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Moretti

2004

 

Alberto Moretti

 

di Lara-Vinca Masini

 

Testo originale della conferenza tenuta da Lara Vinca Masini nel 2004 

 

dal Fondo “Lara Vinca Masini” Archivio Paolo Pianigiani

 

Non ho mai proposto una lezione ne’ una conferenza su un solo artista (se non relativamente a personaggi storici, e pochi, anche in questo caso – Picasso e Duchamp). Quindi faccio un’ eccezione per Alberto Moretti perché ci conosciamo, ci vogliamo bene e siamo amici da una vita e perché ho costantemente seguito il suo lavoro, che ho sempre stimato.

Ma cercherò di farlo in termini storico-critici, analizzandolo, il suo lavoro, sia attraverso le opere, sia attraverso i documenti (citando ovviamente brani dai testi più interessanti di critici, letterati, artisti), che fanno parte del suo archivio personale, per mettere in luce, attraverso questi, la forza di stimolo, di emozione, di riflessione, che il suo lavoro ha sempre suscitato in chi lo ha seguito; perché penso che proprio le diverse interpretazioni diano la misura dell’ energia e della profondità del lavoro di un artista, sempre leggibile a diversi livelli.

Quando mi sarà possibile mi servirò anche di testi dello stesso Moretti, dalle sue interviste, dai brevi passi che fanno parte di alcuni lavori, di sue meditazioni, che chiariscono le intenzionalità del suo “fare arte”. Anche se sono consapevole che l’ opera di un artista travalica spesso, per una sua ineludibile specificità e una sua assoluta autonomia, ogni suo testo, ogni sua intenzionalità, e, direi, ogni suo progetto, per andare oltre, in una sua propria, inesplorabile realtà, non sempre percepibile anche da lui stesso..

Ai suoi inizi, non ancora ventenne, dopo una breve esperienza figurativa, egli si interessava all’ astrattismo, interpretato in termini particolari, ispirati alla geometria della natura, sia organica che inorganica, alla struttura degli organismi astrali.(3 immagini) Già si configurano la sua specificità più profonda, il suo legame più autentico con tutta la natura, intesa nel suo significato più alto, che la coinvolge in tutta la dilatazione cosmica dello spazio.

Egli dichiarerà in una sua intervista dell’ ’85, di Maria Luisa Frisa: “Quello che mi appassionò fu l’ arte astratta geometrica e i suoi modi complessi di spazi sorretti da rapporti matematici e forme naturali. Ho avuto fin dall’ inizio la curiosità della sperimentazione, il gusto di andare ‘oltre’ senza soffermarmi molto, nemmeno sui miei risultati. Mi piaceva penetrare nei segreti delle forme e del colore per scoprirne le imprevedibili risonanze. Dai piani e dalla materia trasparente e prospettica dei Cristallini nascevano le prime forme a punta, come ancora dalla perfezione delle superfici, la corrosione del segno della distruzione, dove il linguaggio geometrico stravolto era aperto ad una psicologia della forma che preannunciava altri interessi”.

Secondo questa linea dello “stravolgimento” del linguaggio geometrico si svolgerà, di seguito, il suo prudente avvicinamento alle linee di quello che si definirà l’ “astrattismo classico fiorentino”, che, come dichiarerà Francesco Arcangeli (in “Alberto Moretti”, Galleria Quadrante, Firenze ’63) “non fecero ‘classicità”.

I quadri di Moretti del periodo si rifanno alla geometria, interpretandola, però, con grande libertà. Si veda, ad esempio, Composizione, del ’48 ( (vedi)), un prezioso, raffinato lavoro, che sembra, nella giocosa dinamica scalare dei rettangoli rossi, volersi riportare alla straordinaria, aerea leggerezza di opere come, ad esempio, Castelli in aria di Licini del ‘32. Oppure si pensi a Struttura rosa del ’51(vedi), dove il colore chiaro, tonale, è racchiuso, come in cloisonné, da linee nere, ad andamento irregolare, in una straordinaria sintesi. (altre 2 del periodo).

Scriveva nel ’52 Ermanno Migliorini, iniziando un suo testo per la mostra di Moretti alla galleria “Age d’ or” di Roma nel ’52: “In Alberto Moretti la storia delle forme che si precisano con lentezza e quasi affiorano con fatica sulla superficie del quadro nonostante l’ ingannevole nettezza delle stesure, e si torcono e si complicano con l’ imprevedibilità di concentrazioni proprie dello ‘stream of consciousness’ non si esaurisce in una avventura meramente esteriore…”.

Si evidenziavano qui chiaramente le differenze tra il lavoro degli astrattisti classici e il suo. “Le mie prime esperienze informali nacquero per caso nel 1950” dichiara Moretti, “mentre stavo lavorando ad alcune litografie, mescolando colore ad olio con acqua. E anche se le forme che affioravano erano affascinanti, questo mezzo così insolito mi trattenne per più di un anno dall’esporle a Firenze e a Roma”. E sarà invece, questa esperienza tecnica, alla quale si atterrà per molti suoi lavori. E alla domanda: “E dopo ?” Moretti risponderà, senza falsa modestia, ma con piena cognizione di causa: “Dopo penso di aver dipinto alcuni tra i più bei quadri che l’ Informale abbia creato”.

Ciò che proprio nessuno può mettere in dubbio. (4 lavori)

Sono, le opere di questo periodo, di una carica emozionale assolutamente incontenibile, come un’ esplosione di sentimenti primari, che coinvolgono il suo essere in tutta la sua umanità, espressi attraverso una gestualità materica, con esplosioni di colori accesi, densi, corruschi.

E’ del ’60 un testo di Piero Santi, noto scrittore e letterato fiorentino, scritto in occasione di una mostra di Moretti a “Numero” di Roma. Ne cito un brano: “Si guardi bene, l’ osservatore di queste opere recenti di Moretti, da una lettura veloce: altrimenti potrebbe cogliere solo il dato di accensione coloristica o il fulgore di una materia estremamente ricca, e non gli sarebbe possibile procedere oltre, verso la sostanza di questa pittura.

Che consiste, a mio parere, nella ricerca, a volte repentina e direi ossessiva, a volte invece calma se non proprio serena, di un “oggetto”; però, si badi bene, non di un oggetto esistente prima della pittura ma insito, segreto e avvolto nella pittura medesima: un oggetto drammatico nel quale possa liberarsi

l’ ansia del pittore. Queste opere di Moretti sono tutte colme di una speranza: cercano, tentano, e intanto aggrediscono le prime percezioni, i primi avvertimenti di una sostanza intravista e sentita col fuoco del sensi”. E presenta l’ artista “ansioso… rivolto all’ ascolto di avvenimenti misteriosi che fermentano dentro di lui; e le sue opere stesse  gli rivelano qualcosa di quella verità che gli urge.

Un pittore che si abbandona così completamente  all’ ardore della propria ansia  e della propria ricerca può anche, talvolta, forzare la propria ispirazione, ma non cadrà mai nel gratuito o nel falso. Questa è la sua vera ricchezza”.  E’ la sensibilità di un poeta  che sa ascoltare e cogliere, dell’ artista “l’ inquietudine nella materia abbondante, corposa, a momenti (controllare) non di rado condotta agli esiti del bassorilievo”.

Ed è del ’63, quando il lavoro di Moretti si coagulava davvero in “oggetto” del pensiero, portando la sua gestualità ad una svolta profondamente meditata, che si apre il suo breve momento “newdada”, nel quale, peraltro, la forza esplosiva del suo informale si travasa in immagini figurali sfrangiate, drammatiche, inquietanti. C’ è un testo, a mio avviso fondamentale, di Francesco Arcangeli, uno degli studiosi e storici dell’ arte tra i più sensibili e profondi della nostra cultura storico-artistica, uscito nel catalogo della mostra di Moretti a “Quadrante” di Firenze.

Egli vi riscontra “le date e i caratteri” dei dipinti di Moretti “che si costruivano in  opposizione franca ai caratteri della stessa ‘avanguardia fiorentina’ ”, e nota nella sua posizione  “se conosciuta”, l’ unico e precoce capitolo di un informel toscano”. “Fu vivo in lui, con squisitezza effettiva, un sentimento esistenziale veramente sottile, e magari stremato, come fu, nel tempo, in alcuni passaggi della cultura fiorentina: dalle suggestioni di Solaria ai migliori timbri dell’ ermetismo.‘Cobra’, e anche più perdute analisi (sul tipo di quella di Wols, allora ignorata a Firenze), sembrano presiedere, in una mescolanza di delicatezza e d’espressionismo, ai movimenti della sua sensibilità.

Egli pare ascoltare in se stesso l’ espandersi d’ una inquieta, sottile ondata, e affidare sentimenti rari a gamme filtrate e cangianti come quelle di certi ‘manieristi’ ”. E si ricordi che Carmignano ospita una delle opere più dirompenti del Manierismo, La Visitazione del Pontormo di cui Moretti, come dichiara nella già citata intervista vedeva fin da bambino “il colore squillante, intenso e sontuoso”:

Nel momento della sperimentazione new dada (3 pezzi new dada) direi che egli non fa che trasportare nello spazio, in tridimensione, rendendolo solido e tattile, il suo segno-gesto, che si raggruma in nodi  metallici, in macchie di colore solido (barattoli, oggetti vari), mantenendo, dell’ Informale, la violenza emotiva, la drammaticità, l’ istintualità immediata.

E il breve testo di Mario Amaya su Moretti, nel suo volume “Pop as Art” del ’65, pone l’ accento sulla spregiudicatezza di questo suo breve momento che il critico inglese definisce “New Super Realism” e che, dichiara, non si è limitato a New York e a Londra. Cita infatti il Nouveau Réalisme francese, i monocromi di Klein, i manifesti strappati di Hains e Villeglé, le accumulazioni e le dissezioni di oggetti di Arman, le bellezze al bagno di Raysse…

E aggiunge: “Moretti, a Firenze, ha usato la pornografia senza falsi pudori, e una donna nuda, sulla quale è impresso il termine ‘Végé’ (l’ insegna di un supermercato) lascia poco all’ immaginazione, così come i suoi manifesti e le sue camere da letto”. (qui immagini, 2).

E’ un breve percorso quello dell’ esperienza pop di Moretti, cui fa seguito, presto, un’ altra breve ricerca nella direzione opposta, come se, a quel punto, la sua “insaziabile curiosità”, come quella dell’indimenticabile elefantino di Kipling, lo spingesse a misurarsi, in continuazione, con le situazioni più diverse, quasi a mettere in crisi la sua inderogabile esigenza costituzionale (quella gestuale, segnica, emotiva, passionale), per misurarsi con la propria rabbiosa volontà di combattere, col suo lavoro, in ogni modo, contro la condizione, anche socio-politica, di un mondo che non mira certo a salvare la creatività, la fantasia, la libertà dell’ uomo (dell’ artista, per dirla con Beuys), ma a comprimerla in uno spazio fittizio, improprio. (qui 2 Strutture primarie).

Così queste soi disant “Strutture primarie” di Moretti (siamo verso la fine degli anni Sessanta) giocano sul concetto di struttura, di progettualità, di una nuova razionalità. Era il momento in cui, in architettura, si manifestava quel movimento che recuperava, ambiguamente, il nome di “architettura razionale” ed era invece

l’ inizio di un periodo involutivo (e non parlo, ovviamente, dei singoli esponenti, tra i quali ci sono stati personaggi notevolissimi come Aldo Rossi, per dire), il periodo cioè del “Postmoderno” in architettura, in nome di un recupero di memorie storiche e di moduli scolastici, di lacerti obsoleti di una tradizione non filtrati né sublimati dal tempo.

D’ altra parte questa svolta coincideva con la crisi del Movimento Moderno travasatosi nell’ International Style. In realtà questa operazione condotta allora da Moretti si manifestava come una sorta di critica nei confronti di una nuova, falsamente salvifica proposta nei confronti della crisi della nostra società. Egli toglieva infatti ogni possibilità di consistenza reale alle sue strutture-progetto, rendendole immateriali e sovrapponibili, vanificandone così la consistenza reale.

C’ è, a questo punto, un testo intelligente di Achille Bonito Oliva per una ennesima mostra di Moretti a “Numero” di Roma del ’69, che  chiarisce la condizione di questa ricerca, anche in rapporto alla mercificazione del lavoro artistico, qui negata, in verità un  po’ troppo arbitrariamente, in quanto l’ opera si presenta a livello di progetto…

Scrive Bonito Oliva: “Il rigore linguistico qui è il sintomo di una mentalità che non cerca l’ esorcizzazione del mondo attraverso la metafora o attraverso una mimesi ritualisticamente figurativa del contesto storico. Anzi esso è la traccia di una ideologia che trova il proprio fondamento dentro il fare estetico, quale base di riformulazione del funzionamento del reale”.

E mette poi in luce la voluta inconsistenza volumetrica delle strutture “minimal” di Moretti, che definisce “frontali”. “La frontalità esibita delle strutture di Moretti è la conseguenza della bidimensionalità della superficie dell’ opera, la quale ha fatto cadere ogni illusorio sprofondamento della prospettiva che risulterebbe ancora un elemento consolatorio e compensatorio dell’ attuale decentramento della realtà. Moretti invece persegue la tattica della frontalità e dell’ abbattimento della falsa frontalità, per realizzare un momento  non di integrazione con il reale ma di competizione  e di sostituzione ad esso, nel senso di indicazione…..

Il progetto…è la dichiarata ostentazione della possibilità del disegno di poter modificare il campo della realtà; infatti la trasparenza del materiale a volte permette la sovrapposizione del pannello sui segni preesistenti del reale, con la conseguenza di uno sforamento visivo attraverso la superficie estetica su una zona del mondo modificata dalle linee rigorosamente astratte dell’ opera…”.

E ancora: “Qui l’ ipotesi diventa come tale valore, in quanto sfugge al destino mercificante della città e nello stesso tempo si pone come valore di indicazione frontale  di un diverso destino, dove la motivazione da economica si fa estetica e da semantica si fa sintattica. Il capovolgimento effettuato vuole proporre la possibilità di scongelare, attraverso un progetto aperto, la struttura chiusa e schematicamente connotata dello spazio reale”.

Nel ’70 Moretti presenta una sua mostra alla Galleria “Flori” di Firenze. In quella occasione Cesare Vivaldi scrive un testo che, a mio avviso, chiarisce la posizione dell’ artista nei confronti della sua continua sperimentazione, del suo continuo mettersi in gara, talvolta quasi prevenendoli, coi veloci mutamenti nel corso delle esperienze artistiche internazionali, che hanno sempre accompagnato il suo fare, senza in alcun modo intaccare la sua specificità individuale.

Scrive, infatti, Vivaldi: “Il lungo, vario, folto itinerario pittorico di Alberto Moretti deve essere visto, in prospettiva, come un blocco unitario; poiché le sue apparenti metamorfosi non sono in realtà che tappe di una sola ricerca, una sperimentazione assidua  intesa a controllare  e a riconoscere se stesso saggiandosi sulla pietra di paragone di soluzioni formali che possono apparire di volta in volta diverse ma che mai mutano; poiché non sono tanto  esse che importano quanto il conflitto cui danno luogo.

Lotta con l’ angelo che continuamente, in modi differenti, si rinnova ma resta, nella sostanza, inalterata. Motivo centrale di un viaggio ulissiaco: disperato eppure obbligato viaggio nell’ Ade, in cui restano indifferenziate materia e forma, alla ricerca del proprio passato e del proprio avvenire, delle proprie ragioni di esistere in quanto uomo e in quanto artista”.

E ancora: “Geometrismo, informale, neodadaismo, pop e arte minimal sono infatti i vari modi di configurarsi di un’ arte unica, irrepetibile e sempre uguale a se stessa; eguale a se stessa proprio nel suo oscillare tra momenti di progettazione, aperti verso l’ avvenire, e momenti di autocontemplazione, di meditazione sul passato”.

E: “La prospettiva che Moretti ha scelto è quella dell’ ambiguità, e il futuro che egli ci indica non sono ‘le magnifiche sorti e progressive’ ma una disperata lotta contro il nulla, condotta mediante un cosciente annullamento delle barricate (o delle strutture) che l’ artista  via via erige”.

E siamo a questo punto, a mio avviso, ad uno dei momenti più profondi, più struggenti nel lavoro di Moretti, che sembrano catalizzare in sé e portare alla luce la forza del pensiero che sottintende tutto il suo lavoro: una sorta di catarsi in cui si travasa tutta la spinta creativa, passionale, mentale che esso sottintende, da sempre.

E’ il momento in cui (siamo ai primi anni Settanta) egli entra nel campo del Concettualismo, o per meglio dire, affronta un’ operazione che si presenta con caratteristiche concettuali, e che, vedremo, si manifesta sotto due aspetti, ponendosi, secondo le leggi del Concettualismo più rigoroso, come dimostrazione logica di un enunciato mentale, di base, ma che in realtà non segue né le linee di un elaborato filosofico-linguistico (come per Art and Language o per Kosuth), né quello di indagine sul “fare arte” ma si svolge, ancora una volta, secondo un procedimento gestuale, quasi prendendo il via da un gesto comportamentale (si veda la serie di fotografie (qui 3 immagini in sequenza del sole nella bacinella) relative al rito selvaggio dell’ appropriazione del sole, ottenuta afferrandone la spera in uno specchio d’ acqua che l’ artista ha ottenuto in una sorta di performance privata, a porte chiude, e di cui gli raccoglie solo il risultato fotografico.

E c’è, nell’ uso dei testi di Marcel Griaule (da “Il dio d’ acqua”) sui riti solari e cosmologici di alcuni popoli selvaggi, un accento antropo-biologico che rientra, da sempre, nell’ operatività di Moretti.

Esce, in questo ambito, il primo dei preziosi libretti di Moretti, “L’ appropriazione” (ed. L’ Uomo e l’ Arte, Milano, ’74), nel quale egli raccoglie alcuni testi di riferimento, dai “Manoscritti economico-filosofici” di Marz del 1844, da “Materialismo storico” di Lenin, da “Idee sulla fenomenologia e sulla filosofia fenomenologia” di Husserl, da “il dio d’ acqua”, di Griaule, da suoi testi personali. Ne cito uno: “Il Sole, cerchio, madre, spirale di rame, cancro, vacca, pène, quattro, vitiligo, leone, svastica, lampada al quarzo, sud, abbronzatura, oransoda, tan o tan”.

All’ “Appropriazione dell’ oggetto privato” (finestre chiuse, cancelli, muri – 1 immagine) fanno seguito “L’ appropriazione dell’ oggetto sociale” (un parco con giochi per bambini, una strada, il fiume, (1 immagine) e “L’ appropriazione dell’ oggetto in arte” (un vaso da fiori , trasposto dalla riproduzione fotografica alla sua resa grafica(qui, se possibile le due in una sola); operazione che Moretti applicherà, anche, ad una analisi semantica sui propri lavori del passato, che presenterà a “Schema”, la galleria fiorentina alla quale Moretti dava vita, con Roberto Cesaroni e Raoul Dominguez, dal ’72 al…

Questo prezioso libretto è corredato da un testo, altrettanto prezioso, di Ermanno Migliorini, uno dei più acuti, sensibili, intuitivi tra i tanti dedicati al lavoro di Moretti.

Egli osserva come il Concettualismo rigoroso sia intervenuto sull’oggetto  artistico e sulla nozione di arte in senso distruttivo (soprattutto nei confronti dell’ oggettività della Minimal Art), privilegiando il momento “poetico”, l’ atto del fare, la progettualità.

La riduzione era portata fin sul terreno dell’ artisticità (Art and Language), per cui “arte” è la definizione stessa di arte. Era dunque un discorso affascinante  ma destinato a concludersi presto. L’ opera di Moretti “può essere un buon campione”scrive Migliorini “per il proseguimento del discorso”. Ad una analisi senza pregiudizi, si nota come ci si trovi di fronte “ad una operazione che assomiglia ad una delle tante operazioni concettualistiche. Vediamo appesi alle pareti pannelli con fotografie, con testi in parte battuti a macchina, in parte riprodotti da libri, secondo i canoni cioè della grammatica concettualistica.

Ma l’ operazione tentata da Moretti è più complessa. Si lascia leggere, è vero, in chiave concettualistica (e forse non senza qualche difficoltà); ma non soltanto in essa. Il lavoro, come è stato d’ altronde  notato, è decifrabile su molti livelli: vuol dire – nella sua programmatica ambiguità – molto di più di ciò che si può pensare a prima vista: E’ un testo che si presenta con una grande ricchezza  di determinazioni, che stimola a letture anche molto differenti.

E già questo ci deve mettere sull’ avviso: il tradizionale  rigore concettualista qui dà il suo contributo  più che altro alla nitidezza formale dell’ operazione, contribuisce alla pulizia dell’ operazione….

Quello che ci può interessare di più, almeno in questo momento, è l’ indicazione  teorica che può pervenirci…Il discorso che Moretti fa nei confronti della nozione stessa di arte, o meglio l’ azione che egli conduce verso la nozione tradizionale di arte e di valore artistico….

Moretti, insomma, si pone  consapevolmente  sul  limitare stesso del campo del valore artistico, ne è dentro e ne è fuori nello stesso tempo”. E a proposito dell’ appropriazione del sole aggiunge:

“si tratta…della presentazione di un valore vitale, di un valore cioè che  non appartiene alla sfera della cultura, dei valori colti (come tutti gli altri che qui sono presentati), ma al piano della natura o a qualcosa che allude alla natura…”.

Esce dunque, questo lavoro, secondo Migliorini, dal sistema delle arti, in quell’ “indistinto” “che si rileva nella vita banale e quotidiana, in cui ‘le immagini esistono, e solo occasioni particolari le assoggettano a quelle categorie per cui si distinguono interiormente’ ”.

La seconda formulazione del lavoro d Moretti nell’ ambito dell’ idea di arte si trova nel secondo dei suoi libretti, “Techne e lavoro come arte” (ed. Schema Informazione Press, Firenze, ’75-’76) con un suo testo: “Techne non come abilità degli strumenti e di materiali ma come sapere, cioè come il realizzarsi dell’ essere nell’ opera.

Techne come arte perché pone in opera, perché porta all’ evidenza l’ essere come essente… Il lavoro è arte quando appartiene all’ uomo, quando in esso egli può appagarsi  e svolgere liberamente le sue energie fisiche  e spirituali; … Il lavoro è arte se l’ intera natura è fatta corpo dell’ uomo, se la produzione si rapporta a sé come ente e si rapporta al genere come al suo proprio essere, se l’ uomo può produrre  universalmente secondo la dimensione di ogni specie  e conferire all’ oggetto la misura inerente”. (4 intrecci, paglie…)

E va ricordato che, frattanto, mentre sperimentava, a suo modo, in due film in super8, il rapporto arti visive–cinema (tema, a quel momento, fortemente perseguito da molti artisti) Moretti si era rivolto, in pittura, ad un nuovo, più dilatato approccio all’ Informale.

Nella serie di lavori presentati su “Techne e lavoro come arte” che riporta brani, ancora, da “Il dio d’ acqua” di Marcel Griaule, da Heidegger, da Marx, compaiono pezzi eccezionali, che dimostrano il suo rapporto, da artista, col lavoro manuale legato alla formatività naturale, alla vita contadina, alla manualità che si trasforma, appunto, in perfetta formatività (intreccio, tessitura, gli strumenti che da sempre fanno parte, in ogni paese, della “cultura materiale” – gli intrecci presenti erano realizzati dalla madre dell’ artista – qui 3 pezzi) lavori “manuali”, che si trasformano in opere tra le più ricche e tra le più belle della sua produzione e che riaffermano il suo legame di sempre, espresso in tutto il suo lavoro, con la natura in tutte le sue manifestazioni.

Forse sta proprio in questo quel “blocco unitario, (comprendente) tappe di una sperimentazione assidua intesa a controllare e a riconoscere se stesso,  saggiandosi sulla pietra di paragone di soluzioni formali che possono apparire ogni volta diverse ma che mai mutano”, come aveva scritto Vivaldi nel ’70.

E sarà quella natura lussureggiante, ricca di segreti, profonda, brulicate di vita, che la sua macchina da presa fissa coglie in “Materia”(dal ’74),(3 immagini) in cui la natura si esprime nella sua carica vitale, misteriosa, che sprigiona, coi suoi suoni e rumori naturali, continui, una carica profondamente emotiva, evocando e portando in luce, come scrive Moretti, “i valori di vita e di morte”.

L’ altro suo film, “Il magico è la scienza della jungla”, del ’73, conclude il suo discorso su “l’ appropriazione” come valore-simbolo: è ancora l’ appropriazione del sole, cioè della sua immagine riflessa, al suo acme, nell’ acqua di un fiume, “immagine speculare e cosa stessa”, dove un giovane  osserva il sole dal suo nascere al suo punto più alto nel cielo, quando si riflette nelle acque, (3 immagini) fino ad appropriarsene, immergendosi nella sua immagine sfolgorante.

Moretti raccoglierà una sorta di summa di tutto il suo lavoro in un altro suo bel libretto, “L’ eone” (Artra Studio e Schema Informazione Press, 1981), (“L’ eone è un fanciullo che si diverte, che gioca alle piastrelle”, di Eraclito), con brani critici di vari momenti e una raccolta di sue opere tra le più interessanti.

Dicevamo che già Moretti  era tornato ad una rinnovata esplorazione dell’ Informale. Dichiara, a questo proposito, durante la già citata intervista: “La mia ripresa dell’ Informale è partita dalle ultime esperienze del ’60 e non è stata solo una citazione, ma la ricerca nell’ ambito di una forma allusiva a un’ immagine reale: ed ecco le figure emblema, i ritratti (qui 1 di questi): Così l’ interesse per le immagini in movimento, per la luce trasfigurata dal cinematografo, per la registrazione di forme sconosciute, inattese, ineffabili. Sono nate così opere come Dissolvenza (vedi, con altre 3) ecc…

Gli ultimi lavori sono stimolati da una ricerca sulla luce, sul colore e sulla figurazione, una luce a fasci, ne’ irreale ne’ naturalistica ma fabbricata, un colore squillante, intenso e sontuoso, che, in fondo, è quello che vedevo fin da bambino nella Visitazione del Pontormo nella chiesa del mio paese….”. E oltre: “L’ ambiguità dell’ opera risulta così da piani gestuali tradotti in piani profondi in contrasto con una luce densa e concreta e dalla figurazione che, giocando il ruolo del contenuto determina la trasformazione dello spazio traducendo in realtà l’ ingannevolezza dei piani”.

A mio avviso questa sua nuova manifestazione pittorica è anche il portato di una profonda maturazione, di una riflessione sul proprio lavoro che deriva da un’ esperienza acquisita anche attraverso la lunga, variata sperimentazione. Non c’ è più, in questa pittura, la violenza drammatica, l’ enfasi e la gestualità che si facevano materia densa, debordante dal quadro.

La superficie di questi muovi lavori è come liquida, scorrevole, come l’ acque di un mare calmo che si adagia sulla riva con lievi, morbide arricciature, ha la lucida trasparenza della pellicola cinematografica; il colore cresce a poco a poco di intensità, acquista connotazioni che vanno al di là del nostro momento culturale e artistico, ponendosi in un contesto che recupera in sé la storia della pittura, passando oltre il Manierismo del Pontormo, per caricarsi di intensità  barocche, in particolare nei grandi quadri come quelli che Moretti esponeva nella sua personale alla Galleria d’ Arte Moderna di Firenze, a palazzo Pitti, nel 199… (2 quadri grandi), nei quali neri profondi accostano rossi intensi, cupi e la morbidezza della pennellata sembra voler creare sontuose pieghe e avvolgimenti quali arricchiscono le vesti dei santi nelle grandi pale d’ altare barocche.

Recentemente Moretti, dal suo alto rifugio sopra a Carmignano, intento ad osservare i mutamenti veloci e ricchi del cielo, nelle diverse ore del giorno, nelle diverse condizioni atmosferiche, percorsi anche, talvolta, da cupe striature di scarichi industriali, o da lampi abbaglianti, ha colto, in queste immagini del cielo, un rapporto evidente col suo Informale, non certo un rapporto di carattere naturalistico, ma tale che ci riporta alla sua idea di luce, di spazio, di movimento….

Ed ha realizzato una serie di fotografie di cieli e di terre scoscese, di falde erbose (2, 3 foto). E queste sue foto non sono, o non sono soltanto, belle fotografie da fotografo. Sono fotografie che riflettono il punto di vita, “l’ occhio” attento, rivolto continuamente ad una sua specifica formatività, di un artista  nella sua più piena, ricca, sicura maturità espressiva, con la quale riesce a trasfigurare in forma, appunto, la sua congenita simbiosi psicologica, emotiva con la natura.

 

Lara-Vinca Masini

 


 

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