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Rutilio Manetti

Siena Palazzo Pubblico

15 giugno – 15 ottobre 1978

 

Catalogo a cura di Alessandro Bagnoli

 

Prefazione di Cesare Brandi

 

 

Questa mostra di Rutilio Manetti avrebbe già dovuto essere organizzata dal Comune di Siena nel 1932, subito dopo che era stata pubblicata la mia monografia sull’artista: invece vede la luce solo ora, per quanto sarebbe stato giusto che fosse stata preceduta da quella se non del Beccafumi, almeno del Vanni e del Salimbeni, prologo naturale e necessario alla prima fase del Manetti.

Ma ora che il Comune di Siena ha riconosciuto finalmente l’opportunità di dotare questa città derelitta di un grande locale per le mostre, l’omissione del Vanni e del Salimbeni potrà essere sanata in futuro, e pazienza se la cronologia sarà sacrificata.

L’importante è stato che si sia sentita la necessità di scuotere la vita culturale di una città d’arte, con una mostra che, se non è di un sommo, è sempre di un grande artista, per di più quasi sconosciuto, per di più caravaggesco, proprio ora che il caravaggismo è assurto ai massimi fastigi in tutto il mondo.

Avere continuato ad ignorare ufficialmente il Manetti, quasi che la storia artistica di Siena si arrestasse alla metà del ‘500, con la sua fatale caduta nell’orbita dei Medici, era, da parte senese, un autolesionismo.

Per questo si spera che una simile mostra non sia la prima e l’ultima di una serie che, con opportune scelte, può continuare, magari biennalmente, per diversi anni.

L’avere iniziato allora col Manetti, si giustifica anche con la risonanza indubbia del caravaggismo, che, sebbene il Manetti sia stato anche un seguace assolutamente valido del Vanni e del Salimbeni, rappresenta il salto di qualità, l’immissione nel circuito della pittura nuova, che già verso gli anni dieci del seicento, non era più quella del Barocci, per quanto grandissimo egli fosse.

Ma come il Manetti si rendesse conscio della pittura caravaggesca è ancora il punto oscuro nella ricostruzione della sua attività, per la quale vale il parallelo con il grande Orazio Gentileschi.

Anch’esso fu manierista, e quasi fastidioso, fino al 1605, quando all’improvviso si accorge, ma stava a Roma anche prima, del Caravaggio, e proprio allora che il Caravaggio stava per andarsene.

Ora, per quanto siano stati intraveduti gli attacchi del Manetti soprattutto con alcuni caravaggisti francesi come il Valentin e il Vouet e poi con l’Honthorst e forse con Cecco del Caravaggio e il Manfredi, resta il fatto che il caravaggismo del Manetti è sostanzialmente diverso, di intenzioni formali, in particolare da quello dei due francesi, perchè il Manetti mira al volume con ben altra intensità.

E questo poteva venirgli solo dal Caravaggio.

Del resto vi sono due citazioni precise nelle opere del Manetti, che dicono chiaro la loro radice caravaggesca: la visualizzazione della testa del Beato Patrizi nel quadro di Monticiano, sia o non sia del 1616, che viene dalla Morte della Madonna del Caravaggio, e la bocca spalancata del soldato che fugge nella Resurrezione di San Niccolò in Sasso, che non può non derivare da San Luigi de’ Francesi e dalla Medusa del Caravaggio.

Secondo me, il Manetti fu certamente a Roma, magari con il Vanni, e non sentì subito il bisogno di un cambiamento, memorizzando tuttavia quanto aveva veduto.

E come un caso di memorizzazione, quasi di tardiva resipiscenza, era stato il caravaggismo del Gentileschi (ma con quale rilancio!), così di una memorizzazione deve trattarsi anche per il Manetti, se era andato a Roma in tempo per vedere la Morte della Madonna prima che partisse per Mantova.

D’altronde nelle opere ancora salimbeniane, soprattutto della seconda decade del Seicento, è chiaro avvertire un giuoco di luci e d’amore che va al di là della pratica manieristica, seppure squisita, del Salimbeni: probabilmente, si ha, in quel più accentuato contrasto luminoso, la prima inquinazione dell’aura baroccesca in pro del nuovo corso della pittura.

Comunque, una volta entrato in quel nuovo corso, ll Manetti assurge ad una consapevolezza formale che non ne fa un’eco ridotta del Caravaggio, anche se non potrà gareggiare con la grandezza celeste del Gentileschi.

Possa questa mostra, a cui hanno collaborato anche studiosi esteri di grande prestigio, rappresentare non solo un atto di giustizia della storia, ma l’avvio di una salutare ripresa della critica sull’arte senese anche posteriore ai secoli d’oro e, per la città, l’inizio di una nobile riscossa culturale.

 


 

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