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Il Presidente Gronchi e Mario Bini

Mario Bini: Empoli verso la fine del secolo XVII

di Mario Bini

da: Cenni Storici e Guida turistica della città di Empoli (1975)

(pagg. 104 – 107)

 

 

Foto Nilo Capretti

 

Nella villa ” Il Terraio “, che fu già dei Cerchi ed è ora proprietà Bini, si conserva in un quadro di notevoli dimensioni un curioso disegno a colori. Si tratta di una copia, fatta nel 1897 da un certo Gherardini riproducente Empoli com’era sul finire del XVII secolo o agli inizi del secolo seguente.

Per apparire sufficientemente fedele e precisa la ricostruzione, non c’è dubbio che l’originale da cui fu tratta questa tarda copia è da dare alla mano d’un ignoto di epoca che deve aver rilevato dal vero questo scorcio panoramico.

Il fatto che questa mano si riveli non troppo felice (anzi goffa e maldestra più per una marcata ingenuità nel disegno che per certe distorsioni prospettiche, solo in parte giustificata dall’assunto narrativo) ha scarsa importanza, il vero valore del quadro consistendo nella sua preminente funzione documentativa.

Il copiatore datò la ” veduta ” con larga approssimazione, collocando ” verso il ‘600 ” il facimento dell’originale. Ma se osserviamo anche sommariamente certi particolari, siamo in grado di restringere questa datazione entro meno generici termini.

Anzitutto il trovare in essa già eretto il campanile di S. Stefano (K) ci riporta subito a una data successiva al 1686, che è un perentorio termine a quo: in secondo luogo l’indicazione della ” torre de’ Sig.ri Del Papa ” (E) lascerebbe pensare che questa didascalia fosse stata apportata dal primo illustratore forse in epoca nella quale erano viventi almeno gli ultimi di quella famiglia, i due fratelli Mariano e Giuseppe (che fu l’archiatra mediceo); e siccome il primo morì nel 1734, non parrebbe abusivo assumere quest’anno come plausibile termine ad quem.

Così questa veduta d’Empoli, finora inedita e apparsa in pubblico una sola volta in occasione della Mostra Iconografica che si tenne in Empoli nel 1969, vuol essere ritenuta copia di un perduto originale, ritratto dal vero tra il 1686 e il 1734.

Considerato che estrema è la povertà di materiale iconografico locale afferente a quell’epoca, e che anzi, proprio per le vedute d’assieme d’Empoli, tra i due affreschi vasariani di Palazzo Vecchio a Firenze e il quadro, poi riprodotto a stampa, d’Antonio Terreni non si è fino ad oggi trovato la possibilità di una valida inclusione cronologica ad eccezione della presente, è facile avvertire l’importanza di questo documento figurativo.

Di più c’è questo da dire: che laddove in ambedue le immagini del Vasari ci si imbatte in alcuni svarioni d’anatopismo (giustificabili del resto in un genere di pittura che non poteva sfruttare se non un assieme di appunti grafici settoriali); che laddove non c’è nel Terreni, che pur ritrasse dal vero, alcuna altra sollecitazione se non quella derivante dalla ricerca di una decorazione paesaggistica, qui, nella veduta che riproduciamo, all’onesto ripudio d’ogni velleità artistica si sovrappone l’intento di ritrarre con scrupolo, con fedeltà, con chiarezza d’immagine.

Proprio in virtù di queste caratteristiche il quadro, eloquente testimonianza ottica, viene a confermare e ad essere a sua volta confermato dalla documentazione scritta; sicché fu già possibile, anche con l’ausilio di piante topografiche dell’epoca, sposare le testimonianze cronachistiche a questa veduta panoramica per trarne idonei elementi alla elaborazione di un grande plastico ligneo, in cui Empoli si riprodusse, per idonea scala, qual’essa doveva apparire sul finire del Seicento.

L’osservatore attento condividerà la nostra stessa amarezza nel rilevare come nel giro di meno di tre secoli il volto del vecchio centro appaia oggi tanto radicalmente mutato; e questo non a causa di pochi modesti rifacimenti e ammodernamenti, così poco compatibili del resto con la stessa struttura urbanistica; bensì per effetto di quella spesso colpevole smania distruttiva degli uomini, cui solo in parte eventi sicuramente precari (si vuoi dire quelli dell’ultimo conflitto armato) vennero qui ad assommarsi.

Non parrà perciò fuori luogo che qui si tenti, con un esame particolareggiato della figura nei suoi principali elementi, un raffronto fra la situazione dell’epoca e quella dei nostri giorni.

*

All’estremo del lato sinistro del quadro sta disegnato, assai schematicamente, il Borgo (S), quello nuovo e ancora di modeste proporzioni. dacché del vecchio il Ferruccio aveva fatto piazza pulita ai tempi della sua Commissarìa in Empoli; né la chiesetta di S. Antonio, già eretta fino dal 1610, è in alcun modo evidenziata, fosse stato magari con la classica crocetta distintiva.

Quanto alla Porta Pisana (A), quasi interamente distrutta dalle mine tedesche nel 1944 e oggi ridotta a due squallidi tronconi che si puntellano l’un l’altro per il tramite d’un’arcatura posticcia, curiosissimo e del tutto inedito è il particolare delle torrette circolari che appaiono sommontarne allora la copertura: un particolare che ci lascia non poco perplessi quanto ad una conveniente interpretazione.

Che la Porta, perdute quelle caratteristiche di fortificazione che le erano state conferite nel 1487, fosse a quel tempo già adibita a casa di abitazione era d’altronde già noto: e risonò forse in quelle stesse stanze la voce infantile del piccolo grande Cigoli.

La Torre degli Alessandri (B), della quale qui si scorge solo la parte alta, costituisce il primo fra gli elementi fortificati della seconda cerchia muraria collocati e descritti in questo quadro, tutti racchiusi entro la terza ed ultima cinta, che è poi quella che figura in primo piano.

Più in antico conosciuta come Porta al Noce e costruita nel 1336, sia il Vasari che il Terreni la ritrassero con assai miglior cura. Fu demolita nel primo Ottocento, e della nobil famiglia Alessandri, che ne fu per lungo tempo proprietaria, non resta oggi nel luogo altra traccia se non quella d’un consunto stemma lapideo — colla pertinente figurazione dell’agnello bicipite — collocato sull’arco d’una botteguccia contermine.

Anche quella che si trova, nella figura, designata quale Torre de’ Mangani (C) fu Porta del secondo cerchio ed era di costruzione sincrona alla precedente; meglio nota come Porta dello Spedale (ma anche Porta S. Andrea per l’essere il Santo patrono ritratto in una scultura lignea posta in una nicchia che ne sormontava esternamente l’arco d’apertura), visse fino al 1824, quando per ragioni di viabilità fu deciso, maldestramente, di abbatterla.

Si osservi al di sotto di questa Torre, detta anche di S. Brigida, l’omonimo torrione della terza cerchia, divenuto proprietà di particolari e da questi allora coperta (com’è ancor oggi d’altri torrioni superstiti) da un tetto posticcio; questo torrione, fortunatamente risparmiato alla generale furia distruggitrice, fa oggi bella mostra di sé, liberato dal tetto, con un largo tratto di mura, a seguito di una recente provvida opera di evidenziazione urbanistica.

Più avanti ancora troviamo il Baluardo (D), qui inspiegabilmente appiattito per la distorsione prospettica dell’ignoto secentista, laddove in effetti si trattava di uno sperone ben appuntito sull’angolo formato dall’incontro delle mura meridionali con quelle occidentali del vecchio quadrato castello.

Il Baluardo, assieme a un buon tratto di mura, cedé a pacifiche mine demolitrici attorno al 1930. Si può ben dire che la taccagneria dei civici amministratori del tempo, nell’intento di acquisire a buon mercato un’area pubblica che fu poi adibita alla costruzione di un brutto edificio scolastico, seppe fare del Baluardo quel che la potenza delle artiglierie del Vitelli non eran riuscite a fare nel 1530.

Della Torre dei Signori Del Papa (E) si scorge in prospettiva la sommità; poiché i Del Papa avevano allora l’abitazione in Piazza, in quel palazzo che va sotto il nome di ” ghibellino ” e che sorge sulle primitive strutture dell’antica magione interna dei Conti Guidi, si vuol pensare che questa torre, scapezzata, ripetesse in pianta il modulo costruttivo d’una altra che fortificava il castello padronale degli antichi feudatari d’Empoli. In oggi la torre, per quanto ne resta, è stata trasformata in un pozzoscale.

Il Campanile delle Monache di S. Benedetto (F), o della S. Croce, meglio note un tempo tra il popolo come ” monache vecchie “, è giustamente collocato nel luogo dove, con l’annessa chiesa, si trovava il convento delle Benedettine (eretto nel 1531) quando esse abitavano in via de’ Neri, prima del loro trasferimento in via Cavour, avvenuto nel 1887.

Con questo trasferimento, chiesa, campanile, convento e pertinenze scomparvero per dar luogo a ” moderne ” e bruttissime costruzioni per uso pubblico, a proposito delle quali già si parla e giustamente di provvedere ad altra sostanziale ristrutturazione.

Assai ben descritta e validissima da un punto di vista documentario è la Torre delle Monache (G) medesime, opera di costruzione trecentesca che si inseriva nel tracciato della seconda cerchia muraria; ma questa torre, fin da quando passò ne’ beni del convento, pare non risultasse troppo gradita alle varie Badesse, forse perché dalla sommità della torre si poteva avere un contatto, sia pure soltanto ottico, col mondo esterno: cosa poco o punto compatibile con le regole di una comunità di ” murate vive ” com’erano le benedettine.

Allo scopo, dunque, di impedire ogni e qualunque accesso al terrazzo della vecchia torre, se ne riempì dapprima tutto il volume con terra; poi, molto tempo dopo (1814), ne venne decisa la definitiva demolizione.

Ad abbattere il Campanile della Collegiata (H) furono le milizie hitleriane nella loro ritirata del 1944, e analoga sorte toccò in quella circostanza al Campanile della Chiesa di S. Stefano (K), vulgo S. Agostino; mentre il primo è stato provvidamente ricostruito così com’era o quasi, per quanto riguarda il secondo — che qui appare nella sua originale interezza, ossia munito dell’elegantissima cuspide, rovinata da un fulmine nel 1846 — non si è potuto o voluto trovare il modo di riedificarlo.

I lavori ora in corso per la sistemazione di un giardino pubblico esternamente alle ultime mura e a ridosso del vecchio convento degli agostiniani, tendono a mettere in evidenza anche i resti della Torre dei Frati (L), eretta con la seconda cerchia; si dice i ” resti ” perché oggi poco riman salvo dell’originale merlata struttura, sciupata per trascuratezza da quei frati e, in epoca a noi assai vicina, riassettata con mediocrissimo gusto.

I calasanziani vi insediarono, finché le Scuole Pie restarono in via de’ Neri, una loro modesta Specola, la quale, secondo il lodevole costume di quei padri, assolveva anche le funzioni di piccola stazione meteorologica.

Poco suggerisce di interessante il disegno della Porta ai Cappuccini (N) o Porta Giudea (per esser contigua al ghetto della comunità ebraica empolese) o ancora Porta Senese.

Si trattava in effetti di una modesta ” postierla “, che scomparve nel 1827 per una facilitazione d’accesso alla già via degli Asini. Il Torrione dei Vanghetti (M) che le sta vicino, oggi sepolto fra le case contermini ma tuttora integro o quasi, si vede sormontato dalla costruzione di una colombaia.

I Vanghetti, illustre famiglia empolese della quale l’estroso Giuliano fu uno degli epigoni, possedevano infatti, lì a ridosso, le loro case e quella concia sulla quale si fondò la loro fortuna economica d’un tempo.

Del Santuario della Madonna di Fuori (O) l’anonimo ritrattista si vide costretto a disegnare soltanto la parte tergale, con l’abside ottagonale che Andrea Bonistalli, il Fracassa, aveva da non molto costruito con originale e armonica architettura, nel 1610.

Fortunatamente giunta quasi intatta fino ai nostri giorni è la Torre dei Righi (P), cosiddetta dal nome della famiglia che allora ne era in possesso. Costruita nella prima metà del Trecento sul vertice sud-orientale del Castello è comunemente nota sotto il nome di Torre dell’Ospedale, per la contiguità della vecchia sede del nosocomio di S. Giuseppe; l’ottogonalità del suo perimetro indusse l’Ammirato, e con lui altri pur validi storici, ad un’errata descrizione della forma del secondo cerchio di mura, di cui la torre costituiva elemento. Da più parti si invoca oggi la liberazione di questo monumento dalle circostanti costruzioni che ne impediscono la piena visibilità.

 

Giorgio Vasari e Lo Stradano: La Fortezza di Empoli, Sala di Cosimo I, Palazzo Vecchio Firenze

 

Alquanto sbiadita ed affrettata, se si vuole, è l’immagine della Fortezza medicea (R), costruita attorno alla metà del XVI secolo per volere del duca Cosimo I: onde il Vasari la ritrasse, ma con assai più artistico tratto, in un panorama d’Empoli assieme ad altri luoghi fortificati dal figliolo di Giovanni dalle Bande Nere, nella sala di Palazzo Vecchio a Firenze, sala che a quel primo principe mediceo si intitola (quest’affresco vasariano non deve essere confuso con l’altro, dell’autore medesimo, che ritrae Empoli al tempo dell’assedio degli Spagnoli, e che si trova nel solito palazzo, ma nella sala di Clemente VII).

Serviva, questa fortezza, invero assai modesta, per ricetto della Guarnigione: a difesa, dunque, dei nemici esterni, ma anche antemurale nella eventualità di interne sommosse. Il grande torrione fu abbattuto negli anni a cavallo fra il secolo attuale e quello che lo precede: a questa misura si ricorse nell’intento di dotare l’Ospedale di S. Giuseppe di nuove corsie, giacché sull’area stessa della vecchia fortezza, fin dal 1746, si era cominciato a costruire, utilizzando parte dei fondi dell’eredità Del Papa, il benemerito nosocomio cittadino.

In secondo piano rispetto alla Fortezza, il nostro pittore anonimo ebbe a disegnare una Ghiacciaia (Q), fra le varie che esistevano allora lungo il perimetro delle mura. Particolare sotto certi aspetti curioso: nel luogo medesimo, con l’avvento del mondo meccanico, fu poi installata una fabbrica di ghiaccio, che ebbe vita, si può dire, anche ai nostri giorni, fino all’avvento dei frigoriferi casalinghi.

È tuttora in piedi, ma assai malandato, quello che nelle didascalie è riportato come il Portino delle Monache (I), fagocitato da costruzioni contermini e forse per sempre irrecuperabile alla vista del passante.

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A questo punto si dovrebbe scendere, se la natura di quest’articoletto lo compatisse, a delle deduzioni, dopo il tuffo nel tempo, cui ci ha portati l’esame analitico di questo simpatico documento iconografico.

Ma sarebbe, oltretutto, come un far torto all’intelligenza di chi ha seguito con attenzione il nostro discorrere.

 


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