, ed in primo luogo da quel Gerard von Honthorst — Gherardo delle notti — che andava in quel tempo inviando a Firenze più di un suo dipinto.

Ma se nell’Honthorst il colore si annulla in una bicromia bianco marrone, in Rutilio la gamma vivace dei verde smeraldo, dei gialli, dei rosso granata si intride concretamente colla vivezza della luce creando un’atmosfera assai ben più calda e profonda.

Ne è esempio bellissimo la Crocifissione colla Maddalena della Chiesa di S. Giacomo in Salicotto a Siena: un dipinto straordinario ove, allo squadernarsi quasi altero del Cristo sulla croce, fa mirabilmente eco l’abbandono della Maddalena la cui plasticità del volto si esalta nel fluire dei lunghi capelli d’oro e nella ampia veste di un giallo fulgente. E’ un momento di grazia per l’attività di Rutilio Manetti, una attività che può ormai essere datata “ad annum” sino alla fine e che dal 1620 al 1630 ed oltre ci darà i suoi più alti capolavori.

Ecco, infatti, subito dopo la Crocifissione di Salicotto nella Torre, la grande pala del 1621 nella Chiesa di S. Pietro alla Scala a Siena col Riposo durante la fuga, il dipinto forse più noto del Manetti ed elogiato da tutta la vecchia critica storica, dal Wicar al Canova.

Il Manetti parte dalla composizione del suo Elia e l’angelo del Duomo di Pisa, ne amplia gli spazi, rende armonica la scena ed addolcisce la luce con morbidità, di gusto correggesco, ma esaltata da una straordinaria sensibilità cromatica tutta personale, o meglio tutta senese, nel ricordo grande del Beccafumi.

Mi sembra giusto riaffermare che le suggestioni guercinesche continuano, anzi sopravanzano a quelle caravaggesco fiamminghe che possono scoprirsi, se mai, nel vecchio S. Giuseppe o in qualche brano prezioso come natura morta.

Ne deriva una composizione equilibrata, di grande respiro, solida nell’organicità costruttiva che si conclude nell’aerea danza dei tre angeli incastonati, in alto, come una corona. E’ la stessa suggestione che ritroviamo nelle contemporanee Quattro stagioni, di collezione privata, tanto apprezzate da Roberto Longhi.

La “pretesa del caravaggismo”, infatti, si attenua nella morbidità degli incarnati, nel più dolce lumeggiare, in un edonismo, insomma, estremamente raffinato, anche se un poco provinciale, che indica un sapiente studio compositivo per giungere ad effetti di piacevolezza lontani dal realismo drammatico del Caravaggio. È chiaro, dunque, che le suggestioni del Merisi, in tutte queste opere, vengono filtrate attraverso composizioni di più piacevole effetto quali quelle che l’Honthorst inviava, come abbiam detto, a Firenze, intorno al 1620.

“L’incanto del controluce honthorstiano” scrive Evelina Borea, relativamente al dipinto della Galleria Palatina di Firenze con Ruggero e Alcina, “rapisce il Manetti al punto da trascinarlo assai lontano dalle convenzioni dei teatrini toscani montati in memoria del Tasso e dell’Ariosto: e per la verità, anche dalla manfrediana methodus, con quella trovata mirabile della cerchia di personaggi visti dall’alto e come ruotante intorno a un perno, che non è nel centro”. Il dramma caravaggesco si traduce poi, sul 1624, in melodramma con Sofonisba e Massinissa agli Uffizi “inteso come uno dei più potenti riflessi del caravaggismo toscano” (Borea).

Questo eccezionale dipinto, tuttavia, ha del Caravaggio quel tanto che del suo stile giungeva a Firenze, ora non più solo tramite Gherardo delle notti o il Manfredi, ma anche tramite Artemisia Gentileschi, questa eroina toscana del lume caravaggesco.

Rutilio Manetti ne assorbe pregi e difetti, gli uni con l’accarezzare di diafana luce i volti torniti, dall’epidermide lucida e delicata, gli altri forse coll’appesantire l’eleganza dei personaggi con sete damascate, con broccati lucenti, con sciarpe, stole, orpelli preziosi.

La bellezza del dipinto è data da un equivoco effetto della luce notturna che, proprio perché tale, crea vivide le immagini, ne blocca i gesti, organizza la scena come su di un palco, ma nello stesso tempo una luce diafana, più morbida nei fondali, sospesa, stregata come in una scena di magia.

Rutilio insiste su questa strada con la trasognata visione del S. Alessandro liberato dall’angelo (1625) di Sant’Ansano Greti a Vinci o con le due contemporanee versioni del Loth e le figlie, l’una a Roma nella Galleria Barberini, l’altra nel Museo di Valencia, ove una baluginante luce notturna sprigionantesi dalle candele o dalle torce, avvolge le figure in un’atmosfera nebulosa, disfatta.

Anche un poco più tardi, sul 1630, torniamo talvolta a questi effetti, ad esempio nel Dante e Virgilio della Pinacoteca di Siena, la cui attribuzione spetta ancora una volta a Carlo Del Bravo, anche se la tela non era sconosciuta (dobbiamo a questo studioso un contributo fondamentale specialmente per l’indicazione di numerosi inediti manettiani).

Nel Dante e Virgilio alla porta dell’Inferno (un soggetto rarissimo nella pittura), l’artista tenta, riuscendovi egregiamente, una esecuzione in contro-luce: i raggi colpiscono di spalle i due personaggi della “Commedia” che in tal modo vengono proiettati in avanti in un movimento quasi di danza. I freddi riverberi, sono qui assai decisi e contrastanti colle ombre in modo da costruire saldamente le figure avvolte in un’atmosfera tutta sostenuta da tonalità di verdi, di grigi, di pallidi rosa, dando luogo a un che di mistero anche in perfetto accordo colla natura del soggetto.

E’ così che il caravaggismo del Manetti “sebbene per la sua forza si imponga come il più notevole tentativo naturalistico dei pittori toscani, fu però sempre attenuato dall’ossequio al clima miracolistico, che doveva qualificare il soggetto sacro, e dall’arricchimento coloristico ornativo” (Dal Poggetto). Ciò detto, è evidente che un ipotizzato viaggio a Roma di Rutilio Manetti, per osservare da vicino le novità pittoriche che si andavano svolgendo in quella città, può non avere avuto luogo.

Il Manetti, infatti, aveva a disposizione a Firenze numerose opere caravaggesche cui guardare. Data per scontata la conversione dell’artista al caravaggismo alla troppo precoce data del 1616, col dipinto della Morte del Beato Patrizi (dipinto, come diremo, assai più tardo) il Longhi dovette accettare il viaggio a Roma in quell’anno, nell’ambiente del Fiasella, di Antiveduto Gramatica e del Baburen.

E’ Carlo Del Bravo che riconduce sulla strada fiorentina le nuove esperienze del Manetti, indicando, giustamente ci sembra, i modelli nei dipinti di Artemisia Gentileschi, dello stesso Gramatica ed anche (ma per noi meno probabilmente) del Tarchiani e del Fontebuoni.

Se, invece, viaggio a Roma del Manetti vi fu, come riteniamo anche noi col Bagnoli, questo avvenne molto dopo, nel 1625 cioè, in occasione di quel giubileo.

Per questo avvenimento Rutilio aveva dipinto lo stendardo da trasportare a Roma in pellegrinaggio, copiando il Crocifisso duecentesco detto “delle stimmate di S. Caterina”, insieme ad un secondo stendardo per la Compagnia dei Santi Niccolò e Lucia a Siena (trafugato, purtroppo, alcuni anni or sono dalla Parrocchiale di Montefollonico).

Non abbiamo alcuna documentazione precisa sul viaggio del Manetti a Roma, tuttavia lo si arguisce anche dalla produzione dell’artista, posteriore al ’25, che riprende troppo precisi spunti da opere del Merisi e della sua cerchia romana.

Già nell’anno seguente (se non addirittura sul finire dello stesso 1625) ne osserviamo le prime impressioni nella Natività della Madonna alla Chiesa di S. Maria dei Servi a Siena: quel bacile, quel cesto, la bella brocca di rame sul primo piano, si isolano come brani puri, fine a se stessi, di pittura caravaggesca romana; la mobilità della luce che si rapprende concreta e chiara, sulle pieghettature delle vesti del Borgianni, mentre la struttura compositiva, colle sode e rotondeggianti figure femminili, richiama il Vouet e il Terbrugghen.

Il mirabile sfondo colla cucina è caravaggesco: un chiarissimo omaggio di un caravaggesco senese al grande concittadino Domenico Beccafumi.

Così nella Coronazione di spine in S. Filippo a Pistoia (c. il 1630) si sottolinea un legame col Valentin per il tipo di soldato barbuto (Bagnoli) e in generale coi pittori caravaggeschi francesi a Roma nel secondo decennio del secolo.

Ma nella Resurrezione di Cristo per la Chiesa di S. Niccolò in Sasso a Siena (1631) il Manetti si rifà direttamente al Caravaggio imitando addirittura, nel soldato urlante, il ragazzo impaurito del Martirio di S. Matteo a S. Luigi dei Francesi.

Peccato che la bella composizione del Manetti, con le due guardie squadernate in diagonale in un movimento ruotante — l’una vista di prospetto, l’altra contrapposta di schiena —sia rovinata dalla debole figuretta del Cristo risorto che aleggia in aria come un ballerino.

L’intervento probabile del giovane figlio Domenico, in questa sola figura, ha interrotto l’afflato potente che si sprigionava dalle due salde figure laterali. E’ una discontinuità qualitativa che riscontriamo pure in un altro capolavoro di Rutilio (e che, tuttavia, se eseguito intorno al 1626/’27, non può aver visto la partecipazione di Domenico Manetti, a meno che il dipinto non possa essere spostato in avanti di qualche altro anno).

Trattasi della Morte del Beato Patrizi in S. Agostino a Monticiano: un’opera che ha destato particolare interesse critico poiché, da un posteriore documento relativo, è stata ritenuta giovanile, addirittura del 1616 e quindi considerata il primo lavoro della cosiddetta “seconda maniera” del Manetti.

Alla relativa scheda del catalogo si dirà del documento non più ritenuto valido e del più giusto collocamento del dipinto intorno al 1626/’29. Ora importa ancora una volta osservare come il maestro volga le sue impressioni caravaggesche a composizioni sempre valide, rinnovando il proprio linguaggio attraverso il brano altissimo della figura del moribondo e della natura morta che gli è posta accanto.

Malgrado l’invadenza, compositivamente assai fiacca, dell’Eterno e degli angeli turiferari, l’artista è riuscito ad isolare questo mirabile brano in cui vengono armonicamente scanditi con fermezza di luce le mani, il volto, il teschio e il secchiello dell’acqua santa sopra il panchetto, che sembrano preludere alla simile composizione del Magnasco in quella sublime e tragica Morte di S. Francesco nel Palazzo Bianco a Genova.

E’ una disposizione precisa, misurata nel ritmo compositivo di questi particolari, ma poeticamente sublimata da questa luce creatrice di forme purissime. Non importa che tutto il resto (tranne un poco il sacerdote benedicente e i tre monaci assistenti) scada in pose teatrali e fasulle, Rutilio Manetti, nel brano osservato ci ha offerto una delle sue più belle creazioni.

Dopo il viaggio romano del ’25, Rutilio Manetti si dedica anche ad una produzione di soggetti di genere prettamente caravaggeschi (ed è questa una riprova del suo soggiorno nell’Urbe) quei notissimi soggetti di natura morta o dipinti a lume di candela con giocatori, suonatori, zingari, ecc., soggetti che non solo rompevano il tradizionalismo della Controriforma ma rivoluzionavano ogni più antico concetto estetico: “e il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure”.

I Giocatori e suonatori a lume di candela, nella Collezione Chigi Saracini a Siena, eseguiti intorno al 1626/ ’27 e già assegnati a Gherardo delle notti, è un tipico esempio di quanto Rutilio sia stato impressionato dalla pittura di genere caravaggesca romana.

La luce si sprigiona dalla candela posta al centro del tavolo, investe le cinque figure, le trae fuori da profondi gorghi di ombra, le anima, ora con saettanti guizzi che si intersecano nelle fitte pieghe delle vesti, ora con modulate e calme zone bianche che delimitano il piano del tavolo, la sagoma degli strumenti, il collo tornito e il volto ovoidale, quasi geometrico, della cantante al centro.

Siamo così vicini al gusto di un La Tour come di un Honthorst, di un Regnier, di un Tournier e persino di un Valentin che più di uno studioso si è ad un certo momento domandato se questo bel dipinto non appartenga invece a qualche francese caravaggesco o al Manetti medesimo.

Se fosse l’unico dipinto di tale stile e di tale soggetto e, perché no, di tale qualità, potremmo dubitare in tal senso, ma Rutilio continua la serie fin quasi alla vecchiaia con opere altrettanto alte, sue indubbiamente.

E’ il caso, per citare le più note, dei Giocatori di dama (c. il 1630/’32) o del Concerto con violoncello (c. il 1633) ambedue a Siena, sempre alla Chigiana, poi del Concerto a quattro (c. il 1633/’34) già in Coll. Spiridon di Roma.

L’artista è così preso da questo filone di pittura di genere da seguirlo persino nei soggetti biblici come in quella splendida tela del Museo di Città del Messico ove Dalila diventa una formosa zingara e Sansone un soldataccio abbindolato.

Sembra di trovarci di fronte ad un’opera del Tournier o meglio del Baburen se non fosse per quei vivaci colori che culminano nello scrosciante rosso granato della veste dell’ammaliatrice, colori corposi ma vellutati, tipici del senese.

Un artista così rivolto alla ricerca del “naturale” non può aver trascurato logicamente la ritrattistica, e Rutilio Manetti vi si dedica con passione, non tanto vorrei dire, nel ritratto da cavalletto quanto nell’indagine fisionomica dei personaggi più o meno sconosciuti da porre fra la folla delle sue pale d’altare o da volgere in sembianze di santi o di beati, di accoliti e di donne affaccendate.

A parte qualche ritratto vero e proprio (si pensi agli Autoritratti, alle severe immagini di Pier Maria Romolo Saracini della Chigiana a Siena (1624) e di Lelio del Taia in coll. privata) la nostra attenzione si volge proprio verso quei volti anonimi che si stagliano vivi nei dipinti di Massa Marittima (Madonna e Santi), di Lucca (Beato Salvatore da Orta), di Siena (Martirio di S. Ansano e Miracolo di S. Eligio, nella Pinacoteca) ecc., ecc.

Il capolavoro del Manetti, in questo campo, sta forse nel ritratto di uomo sotto sembianze di S. Matteo, in Collezione Grisaldi del Taia (1636), impostato con vigoria di lumi, superbo e un tantino volgare, nella ricca veste da camera, in contrasto, tuttavia, colla splendida qualità della materia pittorica e con l’acutezza dell’indagine psicologica che trova la sua quint’essenza nelle mani adunche e prensili e nello sguardo volpino del personaggio.

Sono queste opere profane, più commerciabili, che hanno particolarmente reso noto Rutilio Manetti fuori della Toscana, per non dire solo fuori dalle rosse mura della sua città. Le opere religiose, infatti, le grandi macchine d’altare, appena eseguite furono relegate nell’oscurità delle chiese di Siena e delle pievi del contado ove ancora si trovano, sconosciute ai più, alla stessa critica in genere tranne che a qualche studioso più interessato.

Bene scrisse Cesare Brandi, nel 1931, in quel suo citato saggio al catalogo delle opere dell’artista senese: “Rutilio Manetti non ha ancora preso posto fra gli eroi ufficiali del Seicento italiano.

A parlare di lui bisogna vincere un senso di incredulità, la sua pittura rimasta in provincia e fuori commercio, il suo nome estraneo al repertorio usuale del critico d’arte, si gettano ombra a vicenda. Nella polvere e nell’oblio Rutilio Manetti morì una seconda volta”.

Non è stato, del resto, facile neppure nel 1978 a far scendere dagli altari le grandi pale, alcune delle quali di dimensioni fuori dell’ordinario: penso, ad esempio, alla Messa di S. Cerbone in S. Maria di Provenzano a Siena, di quasi 5 metri di altezza, o al Trionfo di David nel Museo di Lucca, largo quasi altrettanto. Esse sono rimaste al proprio posto con alcune altre, inamovibili spesso, come il telone (unito ad un pesante supporto ligneo) nell’abside del Duomo di Pisa.

Ma alla mostra non potevano mancare (e mi auguro che quanto ora vo scrivendo non sia smentito dalle solite cause di forza maggiore presentatesi all’ultimo momento) almeno la gran tela con l’Indemoniata di S. Domenico a Siena o la Morte del Beato Patrizi a Monticiano, la Natività della Madonna, sempre a Siena nella Chiesa dei Servi, o il Presepe di Colle Val d’Elsa: opere di troppo alta qualità o di essenziale importanza cronologica per rimanere assenti dalla rassegna.

II Miracolo di S. Antonio che libera una indemoniata, proveniente da S. Domenico, è fra le più alte opere del Manetti (1628).

A ben cinquantasette anni Rutilio mostra ancora una eccezionale sensibilità alla luce, una libertà inventiva, una scioltezza di composizione che, trascurando i vecchi canoni, culmina nel particolare della giovane donna, in primo piano a destra, vista di schiena: un pezzo di bravura che vale tutto il quadro, e non solo per questa sua naturalezza compositiva ma per la fulgente gamma di colore bianco celeste della veste e del manto imbevuti di una luce tersa come in un cristallo.

Dello stesso anno è un altro capolavoro recentemente acquisito alla fruizione pubblica: il S. Girolamo confortato dagli angeli, oggi nella raccolta del Monte dei Paschi a Siena.

Un dipinto profondamente diverso dal Miracolo dell’indemoniata tanto che se non fosse ugualmente datato al 1628 non potremmo pensare ad una contemporaneità di esecuzione.

Il S. Girolamo, infatti, è tutto una esaltazione di contrasti luminosi senza concessione alcuna al gusto del colore.

E’ solo un profondo ansimare di questo vegliardo sorretto da due bellissimi angeli, un abbandono completo ad una luce vivida ma morbida sì che il dramma si smorza immergendo invece la scena in un’atmosfera meno reale.

E’ per questo, riteniamo, che la lezione bolognese del Guercino non è stata ancora dimenticata, come altri ritengono.

E’ una lezione che il luminista Manetti non può avere del tutto abbandonato dopo le opere del 1618/’20 e del 1625; del resto le due tavole del Cataletto della Compagnia di S. Lucia, eseguite proprio nel ’25, confermano a parer nostro le suggestioni provate dal Manetti a Bologna intorno al 1616/’17.

Poco dopo lo scoccar del quarto decennio del secolo, sul 1630/’32, sono ancora presenti ricordi della pittura bolognese, ma rivolti ora ad opere del Lanfranco e del Reni (Del Bravo): ne sono, infatti, testimonianze nella Maddalena e l’angelo di Collezione Gori Pannilini a Siena (1630/’32) nell’Assunta di S. Mercuriale a Forlì (1632), nei Ss. Pietro e Paolo, rispettivamente in Coll. Monte dei Paschi di Siena e in Palazzo Pubblico pure di Siena (c. il 1633/’34), nella Santa Caterina d’Alessandria all’Accademia Chigiana (Collezione Chigi Saracini), nel telone del Beato Franco da Grotti al Carmine, sempre a Siena (c. il 1633), ecc.

Siamo così giunti alla Tentazione di S. Antonio in S. Agostino (c. it 1632) resa celebre da Leonardo Sciascia.

Opere, tuttavia, ove, ora più ora meno, emerge l’inevitabile declino dell’artista: la firma di Rutilio Manetti sembra debba convalidare, ormai, il prestigio del nome nella invadente esclusività della bottega. Eppure ancora il fuoco cova sotto la cenere ed esplode un’ultima volta, incandescente a quattro anni dalla morte colla Natività di Gesù, del Duomo di Colle Val d’Elsa, oggi in quel Museo Civico.

Senza alcun bisogno di fonte naturale, ora la luce si sprigiona dal Bambino come nei grandi esempi classici di un Lotto o del Correggio, ma è una luce vibrante, mobilissima, ancora simile a quella del caravaggesco Borgianni (addirittura il S. Giuseppe della Sacra Famiglia con S. Giovannino di questo artista, già nel Monastero di S. Lorenzo in Capite a Roma, si è trasformato in S. Girolamo nel dipinto di Colle d’Elsa), una luce intrisa di colore che si scompone fremente in mille rivoli, si perde nei solchi di ombra e torna ancora a risplendere, a creare limpida una mano, un volto, un brano di stoffa, a danzare insieme agli angioletti, a disegnare il bianco nastrino che essi si divertono a svolgere.

L’ultimo sorriso umile, vivissimo, di Rutilio Manetti: alla bottega, per molti decenni ancora, principalmente al figlio Domenico, poi al Volpi, al Nencini, forse al Tornioli, il compito di proseguire più o meno stancamente, con opere troppo spesso insipide e convenzionali, l’impossibile eredità di un maestro.

 

 


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