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Figure e notizie nell’ambiente

Artistico empolese

1923 – 1963

di Dilvo Lotti

 

dalla rivista “Empoli”,

1 settembre 1964, anno V, N. 1

 

(Nota: L’apparato delle illustrazioni del presente articolo è in corso di completamento)

Pdf  della fotocopia attualmente disponibile

 

Cafiero Tuti: « Figura », disegno

 

Ringrazio gli amici per avermi proposto e impegnato alla stesura delle pagine seguenti, dedicate a fatti e figure a noi care e familiari. Studio, il mio, forzatamente lacunoso ed incompleto; le fonti o cronache, quando è possibile rintracciarle non offrono abbondanza di notizie, e di alcune fondamentali mostre e manifestazioni empolesi rarissimi risultano i documenti ufficiali, i cataloghi, se mai li ebbero.

La frattura della guerra, le conseguenti distruzioni e dispersioni, ed il vuoto generale dei decenni trascorsi, affondano i capitoli della nostra storia – e le sue figure di spicco – in uno sfocato, collettivo rammemorare, ed i protagonisti ancora viventi e partecipi di quelle vicende, interrogati e frequentati per amicale consuetudine, hanno incertezze nella precisazione delle date e dei legamenti essenziali (1).

Eppure il tentativo di ritessere la verità del nostro tema e la testimonianza dei quattro decenni trascorsi e di interpretare le configurazioni attuali, per chi sappia leggere nei fatti della vita e della cultura, apre prospettive di ripensamento e di indagine su interessi e risultati non vili. L’accezione di « provincia » in un panorama dilatato e percorribile dal particolare alle idee informatrici, e viceversa, investe una porzione di spazio territoriale di radicati e universali interessi, discopre profilature attuali di civilissima tradizione.

Se i veicoli informatori risultarono essere per alcuni dei nostri la pittura di Spadini ed  i « valori plastici » di metafisica memoria, sino allo strapaese del « selvaggismo » maccariano vissuto sino alla crisi risolutiva del ’40, è pure da ricordare che l’ombra patriarcale e galantomista di Soffici batteva moneta e garantiva di presenza, ad intervalli, nelle manifestazioni artistiche locali, né la meteora Busoni è da considerarsi occasionale, perché il substrato della cultura empolese era permeato di una fine e popolare educazione alla musica, come pure sono da tenere presenti gli interessi letterari e filosofici che un prof. Fabiani teneva desti, ed ogni giorno dispensava dalla cattedra di letteratura Italiana, formando per decenni quelle generazioni di professionisti, oggi così attenti ai fatti dell’Arte, alle vivaci articolazioni culturali del loro ambiente, e se per convenzione discorsiva non è esatto fare dell’Empolese un’isola della pittura autoctona come la labronica, forse, nella nostra delimitazione territoriale tuttavia è possibile riconoscere i segni di un’inquietudine esistenziale, aristocratica e discettatrice, di filiazione fiorentina, con in più una alacrità ed una previsione dei tempi, afferrati in anticipo, quale forse in patria fiorentina non si respira.

I consanguinei del Pontormo e dell’« Empoli », ed i loro contemporanei cittadini, sanno articolare così variamente i loro traffici, industrie e pratiche faccende, in ogni congiuntura, che ben raramente i fattori economici delle stasi particolari a certi determinati prodotti riescono a mettere in crisi ed in lutto la zona. Farinata ed i fuorusciti fiorentini debbono aver scelto e fiutato sin dai loro tempi l’altra componente essenziale del carattere atavico dei nostri amici, un ribellismo a carattere popolare da abitatori di borgo fortificato ed autoprovvedenti della propria libertà e sufficienza.

Il paesaggio, le architetture, le memorie, le cose, informano il tessuto di una particolare civiltà ed il carattere degli individui che ne fanno parte, e primieramente gli artisti, nel loro essere e nelle loro aspirazioni, si rivelano impastati di passato e di avvenire.

« Avete mai pensato al bindolo? ». Quanto la costrizione monotona dei dì di festa, degli accidiosi, tetri pomeriggi domenicali, con gli uomini e donne che girano a destra – tenere la destra! – in senso inverso, per guardarsi furtivi, o apertamente, una volta al giro, quanto, dicevamo, il «  bindolo », ha pesato e pesa sugli spiriti?!

La costrizione, il complesso del « bindolo », ed anche la forza, quanto l’euritmia della regola diventa carattere nelle irripetibili eccezioni?

Il « quadrato » delle mura, il bianco e verde del perfetto numero della Collegiata, il Cigoli che all’interno della Chiesa nell’« Istituzione dell’Eucarestia » anticipava di almeno due decenni il Rubens, la misura umana, prodotta da elementi incolonnati nei secoli: e delle Grazie, lapide marmorea risorgimentale distorta, sono un nodo, o apertura, o rendiconto di civilissimo eloquio.

 

 

Empoli: la Collegiata

 

Lo spirito del « quadrato », delle memorie, del monumento romanico, della piazza, risultano anche oggi un sobrio ed aperto disegno.

Collegiata, Palazzo Ghibellino, case, fontana dei leoni. E nella pittura dei nostri più validi quel disegno lo si ritrova nella determinante individuazione della linea vitale, schietta, perseguibile nella tecnica antica e severa dell’affresco.

Questa grazia naturale del luogo, la reperite nell’arte indigena del vetro, il bel vetro pesante, verde, essenziale di Empoli, e nello stagionale e rinnovantesi buongusto delle affermatissime « confezioni ».

Poco distante da Empoli, in una bella casa di un « nobile di campagna », a Cerbaiola, i nostri amici artisti sino a non più tardi del ’40 potevano godersi una raccolta di « macchiaioli» di primissimo ordine, e privati raccoglitori e gelosi custodi di preziose testimonianze mai vennero meno dentro 1a cerchia delle mura.

Già nel secondo e nel terzo decennio del secolo i decoratori locali contavano delle personalità amorevolmente impegnate con la pittura: vedi Luigi Morelli, e tali probi esecutori di aggraziate facciate e stanze riflettevano con garbo le ultime iridescenze del Liberty approdato in terra toscana a soluzioni particolari.

Il secondo decennio del secolo sembrava in Empoli doversi caratterizzare per la scultura. Dino Lelli, giovane di grande aspettativa al quale si deve in larga parte il monumento a Garibaldi di La Spezia, scompariva purtroppo nella fornace dell’altra guerra, non si sa se morto sul campo o in prigionia.

Tale periodo fu, ovviamente e purtroppo, un decennio di speranze falciate. Lo scultore che troviamo in attività dopo il conflitto è Dario Manetti, autore con Rivalta del monumento alla Vittoria inaugurato nel 1925; per proprio conto il Manetti eseguiva il più modesto ricordo marmoreo di Limite dal quale veniva trafugata, all’epoca del secondo conflitto mondiale, la figura femminile in bronzo.

Due professori di disegno si trovavano per servizio nelle Scuole della città all’inizio del terzo decennio, erano due pittori: Mazzinghi e Bini; il primo si trasferì a Lucca, ed il secondo partì da Empoli. Il loro esempio non lasciò tracce sugli orientamenti iniziali della nostra vicenda.

 


 

 

Terzo decennio

 

Dante Vincelles nasce a Firenze nel 1884. La sua famiglia risultava trapiantata in epoca recente dalla Francia; Nello Alessandrini nasceva ad Empoli nel1’85; ed anche l’ingresso sicuro nel campo dell’arte avviene per i due pittori nello stesso scorcio di tempo. L’Alessandrini espone nel 1924 alla « Promotrice » di Torino, il Vincelles nel 1921 alla « la Biennale Romana ».

Per il Vincelles non sono ricostruibili per il momento gli esordi od i probabili studi, o l’alunnato fiorentino; seppure sappiamo di qualche serale corso di « nudo », seguito dal Vincelles prima del ’21.

Pietro Parigi mi parla di opere di Vincelles apparse in pubbliche esposizioni e destanti a Firenze un interesse legato soltanto al carattere un po’ lunatico ed orgoglioso del suo autore-vetraio. Circa le affinità scoperte tra Vincelles e il doganiere Rousseau è da dire che quest’ultimo era stato già importato a Firenze dal Soffici (3) ma non risultava un fatto acquisito dalla cultura corrente. Soltanto nel 1961 Giovanni Colacicchi parlava di ciò e poteva rilevare la componente classico-rinascimentale dell’arte di Vincelles, giudicando le sue opere « fra le migliori della pittura italiana di paese, che siano state dipinte dopo quelle dei Macchiaioli ». Colacicchi concludeva: « Vincelles, è da vedere senz’altro uno dei più autentici pittori dei nostri giorni ». Vincelles, il vetraio soffiatore ribellatosi al mestiere e divenuto pittore, declassificatore di Raffaello e Tiziano, ed esaltante la gioiosa fabulosità e sodezza della sua tavolozza, è ben naturale che interessasse molti e fosse amato dai giovani della sua città in fase di scoperte e riprove.

Altro l’iter di Nello Alessandrini. Dal De Carolis, presso l’accademia di Firenze, deve avere incontrato lo Spadini, e poi quell’Arturo Checchi, pittore fucecchiese, al quale si serbò fedele per amicale sodalizio. Si liberò presto dai michelangiolismi del De Carolis, come pure dal morbidismo spadiniano. La colleganza col Checchi e la pratica continua dell’incisione secondo i plastici interessi alla Balsamo Stella (l’Alessandrini non disdegnava di modellare busti e figurette), orientarono, verso gli anni ’30, su finezze di modellato in grigio, la sua pittura, che acquistò col tempo coscienza compositiva e gusto alla semplicità architettonica, da affresco; e quand’anche nei due decenni seguenti la sua pasta pittorica sembrò intenerirsi e sciogliersi per inflessioni luministiche, gli rimase l’innervatura pungente dell’incisore all’acquaforte a sostegno dello scatto emotivo nelle tavolette improntate felicemente dal vero.

Amava i giovani, e alcuni dei suoi scolari passavano all’Istituto d’Arte di Firenze. Lo si incontrava di preferenza a quel fumoso, vasto, popolarissimo caffè all’angolo di piazza della stazione. Non nascondeva il suo interesse alla rappresentazione di tipi umani ivi sempre così vari: sensali, viaggiatori, barrocciai, camionisti del tempo. L’acquaforte dei « Giocatori -1934 »  riporta viva quell’atmosfera ed il suo meditare.

 

 

Nello Alessandrini: « Maternità » olio 1928 (?)

 

Dai giovani pretendeva il coraggio. E i giovani se lo trovavano a fianco interessato e impegnato a sostenerli.

Che il padre di Cafiero Tuti, maestro vetraio anch’egli così come il padre di Vincelles, così come il padre di Daumier (quanti sono questi maestri vetrai soffiatori di sogni e di ribellioni nello spirito dei figli!) si sia presentato col cappello in una mano e gli scarabocchi del figlio nell’altra a chiedere il parere del professore Alessandrini, se mandarlo o no all’Istituto d’Arte, è cosa assai probabile; c’è chi lo ricorda.

È certa la precocissima vocazione del piccolo Cafiero, disegnatore imperterrito e acuto sul rosso ammattonato di cucina delle fisionomie dei familiari, il più delle volte premiato dai solennissimi sculaccioni paterni; ed un sarto di via Giuseppe del Papa metteva in serbo per lui gessetti colorati perché davanti alla sua bottega, sul grigio del lastricato, articolasse le prime prove figurate per lo stupore dei passanti. Allora la più elegante via cittadina era percorsa da rade carrozze e quelle ingenue composizioni, scaturite da un ingegno precoce, venivano rispettate a lungo.

Nel 1922, a 14 anni, quando si pensò al futuro di Cafiero, sulla decisione paterna favorevole, pesò la solidale minaccia del prof. Catarzi, l’insegnante di storia e geografia alla scuola tecnica locale, … « le spese le avrebbe sostenute la comunità, qualora… ».

All’istituto d’arte fiorentino di Porta Romana il Tuti seguitò nella sua parte di scolaro dotatissimo, prodigio; sui muri del laboratorio, anni dopo, si conservavano ancora i suoi saggi in affresco. Le sue composizioni murali erano improntate ad un recuperato toscano spirito volto sino da allora all’incontro bilicato tra Giotto e la rivolta in atto di Soffici, Rosai e Maccari. Sul « Selvaggio » collaborò tra il ’30 ed il ’40, e poi sull’« Universale », con disegni e xilografie severe e colorite dal sapiente uso della ciappola rigata.

Compiuto il corso di studi insegnò per un anno a Cascina, l’anno dipoi a Volterra, ed a seguito di un concorso vinto, si trasferì nella sua seconda patria: a Ravenna, dove rimase sino all’anno della morte avvenuta nell’agosto del 1958.

Operava in quella città dal 1932.

Renzo Biasion, rendendo conto dell’arte del Tuti, (« Oggi », 3 maggio 1956), annotava: « in casa, si ritrova immediatamente l’atmosfera di certi suoi interni, dai colori smorzati, caldi, intrisi di un romanticismo che oscilla tra il morbido abbandono, forse dovuto all’aria marina e sensuale di Ravenna, e la sottile e acuta discriminazione toscana  ».

Questo toscano umbratile, esiliato non ribelle a Ravenna, si trovò a vivere il tonalismo di Morandi sul vero, nei persi orizzonti marini, negli abbandonati capanni delle spiagge, lontano dai familiari, fermi profili delle grotte di Marcignana. Carlo Volpe in un catalogo del ’54, presentando un gruppo delle sue opere al Circolo artistico di Bologna scriveva:

 Le difficoltà delicate cui Tuti è andato incontro, così inapparenti nell’ambito sempre sereno o pacato dell’opera, la campitura lieve, l’apertura silente degli intervalli regolari di composizione, la polvere invisibile di luce che vi si deposita non meno misurata del peso degli oggetti più cari di cui riposano le NATURE MORTE, o quella corrispondente valenza atmosferico-tonale del cielo e del capanno lì a due passi sul mare, le rapide persuasioni impalpabili… fanno di Tuti un pittore, un vero pittore, quale la mostra che è stata allestita può certamente, con più diretti e suggestivi argomenti, persuadere ».

Lasciamo il nostro Tuti a Ravenna nel ’32, nell’ambiente artistico gravitante attorno a Morandi e Saetti, e ben sappiamo come egli tornasse spesso a Empoli dove era nato e come amasse rintracciare nelle soste di Firenze e Bologna le persone che gli erano care; ed in attesa di una esauriente e selezionata mostra bolognese, che metta a fuoco la sua trentennale fatica romagnola, a noi converrà qui notare come attorno al 1938 i suoi approdi e interessi siano legati alla fioritura dei più giovani artisti lasciati in patria con i quali aveva fraterni interessi: Carmignani, Fucini, Baragatti, Gemignani, e come, quando ci si deciderà a raccoglierle, catalogarle e presentarle in patria, ad Empoli, certe telette e disegni, xilografie ed affreschi; testimonieranno di un artista, da considerarsi, fra il ’27 e il ’32, tra i più schietti ed importanti in quello scorcio di tempo nella nostra regione.

 

 

Virgilio Carmignani: « Autoritratto », olio 1960 (?)

 

Il monumento alla « Vittoria », opera di Rivalta e Manetti, si levò sull’alto basamento a dominare la Piazza, era il 1925.

La piazza ha un suo respiro e salvo alcuni salti di qualità, risulta impreziosita dalla cinquecentesca Chiesa della Madonna del Pozzo dall’elegante porticato, ed il monumento ai caduti, oggi, patinato dal tempo e provato, ferito dalle schegge, non dispiace; formalmente quei nudi dannunziano-michelangioleschi sormontati dall’epica Vittoria, entro la classificazione celebrativa stanno quale testimonianza valida di una certa epoca e di una certa classe.

Il nostro Virgilio Carmignani, in calzoni corti, ricorda di essersi intrufolato nella Biblioteca Comunale, il giorno della presentazione alla cittadinanza dei bozzetti per il Monumento. Rimase estasiato di  Brivido » il caricaturista fiorentino legato da parentela al Manetti, quel giorno « in fazione » nel ritrarre i convenuti. Per la prima volta intuì la grande gioia derivante dall’essere come lui così bravo, poter cogliere a volo con un segno un carattere, la rassomiglianza.

Ha cominciato con la pittura, il nostro Virgilio, dalla soffitta, godendosi nell’imbratto dei muri con dei colori e cartoni  « rubati a decoratori che lavoravano in case di nuova costruzione » vicino a casa sua…

Distratto com’era, o meglio, preso da quell’incanto, non riusciva a portare a buon fine le scuole tecniche e per punizione, i suoi, volevano metterlo a bottega da un meccanico; prevalse il saggio consiglio di allogarlo in qualità di aiuto presso Zelindo Maestrelli considerato un fine decoratore, il migliore di Empoli.

Nel 1924, a 15 anni, unitamente ad Erone Taddei, vinta la loro battaglia, si iscrivevano a Porta Romana; alla stessa scuola era il Tuti « ed un paio di volte », dice Carmignani, « ebbi occasione di incontrare per le scale dell’Istituto anche il Boni, che frequentava la scuola  ».

Nel 1925 andò a Firenze anche il Maestrelli, si iscrisse al Corso Operaio e frequentò la scuola per quattro anni.

La provenienza dal mestiere, l’essere coetanei, le comuni aspirazioni e interessi, stabilirono una colleganza tra Carmignani e Maestrelli: « si lavorava già assieme da due anni, prima in una cantina di casa sua, in via Tripoli, e poi in una stanzina in fondo al suo orto. Si copiava dalle stampe, a volte si dipingeva assieme allo stesso quadro, una volta si lavorò ad una grande marina in burrasca, con una barca a vela pericolante ».

Questa stanzina in fondo all’orto di via Tripoli per vari anni diventò il cuore segreto dei giovani più dotati e attenti di Empoli. Tra il ’29 ed il ’30 Pietro Tognetti vi portava le prime pitture per ottenerne un giudizio e prendere le mosse e vi bazzicava il giovanissimo e inquieto Gemignani, Masi, Simoncini, Rosselli e Marianelli posavano per dei ritratti e tanti altri giovani letterati, pittori e amatori attratti dall’audace novità e verità di quelle ricerche la tenevano quale punto di riferimento.

La radice tecnica del mestiere appassionava Carmignani, ed ancor più Maestrelli, il quale realizzava preziosi affreschi e pitture avvalendosi delle tinte distillate dalle erbe, tratte da pietre o materiali varii, abbinando petrolio e affresco in centomila curiosità geniali. Alla domenica sera il cenacolo teneva le sue sedute in casa del Carmignani: « perché quasi tutte le domeniche veniva qualche nostro amico per posare e per avere il ritratto ».

Attorno al ’30 la scena della pittura empolese si affolla di personaggi e di attori che sarà bene seguire, partitamente, nelle notizie biografiche.

Si vedeva in giro l’enigmatico sorriso di Corrado Lensi, un pittore serio e dotato che sapeva farsi valere per le native qualità di severo costruttore; Piero Sedoni carico di energie vitali e di ironia, realizzava opericciole di sottile validità poetica, quale quella esposta alla Rassegna del Treno S. G. 4917 e s’inteneriva, lui divertente lingualunga e caposcarico, su certe tavolette lasciate a nudo dove appuntava col pennello sensibile uccellini morti e cartucce vuote.

La terza ondata era quella che montava sul mitico treno S. G. Pisa-Firenze. Ne facevano parte: Mazzoni, Rossi, Fucini, ai quali facevano seguito a spalla R. Alessandrini, Gemignani, Ghezzi, Antonini, Pilade Moni, Faraoni, Lensi Orlando, Cioffi, Romagnoli, Ciani ed il Korcos, questi ultimi entrambi di Montelupo. Viaggiava con noi a quei tempi anche Piero Gambassi, allora filosofo, o per meglio dire studente in filosofia; egli si dimostrava già più legato congenialmente ai problemi della pittura che non a quelli del trovare filosofando.

Nel 1928 aveva avuto luogo la « I Mostra di arte della città di Empoli »; Arturo Checchi, Nello Alessandrini, Vincelles, si presentavano con impegnative pareti, ed eguale onore era stato riserbato al Tuti (4 a).

Ghino Baragatti, così come Tognetti, si faceva da sé, tessendo una rete di lavoro e di frequentazioni tra Poggio a Caiano da Soffici, la Società Operaia di San Miniato, l’orto di via Tripoli, la casa di Carmignani e la bottega dello Scardigli.

Adolfo Scardigli altro personaggio di riguardo nella nostra vicenda, scrittore di cartelli, ritoccatore famoso di ingrandimenti fotografici della zona, pittore domenicale alla «Bertelli», un’arguta figura locale al quale va ascritto il merito, non ultimo, di aver insegnato come si preparano le tele a tanti dei nostri protagonisti e ad essersi trovato nel bel mezzo delle artistiche vicende cittadine (vedi autobiografia e nota 1). Nel cenacolo di via Tripoli si era passati dalla difficoltà delle stampe a quelle come abbiamo detto della pittura a quattro mani: « si modellava e si cominciò a fare degli affreschi; tutti i lavori di allora non so dove siano andati a finire », ci dice Virgilio.

I tempi erano maturi, si studiava e ci si arrovellava sui problemi di sempre; sul crinale di una scelta si discuteva se la materia-pittura fosse arte, e da nepoti del Pontormo si affermava e si lavorava a serrare nel tutto dell’affresco, della calce purificatrice, l’essenza dell’espressione; il Tuti, già lontano dalla Toscana, operava ancora entro questi termini formali disadorni.

Nel 1934 il Carmignani veniva chiamato ad affrescare il presbiterio della chiesa di San Donato (5).

Eppure il demone della pittura-materia, cacciato dalla porta rientrava dalla finestra, nel ritratto del domenicale amico in posa ed in quello del Baragatti, e nella serie varia e bellissima delle « immagini di se medesimo ». Da individuabili interessi veneti per il colore si faceva sotto un nome di toscano, anticipatore di quelle ricercate soluzioni, Spadini, e ad Empoli abitava in quel tempo una figura a lui legata, suo padre.

La lezione spadiniana è stata una delle componenti, almeno sino al ’40, della pittura dei nostri amici, travagliando persino le superfici dei loro affreschi, e, già che ci siamo, converrà riconoscere come nel dilatato, feltroso plasticismo della pittura sofficiana, il fare dello Spadini, proprio, abbia la sua parte nel « ritorno all’ordine » del primo dopoguerra.

 


 

 

Quarto decennio

 

Le strade divergevano, constata Virgilio: « Mario Maestrelli finiti i quattro anni all’istituto, dovette seguire suo padre nel mestiere di muratore, ma continuò da solo a lavorare nella stanzina rubando tutti i ritagli di tempo possibile, anche nell’intervallo fra il desinare e le due, ora di inizio del lavoro.

 

 

Mario Maestrelli: Autoritratto » olio, coll. Prof. Masi Empoli

 

Fu in quegli anni, fra il ’31-’32 ed il ’42, che fece tutti i lavori che conosciamo. Ebbe Mario i suoi primi elogi da Soffici in una mostra collettiva, una seconda collettiva, che si tenne a Empoli nel 1934. Anche Vagnetti, che insegnava all’Istituto d’arte dal 1930 (o dal ’29?) era presente all’inaugurazione di quella mostra, alla quale anch’io prendevo parte assieme a Tuti, Alessandrini N., Checchi A., Baragatti, Gemignani, Rossi, Sedoni, ecc. Mario aveva esposto una serie di autoritratti a fresco impressionanti.

Per non essere distratto nel suo lavoro solitario Mario sembrava schivarci negli anni che seguirono; tutto impegnato com’era non aveva tempo da perdere ».

Alla Mostra empolese del ’34 Virgilio Carmignani esponeva dei bozzetti di paesaggio, ad olio, il Vincelles si presentava con una grande, discussa parete, esaltata per controverso dai giovani che lo frequentarono ancor più, e Carmignani conduceva da lui gli amici, il Chiti Otello di Siena e gli altri.

Virgilio si era licenziato dall’ottavo corso dell’Istituto nel 1932 e dopo il servizio militare, nel 35, era ritornato a Porta Romana, assistente alla cattedra di figura con Vagnetti.

E l’assistentato sfociò naturalmente nella collaborazione tra i due.

II Vagnetti all’auge della notorietà e nel vivo della sua felicissima stagione ante ’40, quella dei grigi, della toscanità e del ‘600, si avvalse sino al ’42, per varie opere di commissione dell’aiuto del Carmignani, e non è improbabile che alcuni studi preparatori e schizzi di mano del nostro si trovino ancor oggi in collezioni private sotto l’attribuzione vagnettiana.

Vagnetti-Spadini, è questo il punto chiave per vedere più a fondo nella poetica e nel mestiere di Carmignani approfondendo un pertinente discorso.

Sui rapporti Spadini-Vagnetti ebbi a scrivere di recente, sulla traccia di Nino Bertocchi, ed a quella scheda rimando (6); per il nostro Virgilio il discorso è ancora da impostarsi. A Empoli, tra il ’30 e il ’35 abitò, come ho detto, il padre di Armando Spadini, uomo modesto e cordiale.

Esercitava, mi dicono, la professione di ottico. Promise più volte agli amici di far vedere le opere del figlio in suo possesso, ma lasciò la città prima che essi effettuassero la ricognizione diretta su quei testi così fortunatamente a portata di mano.

Le fonti veneziane, ed il Manet toscano: Spadini, i nostri le videro e sondarono direttamente nelle gallerie fiorentine e altrove.

Chiamerei però la componente spadiniana un ritardo, un di più contrastante nella concezione formale gracile e scattante del Carmignani, dalla quale egli si libererà dopo il periodo della prigionia che lo vide meditare i piccolissimi splendidi acquerelli. In fondo, Carmignani e Vagnetti si intesero a meraviglia perché uniti dalle consonanti radici spadiniane, e sia perché madre natura aveva dotati entrambi di un vivace segno, nervoso e sensibile, e accumunati all’insegna di una franchissima mano.

E nel tranello ovvio delle apparenze cadde a quel tempo uno che aveva – ed ha – l’udito assai fine, il Del Massa, il quale rapportando delle opere esposte dal nostro alla III Mostra d’arte della Città di Empoli lo diceva « tout court » troppo assomigliante al Vagnetti. Nell’esposizione del ’39, accanto alle ormai mature personalità della scuola locale figuravano i nuovi: Mazzoni Paolo con xilografie e sculture, Fucini e Gemignani. Baragatti si fece notare per un finissimo paesaggio condotto su gamme spente e organizzate in profondità spaziale.

I nostri amici sono usciti ormai fuori dagli stanzini in fondo agli orti e dai sottoscala e sono prossimi all’affermazione di fondo nel concorso per gli affreschi alla Biennale del ’40; si fa luce l’ombroso ragazzino di un tempo, ultimo del gruppo per gli anni: Sineo Gemignani. 

 

 

Sineo Carmignani: « Autoritratto », olio, 1963

 

« Verso gli anni 1929-’30, scrive Sineo, fui affidato, benché ragazzo, alle dipendenze di un giovane « maestro », il Carmignani. A quei tempi, salvo rare eccezioni, ognuno di noi alternava il lavoro allo studio e non per hobby. Mi erano diventati amici il ferrigno Tognetti, allora famoso per le sue esercitazioni dall’aurora del Reni, il genio muratore-pittore Mario Maestrelli e il pittore-meccanico Ghino Baragatti; conobbi pure a quei tempi l’artista «maestro vetraio » Dante Vincelles ed il prof. Nello Alessandrini. In quegli anni verdi, dopo le fatiche scolastiche, quanti sottoscala, quanti oscuri bugigattoli, e quanti battiscopa ho tinteggiato!

     L’équipe capeggiata da Carmignani e composta da me, dal Maestrelli, dal Tognetti e saltuariamente da Angiolino Vezzosi e Raffaello Ancillotti, ogni domenica pomeriggio, dalle 14 in poi, si riuniva per dipingere nature morte, fiori o figure; in quest’ultimo caso da modello fungeva qualche malcapitato innocente, ignaro delle sottili torture della « posa », o qualche appassionato che era ben felice di offrire all’arte un piccolo olocausto.

     Ovviamente l’autorevole maestro, di pochi anni maggiore di noi e liberamente scelto, ci trasmetteva la sua passione per Masaccio, per Spadini, per Velasquez, Goya, senza far mancare le necessarie puntate su Renoir, sui « nostri macchiaioli », su Modigliani, Ensor e Kokoschka, e sul Soffici delle scoperte e massacri, citato paragrafo per paragrafo. Talvolta c’erano le visite agli studi dei maggiori, come Nello Alessandrini, Dante Vincelles, ed altri.

     Il ricordo delle enormi tele con « bagnanti » del Vincelles, risolte alla maniera di Rousseau, il doganiere francese, è ancor vivo. Ricordo le tipiche penombre azzurre, le arroventate sabbie o le trasparenti acque-smeraldo, le fluttuanti tonalità, terse, brillanti e limpide come quelle dell’iride, i buoi celesti o violacei ai margini di alberaie ricche di profondi e fascinosi oltremare. L’incanto sonoro di quel suo mondo difficilmente mi è capitato di rivedere nel percorrere, poi, le gallerie d’arte di tutta Italia ».

   Basta rivedere il ritratto della sorella » (tav. XXI del catalogo della Mostra del Treno S.G. 4917) per rendersi conto di quale sottile vena sentimentale, da Toma giovane, e di quali preziosi timbri e modulazioni formali fosse ricca la sua anima.

L’ultima volta che ci ritrovammo con gli amici fu in occasione della Mostra d’arte di San Miniato tenutasi in quel tragico autunno a Santa Chiara.

Una mostra splendida con una sala dedicata a Viani da levare il fiato (7), attiva per le presenze di Rosai, Conti, Vagnetti, Romanelli, Chiappelli e Parigi. La Germania stava facendo a pezzi la Polonia e grandi erano le nostre apprensioni; la Mostra levò il sipario per puro miracolo.

Maestrelli aveva un Autoritratto » degno di un grande maestro; Carmignani esponeva un affresco dove la libertà inventiva e materica del colore (« una vecchia col caldano »)

 

 

Otello Cirri: « Case alla periferia di Roma », olio, 1962

 

sembrava desunta dagli affreschi del Goya al Sant’Antonio della Florida, che allora non erano noti. Di altri, come Mazzoni e Fucini, si potevano vedere opere di piena evoluzione e maturità. A San Miniato nel ’39 ottennero particolare successo le tele di Arrigo Dreoni e di Otello Cirri, legati per amicale frequentazione alle tendenze del gruppo di Empoli.

 


 

 

La situazione verso gli anni ’40

 

Cafiero Tuti alla « Biennale Veneziana » del ’38 presentò un vasto affresco sul tema « Le ricerche »; già a Venezia nel ’36 era stato presente con un’opera su muro, e quella pittura che segnava il limite estremo della sua toscanità, era largamente indicatrice della scrupolosa preparazione dei mezzi figuranti predisposti dall’artista, mezzi figuranti che erano alla base del mestiere dei nostri amici.

Ancora, nel ripetere l’episodio, Virgilio Carmignani sbotta in una gorgogliante risata: si trovò il nostro Virgilio a Venezia col Tuti impegnato nella realizzazione dell’opera, e sul centoventunesimo vasello di colore approntato lesse la scritta: « Chiaro per la scodella del povero ».

Se Alessandrini, Fucini, Baragatti, vincitori dei concorsi per l’affresco nella Biennale del ’40, realizzarono composizioni che pur entro la tematica obbligata si ponevano sul piano della validità poetica e formale, ciò era possibile perché le sperimentazioni di via Tripoli e le ricerche carmignanesche avevano diffuso nel gruppo il rinascimentale possesso del mestiere esaltato dalla creatività dell’artista.

E tale rarissimo patrimonio di conoscenze tecniche è ancor oggi coscienziosamente posseduto e diffuso dai praticanti del gruppo, alcuni dei quali come Carmignani, Gemignani, Baragatti, Fucini, insegnando possono comunicare il mestiere agli allievi delle loro scuole d’arte.

Renato Alessandrini, uno dei tre empolesi venuti fuori al Concorso per gli affreschi della Biennale, lo ritroviamo nel gruppo dei « Sette », in quella seconda mostra della Sala d’Arte della Nazione (28 Febbraio 9 Marzo ’40), seguita all’apertura dei Maestri (ed erano Maestri » in forma, in piena timbratura di canto: da Carrà agli altri).

Scrivendo di ciò Raffaello Franchi sul « Bargello » tirava maliziosamente a indovinare: « Da qualche segno apparirebbe che l’amico Aniceto Del Massa abbia tratto motivo nell’organizzare questa seconda mostra della « Nazione » dalle scontentezze diffuse negli ambienti artistici dopo il verdetto del Concorso Ussi ».

Ma che le intenzioni di Del Massa fossero quelle, oppure altre è difficile dire, il fatto è che l’ambiente artistico fiorentino s’impennò e interessò alle opere degli amici nostri, tutti giovani, o quasi. Nacquero conversazioni nelle sale di esposizione del giornale fiorentino, articoli, polemiche, impuntature di Maestri…

 

 

Renato Alessandrini: « Ritratto del pittore R. Ciani », acquaforte 1938-’39

 

Sezionando l’apporto dei protagonisti a quel rendiconto che segnò la presenza ed il nostro interesse per un discorso europeo di valore umano ed espressionistico, esso ci rende questo peso di apporti e testimonianze:

Renato Alessandrini: dal N. 30, 37, pitture dal n. 80 al n. 86.

Raffaello Ciani: dal n. 34 al n. 36, dal n. 70 al 76.

Enzo Faraoni: dal n. 31 al 33, dal 106 al 120, (dipinti ad olio ed acqueforti).

Dilvo Lotti: dal n. 1 al 29, dal 38 al 43; più disegni, acquerelli, incisioni: dal 121 al 136, (vedi catalogo della mostra).

Gli altri non empolesi, completanti il gruppo dei « Sette », erano: Boccacci, Ravazzi, Varyas. Lungo sarebbe parlare dell’autolesionismo degli Etruschi secolo ventesimo, dal dopoguerra in poi, e delle carenze critiche-pubblicitarie di casa nostra nel precisare attendibilmente e chiaramente il peso della Mostra del gruppo dei « Sette » e dei valori che ad essa facevano capo, nel quadro del « Rinnovamento dell’Arte in Italia ». Rimandiamo il gentile lettore alla nota 11.

 

 

Dilvo Lotti: « Figure nel bosco », olio, 1941 Coll. Prof. Masi Empoli

 

Nello Alessandrini aveva partecipato nel ’30 alla XVII Biennale di Venezia, nel ’35 alla II Quadriennale, nel ’39 al Premio Ussi, nel ’40 al Premio Cremona, a tutte le Sindacali Toscane ed aveva allestito una personale a Milano nel ’30. La sua maniera si evolveva verso una più liquida individuazione atmosferica.

Dante Vincelles dopo la personale fiorentina del ’31 era emigrato a Parigi, dove aveva dipinto e partecipato liberamente, a suo modo, alla vita artistica che colà si svolgeva. Lo troviamo presente a mostre collettive di spicco e tiene « personali » a Parigi, Nizza e Tolone.

Renato Alessandrini chiamato alle armi deve piantare tutto; di stanza a Trieste trova il tempo di disegnare e dipingere tentando in qualche modo di non rimanere sommerso.

Bruno Antonini, cancellato come scultore dagli avvenimenti, riprenderà dopo.

Ghino Baragatti scrive: « Fui a Sassari durante l’anno 1941-42, in quel tempo insegnavo lì, a quell’Istituto d’arte, … di quell’epoca non ho neppure uno schizzo. Coi famosi e tragici bombardamenti, insieme alla casa, persi tutto il resto ».

Virgilio Carmignani nel ’40 vende due disegni alla Galleria d’arte moderna di Firenze. Nel ’41 in una collettiva al Lyceum presentata da Vagnetti fa parte del gruppo Borgianni, Boccacci, Cocchi, Innocenti Mario, gli viene acquistato un affresco per la Galleria d’arte Moderna di Firenze.

Nel ’41-’42 lavora ai cartoni per gli affreschi nella Chiesa dei Santi Pietro e Paolo nella zona dell’EUR a Roma.

Loris Fucini è a Milano, si occupa di arte applicata, lavora per sé.

Paolo Mazzoni lentamente si trova ad abbandonare la scultura e l’incisione per la grafica pubblicitaria.

Nel ’42, in un muratore che mi saluta alla Stazione di San Miniato, riconosco Mario Maestrelli; è addetto ai lavori. Parliamo con uggia di tutto e dei nostri amori; a nero, su due tavole di un tramezzo protettore, riconosco il suo fare in due sommarie teste: un Cristo e un Poveruomo come noi.

Poco dopo, alle due, lui riattacca con la calcina, io rimonto in treno per Livorno. Non ci siamo più rivisti.

Enzo Faraoni è dei pochi che non perde le fila del lavoro.

Il sottoscritto, Gemignani, Ciani, Ghezzi, i due Lensi, Moni, Rossi e tanti altri, realizzano e dipingono quando possono pregando Iddio e sperando che la burrasca passi; tutti militari, sbandati, lontani da casa.

 


 

 

Il quinto decennio

 

Sineo ha scritto: « A conflitto sedato, quando ci ritrovammo, ci aspettava il vuoto lasciato dal buon Mario, mentre sul volto di ognuno di noi erano palesi le disumane vicissitudini subite: guerra, campi di concentramento, guerriglia e morte vista da vicino.

Carmignani, miracolosamente scampato alla prigionia, nelle sue peregrinazioni per i campi di concentramento aveva lasciato la metà del suo peso.

Ormai i superstiti del gruppo erano sui trenta anni, od oltre i trenta, e con una maturità che veniva loro dall’esperienze fatte nell’immane tragedia. Punti di vista nuovi urgevano in noi e, per proseguire. finimmo con l’appartarci e con l’isolarci; il dialogo, il discorso comune cadeva.

I nuovi vasti orizzonti apparsi agli occhi nostri e tutta l’attuale cultura oltremontana, che aveva sostato per un lungo ventennio ai nostri confini, precipitò dentro il paese con l’irruenza di una valanga d’acqua, di melma, di pietre preziose. Di quella valanga accettammo quel tanto che permetteva di conciliare il nuovo con la tradizione – e duro e improbo fu il lavoro che dovemmo fare per uscire dal chiuso mondo prospettico del nostro tre-quattrocento per arrivare al quadro bidimensionale contemplabile nei suoi quattro profili ».

Due furono le occasioni che ruppero l’individuale bisogno alla solitudine ed al raccoglimento di ciascuno degli appartenenti al gruppo: la Mostra degli Artisti Empolesi, tenutasi nel gennaio del ’46 nella Sala Maggiore della Biblioteca Comunale, ed il restauro (o meglio, il rifacimento) del soffitto della Collegiata allogato al Carmignani in collaborazione col Gemignani per incarico della Soprintendenza ai Monumenti di Firenze (8).

Alla collettiva del ’46 prendevano parte: i due Alessandrini, Gemignani, Gambassi passato inquietamente dal campo speculativo delle idee e dei perché alla tangibilità della pittura, Carmignani, Tognetti, Mazzoni, Sedoni, Baragatti, Scardigli, Lensi A., Taddei, Succi, Maestrelli, Panzani. L’Antonini presentava delle teste: quattro, ed una scultura il Sedoni.

Figuravano all’esposizione N. 38 pitture, 5 sculture, e 24 disegni catalogati. Era assente il Vincelles, e la piccola « mostra postuma » dedicata a Maestrelli vedeva due quadri esposti sul cavalletto: una natura morta e l’autoritratto, più sei disegni sottovetro.

I terribili bombardamenti a tappeto e le mine che avevano martirizzato e coventrizzato Empoli non avevano risparmiato l’insigne Collegiata. Salva per pura provvidenza la lamina preziosa della facciata, erano andati perduti però inestimabili valori d’arte, erano tornate nella cenere del nulla pale d’altari quali « l’Eraclio che porta la Croce » e « L’istituzione dell’Eucarestia » del Cigoli, e lo scheletrico sacro perimetro risultava completamente scoperchiato sconsacrato. Riordinato il salvabile, ricostruite le ossature, ricoperto il tutto, Carmignani e Gemignani si assunsero il compito di ridare vita alle grandiose illusionistiche architetture del soffitto ed alla ovale e sfogata visione allegorica.

Stilisticamente i due avevano seguito un itinerario spiritualmente diverso, ed al ’46 le loro posizioni tendevano a differenziarsi.

A Carmignani i foglietti realizzati in prigionia avevano dato, aperto la libertà espressiva. Spadini e i veneti, Masaccio e il Pontormo, risultavano fuori campo, in una preistoria figurale; quei foglietti risultavano possedere il guizzo felice della favilla, del messaggio della speranza strappato dalla bocca della Morte.

Del soffitto Carmignani intendeva farne una fatica « erudita », una ricostruzione familiare e credibile per adusata dimestichezza.

Gemignani già parlava e pensava del « quadro bidimensionale contemplato nei suoi quattro profili ». Il suo disegno ed i suoi preziosi affreschi strappati si orientavano su riferimenti cubisti reperiti nel filone di quella vasta cultura oltremontana tenuta da noi in dispregio per un ventennio.

Per il soffitto Gemignani proponeva una versione più libera, più sciolta, e quando la impegnativa fatica fu nobilmente compiuta, tra i due fu chiaro che il punto d’incontro era passato; alla vita ed alla pittura avrebbero dato risposte diverse.

Dopo la guerra Vagnetti prendeva posto alla cattedra di scenografia dell’Accademia ed i suoi contatti con Carmignani e l’ambiente empolese si facevano sempre meno frequenti. Virgilio aveva richieste e commissioni nelle chiese e la sua pittura da cavalletto, sebbene da lui tenuta in sottordine, fruttificava nel nuovo clima.

Anche Gemignani avrebbe atteso ad importanti e pubblici impegni decorativi e la sua partecipazione ad esposizioni e rassegne avrebbe assunto col tempo un ritmo serrato ed impegnativo.

La carrellata sulle vicende del quinto decennio che si chiudeva inquadrava storie umane prossime alla conclusione: Alessandrini e Vincelles. Lontani da Empoli: Alessandrini j., Baragatti e l’esiliato volontario Fucini; si rifacevano vivi i due Lensi; erano nell’aria i ripensamenti tonali di Morandi e Mafai, e batteva l’impeto della nuova cultura francese: dalle antologiche starei per dire retrospettive di Picasso – alla nuova stella importata: Buffet.

Gambassi andava costruendo la sua vita di pittore nel passaggio dal geometrismo tonale alle ellissi dell’astrazione.

A due passi da Empoli, alla Bastia, la Del Vivo Nannetta lungo solide direttrici grafiche ordinava violacee atmosfere, nudi potentemente deformati, o archetipi di mezze figure femminili di rara suggestione.

 

 

Virgilio Carmignani: « Storie dell’Ordine Carmelitano », affresco, Capannori (Lucca)

 

Il galantuomo, il bonario avviatore dei giovani all’arte, il prof. Nello Alessandrini, forse prevedendo la fine, allestiva personali, di impegno e di successo, a Empoli e a Roma.

Che cosa determina il fondo vitale dell’opera di lui?  « Più di una volta, davanti a questo paesaggio, dormente in una quiete crepuscolare ancora allarmata dalla luce del giorno appena finito, mi sono chiesto che cos’è a dargli la capacità di resistere all’opera demolitrice del tempo.

Poi mi sono accorto che è la sua forza interiore, un preciso ordine morale oltre che cromatico a dargli vita: il pittore era riuscito a trasferirsi nella propria creazione, con quella sincerità e quella verità che sono sempre il coefficiente più valido dell’opera d’arte » (A. Tofanelli).

Vincelles, a partire dal ’45, esponeva alla « Galleria Rotta » di Genova, a Firenze, Empoli, Viareggio, e seppure fatto segno a pubblici riconoscimenti come quelli conferitigli dai suoi concittadini nel settembre del ’49, smaniosi sogni di grandezza e delusioni quotidiane non l’abbandonano.

L’Alessandrini, in Empoli, aveva chiuso la sua vicenda terrena il 21 gennaio 1951; a meno di un mese di distanza, a Firenze, dov’era nato, il 14 Febbraio dello stesso anno si spengeva il Vincelles.

Renato Alessandrini opera e vive insegnando a Firenze, il Baragatti e Loris Fucini sono a Milano.

Baragatti prima di insegnare a Parma è impegnato nella capitale lombarda da opere decorative in affresco. Il Fucini faticosamente si libera dalla nuova atmosfera, così come si era spogliato da certo bozzettismo familiare alla toscana, e favoleggia lirico di « gelatai e dischi volanti ». Anche il nuovo ambiente di Casteltesino costituirà per lui una tappa decisa di acquisizioni formali.

La forma definita, quale peso! … In fondo, il mondo non è che un immenso, variabilissimo, bellissimo e incomprensibile arabesco, e con l’ironia e la sua atavica finezza di assaggiatore e dispregiatore, il Fucini va avanti. Il Klee, il Kandiski, anche quando sembrerà, non entrano nel suo soliloquio.

 

 

Loris Fucini: « Fruttiera », acquarello, 1955

 

I due Lensi nuovamente nella pittura proseguono senza punti di contatto – nemmeno c’erano stati avanti -: Corrado sull’appoggio della chiarezza del coetaneo Grazzini liberamente inquadra nuove aperture di colore; Orlando da un’esperienza di ceramografo sottile riattacca da Cézanne e dai primitivi toscani.

Piero Gambassi  settatore  nell’ambiente  di  « Numero »,  da  « Primitivista »  campisce l’« Esperienza di mestiere » 1948, e varia formule geometriche di intellettuale rarefazione e finezza prima di passare, come si è detto, dagli spigoli e dalle spezzate alle allucinazioni senza fine dei pozzi ellittici.

 

 

Sineo Gemignani:

« Particolare del fregio nel salone della Borsa Merci di Firenze » (Por S. Maria), affresco

 

Per chi abbia sott’occhio il panorama da noi tracciato dei tre decenni trascorsi per le figure e i  fatti dell’arte a Empoli (1920-1950), si renderà conto di come i quattro anni dal ’46 al ’50, non abbiano resa possibile la sutura del tessuto dilaniato e scomposto dal tempo e dai disastri della guerra.

Ritiratisi dalla scena i primattori (Maestrelli, Alessandrini e Vincelles), per gli altri, in epoca di condannate istanze collettivistiche vige la tragica legge dell’arte, per cui ognuno deve pure pensare a bene impiegare i propri talenti e di quelli rispondere, perché la propria sofferta testimonianza serva pure ai fratelli, agli uomini. Sarà nostro compito concludere il presente studio seguendo le fila della vicenda, tentando di chiarirla e documentarla sino ai nostri giorni, così come ci sembra opportuno, nel capitoletto seguente, e facendo il punto sull’acquisizione della cultura artistica venuta a crearsi nel centro di Empoli.

 


 

 

Il collezionismo e la diffusione della cultura figurativa

 

Il godimento di un bene, e diciamo pure il consumo di un genere quale quello dell’arte, e dell’arte della pittura in specialissimo modo, nel quinto decennio ha assunto a Empoli aspetti interessanti riscontrabili in tutti i ceti della popolazione.

La raccolta di riproduzioni di ogni genere e di opere autentiche in particolare è incoraggiante fenomeno contemporaneo.

I primi collezionisti, usciti da quella classe professionale educatasi agli studi classici od affinata nei commerci e nel sacrificio del libero apprendimento, si fecero sollecitatori dei primi raggruppamenti, delle prime nostre personali o collettive, incoraggiarono e cementarono le istituzioni culturali cittadine dando vita autonoma al Circolo Amatori Arti Figurative e sostenendo il programma mostre ordinato con lodevole continuità nella Sala Maggiore della Biblioteca Comunale (9).

Tognetti tenne nel ’56 la sua prima personale nella Sede della Filodrammatica G. Pacini in via del Giglio, ed alla sua fece seguito la mostra del Cecchi appena uscito dall’Accademia di San Marco dove aveva studiato con un’altra nostra vecchia conoscenza, il pittore Arturo Checchi.

Le due personali ebbero buon successo e sin dalla prima uscita, il Cecchi, s’impose all’attenzione degli appassionati per la sobrietà e finezza dei suoi mezzi pittorici e per la maniera pronta e forte dimostrata nell’afferrare, con l’apparenza, l’essere dei soggetti. Un autentico temperamento.

Il Cecchi espone poco, poco si fa vedere in giro, e questo depone ancor più a favore della sua tempra e della serietà morale dei suoi interessi.

Il Circolo Amatori Arti Figurative costituito nel ’57 da una cinquantina di soci, organizzò nel Novembre di quell’anno una mostra di Rafo (Raffaello Fossi di Signa) alla Biblioteca Comunale.

I programmi annuali dell’Associazione prevedono conferenze, dibattiti, gite di studio, gite sociali seguite da mostre collettive e quanto altro, liberamente, può contribuire al diffondersi della cultura ed alla comprensione e diffusione dell’arte.

Ad oggi, per concatenazione, è doveroso constatare come accanto ai collezionisti più avveduti delle opere degli artisti locali e dell’attuale pittura contemporanea di più largo giro, e alle collezioni Masi, Rosselli, Gambassi, Pratelli, Marianelli, Del Dotto, Cassata, ecc., si avviino a testimoniate una bella apertura di critici e approfonditi interessi, molte altre, più fresche anche se più limitate, in buon numero generate dal primigenio amore all’arte estrinsecatosi con una iniziale raccolta di riproduzioni.

Dal ’59 al ’63, il Circolo Amatori ospita nelle sale della Pro Loco del Palazzo Ghibellino (g.c.) un numero rilevante di esposizioni: rilevante anche per la qualità delle stesse, ed il Consiglio Direttivo della Biblioteca Comunale include nei propri programmi collettive e personali dedicate ad artisti empolesi, retrospettive, così come ospitava ed ospita opere di artisti attivi in altre regioni.

Nel ’61, a seguito di brillanti e vivacissimi dibattiti (mostra Nuti), sull’onda di discussioni generalizzate (arte astratta o figurativa, realismo o informale, classicismo e nuova realtà), Piero Gambassi con alcuni amici, tra i quali l’ironico e scaltrito Gigi Boni, di spola sempre tra Firenze frequentatore e pittore della galleria « Numero » – Parigi e Empoli, fondava un « controcircolo », che allestiva una nuova galleria di tendenza astratta e ospitava alcune mostre.

L’iniziativa aveva breve durata e andava incontrando ad un duro insuccesso.

Nei vari bar, caffè, magazzini, vetrine, negozi, si nota 1a crescente ospitalità ed il crescente favore accordato ad opere marginali, tutte però aventi pieno diritto alla cittadinanza nel mondo dell’arte; questo termometro è indice sicuro del progredire nella zona e del diffondersi della cultura figurativa.

Benemerito, nel suo allungatissimo spazio-bottega, il libraio Semprepiovi il quale, nel modo più continuo e semplice, traffica ed espone piccole cose d’arte, riproduzioni e tele capitategli chissà come tra le mani, tra le quali non è raro scoprire pezzi di piena validità e interesse (10).

 


 

 

Il sesto decennio

 

« “Strapaese” affermazione risoluta e serena del valore attuale, essenziale, indispensabile delle tradizioni e dei costumi caratteristicamente italiani, di cui il paese è insieme rivelatore, custode e rinnovatore ».

 

 

Otello Chiti: « La Puerpera », disegno, 1936

 

Il rinnovamento dell’Arte, ad opera del nostro gruppo, nella caratterizzata fetta territoriale era avvenuto fra il terzo ed il quinto decennio per vicissitudini e per esigenze naturali. La cosidetta provincia italiana aveva di queste risorse non programmate, ed i nostri amici, mai culturalmente impegnati in fazioni, da uomini, avevano dipinto gli aspetti della vicenda umana: la maternità, la santità del lavoro e del sacrificio, la umile, antica e sacra bellezza del mondo e delle cose.

Più che viaggiare, più che studiare, ed i nostri non erano affatto degli « incolti », la loro era stata una preoccupazione di linguaggio, di recupero e affinamento dei mezzi formali.

Già attorno al ’38 Maccari e Strapaese erano entrati in crisi; anche un altro toscano, il Malaparte, aveva dato una mano a quel conformismo falso annidatosi nella sanità paesana, ma sia Maccari che Malaparte in modo responsabile erano ben presto passati all’opposizione, perché i conti andavano saldati ed il tirar delle somme non persuadeva.

Per quanto ci riguarda, come già da noi annotato, attorno a quegli anni, Cafiero Tuti, pittore empolese in Ravenna, si inseriva da protagonista nei fatti di quella cultura originata dalle contemplazioni morandiane e dal rigore esemplificativo di un Guidi; il Saetti ancora operava pompeianamente su accadimenti familiari.

La caduta delle barriere, dopo la valanga di ferro e di fuoco e le conseguenti aberrazioni, naturali anch’esse, avevano fatto, come ha fatto, di tutto il mondo una provincia.

Una provincia dove la corriera per la stazione di San Miniato, o « la Lazzi » da piazza della Vittoria per Firenze, è diventata il reattore che, impiegando lo stesso tempo, ti fa atterrare depositandoti a Londra; uno  « Strapaese » dove l’autorevole lettura della quieta e benpensante « Nazione » è stata naturalmente sostituita dagli informatissimi rotocalchi, dove a colori, il giorno dopo, puoi rimirarti l’avvenimento artistico o la pittura di moda, di scandalo o di rottura, furoreggiante a Parigi, o a New York.

La televisione aiuta, e si può essere alla finestra e di punta anche nel più sperduto paese del più remoto angolo della terra.

Le notorietà diffuse, internazionali, ufficiali, possono risultare costruite su valori culturali modesti, « provinciali », e la critica di informazione e di guida dei fatti dell’Arte, sotto la spinta di un elemento nuovo, nuovissimo, il « consumo », pretende di prevedere e programmare il cammino evolutivo-interpretativo dell’Arte.

Molto importanti in un domani assai prossimo risulteranno gli apporti individuali di quegli uomini-artisti che non si saranno mossi di casa e che avranno speso la loro vita – ed i talenti della loro arte a scavare la loro piccola verità, sempre più nel profondo del loro essere, identificandosi in essa, perché le leggi degli infinitesimali e dei paurosi infiniti dell’universo sono l’unica verità.

Tutto il resto è cronaca vanamente e tragicamente quotidiana, contingente, provinciale.

Dal 1950 al ’52, Carmignani affresca al Santuario della Madonna del Carmine, presso Capannori (Lucca), le Storie della Madonna e dell’Ordine.

In detto Santuario furono con lui, collaborando o eseguendo opere in proprio, Otello Chiti, Baragatti, Gemignani e Vezzosi.

Una vasta fatica quella di Carmignani a Capannori, complessa, felice di fantasia e di risoluzioni tecniche, un’impresa tale da meritare da sola la posterità ad un artista; in essa l’antico e nobile mestiere dell’affresco ha accettato la polemica dei tempi sul rinverginamento del linguaggio espressivo in risultati validi ed ancora da riconoscersi appieno.

L’affresco e lo strappo, le ricerche di nuovi collanti per la tempera e le pitture a cera. Attorno a questo scorcio di tempo portano il Gemignani al « Vetraio », condotto con etrusca asciuttezza, ed alla monumentalità della « Venere allo specchio », in una ripresa tonalistica alla Paolo Uccello.

Avverti però come nell’artista si ponga l’intellettuale contrasto tra le aggettanti possibilità delle masse-spazio, creanti una drammatica prospettiva, ed un valore discriminante, di superficie, di scansione delle masse colorate, il disegno, un disegno, che ebbi a puntualizzare, di origine francese e sottilmente espressionistica come quella che va da Lautrec a Buffet.

In questo decennio Gemignani realizza entro la vasta tematica dei suoi interessi umani e culturali, su commissione o nella continua, diuturna, insoddisfatta ricerca, la sua esemplare e coerente storia di pittore.

Decisivi questi anni per un altro pazzo della pittura, il vecchio amico Tognetti.

Le antiche esercitazioni figurali dal Reni condotte al tempo dell’orto di via Tripoli, e le desunzioni compositive da fotografie non si addicevano alla caparbia impetuosità del suo temperamento, e meno dalle sue fini riprove da Morandi è possibile cogliere la consistenza del suo « essere » in pittura.

Perché Tognetti è certamente un pittore, ed un pittore di paesaggio personale, persuasivo, sensibile.

In Toscana, essere un paesaggista a suo modo, indipendente e riconoscibile, è ben raro; è ben difficile distinguersi dalle accettate interpretazioni di Soffici, Rosai o di Cappellini, e per chi riesce come lui, non è fatica e merito da poco.

Qualcuno azzarda l’obbiezione che è troppo uguale a se stesso, al che è possibile ribattere che tutto Cézanne, ad esempio, non è che un solo quadro, ed il Tognetti in questo decennio per campi e colline, per prati e boschi, o lungo l’addolcita curva dell’Arno, nel variare degli odori e delle luci stagionali, ha scoperto una sua felice e poetica patria.

Vinta la sua modestia, la sua incontentabile operosità, od il suo orgoglio, giusto sarebbe riunire in una mostra le opere più impegnate della poetica tognettiana.

Tognetti lo si trova presente giusto a metà decennio, nei cinque del gruppo che espongono nell’aprile a Milano, alla collettiva allestita da Bergamini.

Gli altri erano: Carmignani, Sedoni, Fucini, e lo scultore Romagnoli, che esponeva però anche delle tempere. La mostra otteneva un meritato successo di stima.

 

 

Piero Sedoni: « Case alla Periferia », olio, 1930 (?)

 

Il tempo naturalmente gioca a rovescio e per naturale logica ambienta gli artisti emigrati in particolari climi e situazioni storiche. Alessandrini Renato è da considerarsi fiorentino, Baragatti non può, tra Parma e Milano, seguitare a vivere e pensare da empolese, Fucini accede ai toni più alti della sua liberazione, meditata ironicamente su Franz Marc e Kandiskj; Sedoni, Taddei, Vezzosi sviluppano coerentemente particolari aspirazioni o penetrano motivi carmignaneschi.

L’empolese onorario, il Faraoni, è presente nel gruppo, prima per motivi scolastici, poi per affettuosa colleganza e bene conferma di lui C. L. Ragghianti quando annota « … il suo rifuggire da ogni ostentato intellettualismo, la sua convinzione che è quasi una religione della semplicità, della schiettezza, dell’affidamento sincero all’emozione, e la sua certezza che tutta l’opera è decisa dall’amorosa vocalità di ogni forma, nervosamente trepida, e di ogni impasto, di dissimulata quanto viva ricchezza e delicatezza… ».

 

 

Amleto Rossi: «  Il volo del ciuco », affresco

 

Introversa, chiusa, attratta da pozzi cobalto di capovolte cupole bizantine forate da sguardi gialli, obliqui, incrociati, la tematica ossessiva di Piero Gambassi procede inesorabilmente.

Amleto Rossi, da pittore nato riprende confidenza sul finire del decennio nella sua vocazione e persuasivamente ripropone il suo angolo di elegia prosastica che si avvale di una istintiva e nobilmente grave tavolozza.

Il vecchio capofila, Carmignani, il maestro liberamente eletto dagli accademici campagnoli dell’orto di via Tripoli, dal ’47 al ’60, pur attendendo a « vari affreschi minori », su tavolette e cartoni, e tele, per confessione privata e senza alcuna utopia riformalistica resurrezionale o rivoluzionaria, icasticamente teneva testa a Soutine affogando gli inferni e le folgorazioni del colore esorcizzati nella santità della calce, nei neutri del cartone e della tela non preparati, lasciando galleggiare bagliori costruttivi e assonanze, e specchiando nella sua toscana inquietudine di sperimentatore ispirato le istanze e le aspirazioni dei  « nuovi », di quelli che già aggiogati al « bindolo » delle ataviche convenzioni entro l’antico cerchio delle mura, passando e ripassando, e incrociando davanti alla Collegiata pensavano e pensano di arrovesciare il mondo con la pittura, per salvarlo e per averne salvezza.

 

 

Orlando Lensi: « Paese », olio

 

Mauro Masoni: « Maternità », olio

 


 

 

I nuovi

 

La rivoluzione ad Empoli, nel campo dell’Arte, non si farà, perché i nuovi dovranno vedersela con le solite vecchie cose eterne e inamovibili della vita. Le novissime generazioni « all’attacco » già si preannunciano e si esprimono in bianco e nero, disegnando secondo la calligrafia e le convenzioni espressive dei tempi, anche loro perciò, come già nell’orto di via Tripoli, condannano il colore, lo escludono dai loro tabelloni e planches, e se per le didascalie ricorrono ai poeti maledetti, l’insistenza dei contorni ed il contrapporsi dei chiaroscuri ripropongono il dramma tattile dei toscani, da Michelangelo in poi.

I nuovi capofila chi potrebbero essere ? Chi continuerà questa storia avrà chiaro, come antefatto, quello che noi chiamiamo l’avvenire.

Mauro Masoni, oggi sui trent’anni, possiede cultura e invenzione. Certamente ha delle cose da dire, e quando la sua cultura si sarà dilavata nella preparazione, la dimensione del suo mondo potrà crescere nel dialogo col riguardante.

Antonio Trifoglio, calabrese, da anni fra noi, sembra prossimo alla sua definitiva acclimatazione. Possiede buon disegno e mestiere, ed il suo colorito marrone-olivastro, in una tavolozza grave, accordata sui bassi, conferma la nostra speranza.

 

 

Antonio Trifoglio: « Zucca con foglie », olio, coll. avv. Gambassi-Empoli

 

I temi preferiti sono scene della vita di oggi: i juke-boxes (ne ha uno sottocasa), le confezioniste e le raccoglitrici di olive, le maestose immagini materne della sua patria di origine e gli aspetti essenziali della scarna Toscana dai marroni fondi della sua prima tavolozza ai grigi e neri della seconda patria calcinata ed in evoluzione, puntuta di tralicci e cipressi, di ironie e di certezze; Masaccio ed i traffici degli Etruschi di oggi all’acquatinta e su tela, la fase attuale dell’odierno lavoro, lo mostra in un momento felice, prossimo allo sfocio nella maturità.

Penultimo in chiusura ci siamo lasciati Antonio Romagnoli,

Non è più giovane, ma la sua scontrosità sempre l’ha portato a posizioni di attesa e di rispetto. Forte e naturale disegnatore, felice colorista e inteso a sottigliezze tecniche, nella scultura prima da Innocenti a Porta Romana, e verso il ’40 a San Marco, da Griselli prese le mosse.

La sua attenzione di plastico di estrazione suburbiale ne convogliò il gusto all’intelligenza dei primitivi, dei romanici; « innamorato di Donatello, egli sente soprattutto una forte propensione per l’arte degli Etruschi (dei quali usa anche, oltre la terracotta, il nenfro); ha guardato con rispetto i contemporanei, in modo particolare Arturo Martini, ma ha saputo dominare queste sue predilezioni. I riferimenti ora proposti sono indicativi dei suoi gusti e delle sue predilezioni, ma egli sa tenersi con la sua personalità ben lontano da ogni eclettismo e da ogni richiamo. In Romagnoli c’è l’equilibrio di uno spirito educato, vigile e sensibile, lontano da cadere in soluzioni ed in equivoci inintelligenti; c’è una solidità d’impianto plastico, c’è una forte, istintiva, sensuale passione per la forma » (10).

 

 

Antonio Romagnoli: « Deposizione », terracotta 1964, Cimitero di San Miniato

 

Dopo la cottura rimodella a subbiate le sue terracotte con grande amore e gusto pittorico per le variate superfici. Sembra chiuso in una ristretta tematica ed il più, certamente, deve darlo. Colpa forse degli scarsi committenti.

Inesorabile e sicura la raffinata bellezza dei busti e ritratti femminili, idealizzati e fuori del tempo, etruschi o lauraneschi, e più di tutto suoi.

Da sottoscrivere l’apertura del discorso di Mario Novi per Gino Terreni: « Meritano attenzione l’onestà e la pazienza con cui Gino Terreni, nella sua attività di xilografo, conduce in porto di documento e di stile certi suoi contenuti di determinazione espressionistica, non estranei ad una più vicina e scarna storia locale ».

 

 

Gino Terreni: «II pianto delle Marie », Xilografia

 

Vasarianamente si potrebbe dedurre che fattosi il Terreni in giovane età discepolo di Pietro Parigi a Porta Romana, da lui, dal Maestro, abbia attinto il meglio di quella antica e franca sprezzatura di taglio di sapore popolaresco da incisore di  « lunari », da cantinpanca, che fece dell’incisore del  « Frontespizio » una delle più vivide (e ancora da riconoscersi, da scoprire, anche come pittore da cavalletto) personalità del mezzo secolo abbondantemente trascorso.

Chi ha orecchi da intendere, intenda.

E’ certo che due decenni dopo, il Terreni, mostra di perseguire identici risultati con quella disadorna fermezza di mezzi (bianco e nero) e di linguaggio che è del Maestro, ed in mano al settattore questa difficile arte è divenuta sua, col sapore nuovo dell’immagine rivelata.

Il Terreni pittore nell’impostare l’altro problema, quello dei valori cromatici sulla tela, non la cede in interesse allo xilografo. Non ne fa una trascrizione o una contaminazione di termini.

Egli sembra fissare sulla tavolozza dei punti, dei passaggi obbligati: giallo e rosso cadmio, celeste e bianco, ed attorno a quelli ruota in riscontro della visione tinte chiare e contrasti demarcati da spezzature e sostegni lineari.

Ci viene per le sue tele sotto la penna il nome di un grafico-pittore, il Dufy. Il Dufy era francese, bizantineggiante di spirito ma di non vasta capacità polmonare, il nostro, quando avrà maturato gli accordi della tavolozza elevandoli all’altezza dei suoi blocchi di contrapposizioni chiaroscurali, ci darà una pittura di solido impegno morale e validità.

Una decifrazione documentata il più possibile al punto attuale degli studi dei quattro decenni della pittura empolese presa in esame, così vicini a noi, e già fugati dalla corsa del tempo che lascia sospese e vive le figure a noi familiari e drammatiche dei primattori e dei comprimari, intenti ad interessi non vili, ed episodicamente trascendenti la modestia e l’umiltà delle poetiche intenzioni, non ci lascia il coraggio della conclusione morale (11).

Del bilancio, cosa ci si può attendere da un rendiconto parziale del tempo?

Il tempo non attende né sembra ascoltare gli uomini, rimane apparentemente senza risposta a simili interrogativi, e gli uomini più uomini degli altri, gli artisti, in se medesimi hanno la verità, le parole del tempo, e quella verità del futuro cercano di chiarire, di annunciare e di intendere per se medesimi e per gli altri.

 

Dilvo LOTTI

 


 

Note

 

(1) Scardigli Adolfo (classe 1882), una delle mie fonti d’informazione, tende a spostare l’attacco di Vincelles alla pittura al 1925, Pietro Parigi invece è propenso a retrodatare l’inizio del Vincelles al secondo decennio del secolo. Sono rimasto perplesso ed incerto sulla questione.

Eppure la memoria dello Scardigli è attendibile in molti riscontri, la sua gnomica presenza ed il pepato eloquio incutono rispetto, anche se i cataloghi sembrano appurare talvolta un’altra data.

La nascita del nostro Adolfo, accertabile all’Ufficio Anagrafe di Empoli, sicuramente è da considerarsi un illusorio falso; da dove viene e dove è nato lo Scardigli?

Il nostro doveva essere in Spagna, nel « clan » del Velasquez, addetto alla preparazione delle tele, alla sbozzatura delle architetture; a lui doveva essere concesso intromettersi nel cerchio dei personaggi disposto attorno ai Principini in posa e frequentare le stanze de’  « Las Meninas », El Inglés, D. Cristobal de Castañeda y Pernia, Sebastian de Morra; lo dovevano considerare amico, ed a lui il Maestro doveva riservare il compito ultimo di scrivere sulla tela da verniciare, con bei caratteri: « Linfante. Marguerite ».

 

(2) Le notizie sul monumento sono tramandate a pag. 4 nel fascicolo edito per l’occasione « Empoli celebra i suoi gloriosi caduti per 1a Patria», VII, VII, MCMXXIV-XXI, VI, MCMXXV, e stampato dallo Stab. Tipografico Ditta R. Noccioli, a cura di un Comitato cittadino.

Dario Manetti (1875-1925) e Carlo Rivalta vennero dichiarati vincitori del Concorso nell’Ottobre del 1923. Furono membri della Giuria l’Illustre e compianto Emilio Gallori, Giuseppe Graziosi e Antonio Maraini.

II basamento di carattere romano alto circa 7 metri è in travertino senese ed intorno ad esso ricorre un fregio scolpito di 14 figure simboleggianti gli eroi. La figura della Vittoria, alta m. 4,50, è stata fusa con circa 27 quintali di bronzo proveniente quasi tutto da cannoni nemici dalla rinomata fonderia di Alessandro Biagiotti di Firenze.

Le decorazioni del basamento furono scolpite dallo studio del Prof. Oreste Andreini. La prima pietra del monumento fu posta dal poeta Sem Benelli il 7 luglio 1924. Al collaudo dei modelli al vero cooperò anche il valoroso scultore prof. Valmore Gemignani che li giudicò « eseguiti con rara perizia, grande coscienza e vivo sentimento d’arte  ».

La decorazione della piazza (disegno del giardino, dei lampadari ecc.) è opera pregevole dell’arch. prof. Giacomo Piccardi, fiorentino.

II Manetti morì a Firenze (riposa ora a Empoli nel Camposanto della Misericordia) e non assisté alla inaugurazione dell’Opera sua più importante. Nello scorrere i nomi degli aiuti, dei collaboratori e collaudatori, si ha l’impressione che nell’ultima fase, forse a causa della grave malattia che lo colpì egli fu lontano dalle vicende del monumento.

 

(3)  « Giornale di Bordo », il diario di Soffici segnò veramente il piccolo cabotaggio ed i voli ciechi e librati nel fondo delle più esaltanti scoperte della nostra giovinezza. E debbo anche aggiungere che gli scritti di lui ospitati in quegli anni sulla « Gazzetta del Popolo » di Torino nonché la pagina: « Piani, forme e colori » del povero e carissimo Emilio Zanzi sulla stessa Gazzetta non poco contribuivano a tenerci tesi in quell’aura vitale e giustiziera da « Scoperte e massacri » (1919).

Anche per noi massacratori impietosi, tra il ’30 ed il ’40, «  Non esistevano – come per il Soffici del 1921 – altri valori che l’Arte. Tutto… sullo stesso piano, all’infuori dell’Arte, e in questa non c’è altra regola di misura che la vita ».

I sì e i no alla vita in nome dell’Arte; il doppio più erano Chaplin, Van Gogh, Armstrong, Pirandello e tutto quanto non era « municipale », ma impegnato contro le convenzioni. Il meno e la doppia cancellatura erano i criteri della buona borghesia, la pittura accademica, anche quella novecentesca, la rôcca e le consuetudini rimasticate. Un nostro filone, come dirò poi, per autovaccinazione interna fu immune, non accettò mai le paratie di « Strapaese ». Una scanzonatura anche feroce era nel distacco scavato tra noi ed il prossimo, prossimo individuato quasi sempre, nel singolo, con l’aggettivo « fesso », ed i fessi erano i filistei, coloro che non leggevano, non capivano e vivevano secondo la moralità del « Giornale ».

Un incosciente ribellismo a vuoto, velleitario, di seconda mano il nostro?

No decisamente! L’attivo di quegli anni nostri di puledri scalpitanti nell’ex-scuderie reali di Porta Romana, dello S.G., degli Andreotti, Vagnetti, Chiappelli, Parigi, Lunardi, Guerrini, Gelli, Innocenti, Chiaramonti, Agostino Giovannini (e chi più lo ricorda il rosso e incantato scultore Agostino dalle centomila meravigliose esperienze?), ha pesato sulla nostra civiltà regionale e peserà ancor di più sugli allargati interessi di fondo, perché a quei maestri facevano seguito gli scolari Grazzini, Dreoni, Antonio Berti, Biancini, Farulli, Puccinelli, Caselli, Castelli, e in più la fitta schiera di coloro che venuti a Firenze a studiare in quel fortunato momento sono rimasti da allora, validamente, sulla breccia in ogni settore del fronte dell’Arte.

 

(4) Carmignani accenna fugacemente e con brio: «…ebbi occasione d’incontrare per le scale dell’istituto anche il Boni che, dice, frequentava la scuola,… ». E’ certo però che non continuò a frequentarla. Da quante responsabilità si è tenuto lontano il Boni per il divertito piacere del vivere! Tutti hanno presente la sua figura allungata, pungente, garbata, culturalmente scettica e sempre impegnata nell’opposizione, nella fuga sul domani, sulle possibilità di un probabile avvenire, ma che cosa si potrà dire di documentato del compitissimo Boni di Parigi, e della sua attività italiana, empolese e fiorentina di questo secondo dopoguerra? Abbiamo visto di lui impasti di colore e sabbia, colori e segatura, tele sfibrate a ragnatela. Sotto quale cielo egli è presentemente, ed in quale clima operano le sue forbicine sottili e pazienti? E’ difficile dire se è ora lì a tagliare o ad appendere, fantasiose ragnatele di immagini in una piazzetta di Parigi, o nella internazionalità di un « numero » fiorentino, o è intento al suo connaturale ruolo di scandalizzatore degli amici benpensanti del Bar Italia sotto lo sguardo divertito di Dino Ferretti.

 

(4 a)  « L’illustrazione Toscana », anno VI, n. 10, ott. 1928, pubblica a firma Tom. Frac. una guida esauriente della « Mostra circondariale d’Arte della città di Empoli », inaugurata da S. M. la Regina Elena e organizzata dal Sindacato Regionale delle Arti dei Disegno del quale Antonio Maraini, era saggio e valido propulsore.

Lo scritto è illustrato dalle riproduzioni delle opere di Dante Vincelles (« Scena rurale »), Renato Del Rosso (« Marina »), di Dino Cioli « Paesaggio eritreo verso Adua »), di Nello Alessandrini (« Piccola madre »), di Cafiero Tuti (« Il suonatore », xilografia) e di Luigi Morelli (« Un angolo del chiostro francescano a Empoli »).

Le tre facciate siglate da Tom. Frac. risultano oggi una preziosa miniera di informazioni e precisazioni. Era presente Arturo Checchi con le pitture «Le Marie », premiato al Concorso Ussi, «  La madre » e la « Testa di San Sebastiano », e con delle acqueforti; l’altro ospite, Mario Moschi, presentava delle medaglie.

Apriva la schiera degli empolesi Nello Alessandrini già da allora salutato come un iniziatore, un caposcuola, seguito da Cafiero Tuti nella sua doppia attività di pittore e incisore. Carmignani aveva dei paesaggi e così C. Lensi; Giovanni Lo Castro era presente con delle nature morte, Ryna Cantini faceva coppia con Bianca Minucci di Firenze.

« E il piccolo Fucini si fa bravamente avanti con la sua chiesa di San Martino, in quel di Empoli », così si esprimeva il recensore.

Fernando Reitz, Dante Vincelles, Luigi Morelli, Duilio Borgioli, Quirino Falorni, Giulio Mori, Dino Cioli, Raffaello Ancillotti, Sirio Lopez, Renato Del Rosso, Giovanni Nannelli, Angelo Vezzosi, Antonio Sensi, Eusebio Iserani, Torello Bandinelli s’impegnavano col paesaggio, con qualche breve puntata sulla figura e con la composizione di sapore locale.

Mario Maestrelli, « i cui autoritratti – lì è detto – hanno la duplice impronta dell’uomo e del disegnatore », si presentava con un suo ben modellato busto in gesso. Le altre opere di plastica erano dovute a Antonio Sensi, ad Arturo Lensi, a Don Quirino Giani e Giulio Mari. Anche l’artigianato artistico era rappresentato alla esposizione dell’ex palazzo militare « Francesco Ferrucci », il casermone, per i lavori di Aldo Mari e di Angiolo Beni.

 

(5)  La cronologia l’ubicazione e il metraggio delle opere d’Arte sacra dipinte a buon fresco da Virgilio Carmignani fino ad oggi son così precisabili:

1934 – « I Santi Pietro e Paolo »,  « L’incredulità di San Tommaso », n. 2 affreschi per circa m. quadrati 7 di parete nel presbiterio della chiesa di San Donato (Empoli).

1939 – «La Deposizione », circa m. 1,50 x 1,20 nella Cappella Gentilizia dei Conti Filippeschi, Camposanto della Misericordia di Empoli.

1946-’49 – In collaborazione con Gemignani restauro e in parte rifacimento del soffitto settecentesco del Duomo di Empoli. La parte rifatta ex nuovo è circa m. quadrati 320.

1950-53 – « Storie dell’Ordine Carmelitano» nel Coro del Santuario del Carmine presso Capannori (Lucca). Circa m. quad. 120.

1957 –  « Annunciazione » nella Chiesa delle Suore Domenicane in via Chiara, Empoli; circa m. q. 8.

1957  – «San Giovanni Battista » Chiesa di Sovigliana (Vinci) m. q. 1,50.

1962 – Chiesa del Pozzale (Empoli), Storie della vita di Cristo m. q. 25 di muro, rimangono da affrescare 7 o 8 metri quadri.

 

(6) Vedi scheda 12 – Gianni Vagnetti:  « Ritratto di bambina », tav. XII; cat. « 1935 Empoli-Firenze Treno S.G. 4917, al Circolo Amatori Arti Figurative di Empoli, palazzo Ghibellino, maggio 1962 »; per la bibliografia: Nino Bertocchi, « Artisti Italiani  », G. V. Vallecchi 1943.

 

(7) Viani era morto nel ’37, ad Ostia, sul lavoro, ed il figliolo Franco era venuto a San Miniato alla inaugurazione della mostra dove figuravano le opere del padre, in bicicletta da Viareggio, gli faceva da guida e compagno un certo Pagliuca, un meridionale trapiantato in Toscana, simpatico, e già studente proprio al Magistrale di Santa Chiara dove si teneva la Mostra. La vedova, la buona signora Giulia, indirizzava delle lettere ringraziandoci per l’amore che portavamo alle disperate e grandi creature del suo Lorenzo e proponendoci per la cessione delle tele prezzi dalle cifre condizionate familiarmente. Ma allora i Viani non si vendevano, nessuno li comprava, e noi che ne avremmo amati e comprati a centinaia… non avevamo soldi. Due lire alla settimana per i vizi, tanto passava il convento, ed era molto; ecco il mio e nostro disponibile a quei tempi.

Ed a Santa Chiara avevamo dei Viani superbi, oggi del valore sul mercato dai 10 ai 12 milioni, se non più.

« La Processione dei pazzi di Fregionaia » ed il grande « Ex Voto » erano a portata di mano, si potevano avere per 400 lire. Mi chiedo ora e m’interrogo se era possibile e vero, e come mai non riuscimmo a trovarle quelle 400 lire da un fortunato mortale disposto a regalarsi un quadro e divenire proprietario di uno di quei tesori; la nostra eloquenza e accesa persuasione battevano sordo, nel vuoto, ed a mostra finita i Viani, tutti, ritornarono a Viareggio. Il solito medico intelligente si comprò una pietra di Quinto Martini: « La sete », ed a quella mostra si venderono dei Faraoni, dei Cirri, un Dreoni, ma Viani, allora, faceva paura, era quello della « piazza delle paure » di borghese scandalo; e com’era possibile metterselo in casa?!  La  scelta  e  la  previsione  dei  valori  il  più  delle  volte  possono intuirla gli « squattrinati », chi ha il grano però non ha le sacca, e gli squattrinati non hanno possibilità di acquisto: persuasione e fede non sono moneta, non si possono investire; lo so che i « previsori », gli anticipati sul corso dei tempi, in fortunati casi hanno oggi degli amici disposti a far credito, a rischiare e impegnarsi; nel ’40, o giù di lì, non ne avevamo.

 

(8)  « In collaborazione con Gemignani restauro e in parte rifacimento del soffitto settecentesco del Duomo di Empoli, la parte rifatta ex nuovo sarà circa m. q. 320 »; vedi a riguardo la precedente nota 5 sulle opere a buon fresco dipinte da Carmignani per edifici sacri. « Il soffitto della Chiesa assai bello come lavoro di prospettiva, terminato nel 1763, era opera di Giuseppe Del Moro e Vincenzo Meucci; rappresentava  il  trionfo  di   Sant’ Andrea ».   (Empoli  artistica  di  Ettore  Bucchi; « Floralia » numero unico edito a cura del Comitato per la II Grande Esposizione Campionaria Nazionale in Empoli, Maggio-Giugno MCMVII).

 

(9)  Forte di un’esperienza biennale il Circolo Amatori nel ’59 eleggeva il nuovo consiglio così composto: Presidente: Ruffino Sani; consiglieri: Dilio Masini, Erone Taddei, Mario Ciampolini e Furio Sordi.

La stagione del ’59, ospitata nelle Sale della « Pro Loco » al Palazzo Ghibellino, vedeva le personali di: Baragatti, Silvio Polloni, Orlando Lensi, Cecchi, una « mostra sociale » e l’altra « estempore » tenuta a seguito della gita a San Gimignano. Nel ’60 si riapriva con Zoboli seguito da Renato Gonnelli, Mannucci, Maíni, Lotti, Rossi Amleto, Bagnoli, Grazzini, Nuti, Trifoglio, Gayoni.

Il marchand de tableaux, Michaud di Firenze, teneva per invito del Circolo una collettiva di «  Maestri della pittura contemporanea »  con opere di sua proprietà.

Si riprendeva col ’62 ed era di scena Venna seguito da Renato Rosselli, Terreni, Giani, Sedoni, dallo scultore senese Tammaro, dal pittore ceramografo Miniati e da Filannino. In chiusura la mostra sociale dopo la gita a Lerici.

Per invito del Circolo la « Galleria Santacroce » portava nelle Sale del Palazzo Ghibellino uno scelto gruppo di opere dei suoi artisti.

1963, Personali di Filidei, Faraoni, Sedoni, Rolando Viani, Alfredo Fabbri, Riesch, Tassi, Otello Pucci, Gemignani, Fucini, La Mostra del Treno S.G. 4917, Renato Alessandrini, Carmignani, e la « mostra sociale » dopo la gita a Calafuría.  Nell’Autunno la stagione era inaugurata da una bella mostra del vagero, poeta caro a Viani e pittore viareggino, Krimer.

Il nuovo anno vede il numero dei soci fermo a 56 in regola con le quote sociali di prammatica. Il Consiglio Direttivo della Biblioteca Comunale di Empoli svolgeva nel tempo 1957-’63 il seguente programma di Mostre:

 

MOSTRE DI PITTURA E SCULTURA

allestite nella Sala Maggiore della Biblioteca Comunale di Empoli

 

1957

– Rafo (Raffaello Fossi) di Signa.

– Antonio Romagnoli di Empoli – Pitture e sculture.

– Virgilio Carmignani di Empoli.

 

1958

9.3.1958 – Mostra retrospettiva del Prof. Nello Alessandrini.

13.4.1958 –   Mostra  collettiva  di  due  pittori  e  di  uno  scultore  del  gruppo

« Primordio  »: Bashir, Rapisardi e Madonia,

18.5.1958 – Enzo Faraoni di Firenze.

15.6.1958 – « Prima rassegna degli artisti toscani » (Bruno Bagnoli, Luigi Bini, Ugolina Bini, Corrado Carmassi, Virgilio Carmignani, Giovanni Cecchi, Dino Cioli, Emilio Cioni, Nannetta Del Vivo, Enza di Pentima, Giovanni Donati, Antonio Ferretti, Raffaello Fossi, Renato Gonnelli, Silvano Insalati, Elisa Mancini, Cammillo Maniscalco, Alberto Mantelli, Elio Montanelli, Gyula Nagy, Enzo Pertici, Giampiero Peruzzi, Renato Rosselli, Adolfo Scardigli, Giuseppe Serafini, Aldo Terenziani, Gino Terreni, Angiolo Vezzosi).

29.6.1958 – Mostra dei pittori empolesi Duilio Borgioli, Enzo Bellucci e Rolando Gasparri.

 

1960

8.5.1960 – Piero Gambassi di Empoli.

3.9.1960 – Mostra d’arte contemporanea (Ugo Attardi, Ennio Calabria, Armando De Stefano, Fernando Farulli, Alberto Gianquinto, Piero Guccione, Renato Guttuso, Titina Maselli, Marcello Muccini, Aldo Natili, Leonardo Papasogli, Anna Salvatore, Renato Santini, Alberto Sughi, Renzo Vespignani, Tono Zancanaro, Alberto Ziveri).

 

1961

25.2.1961- Sergio Tomberli di Firenze.

14.5.1961 – Mostra dei pittori fiorentini appartenenti al gruppo « Nuova Corrente ».

9.9.1961 – Mostra retrospettiva del pittore empolese Dante Vincelles.

4.11.1961 – Giorgio Mori di Firenze.

 

1962

1.2.1962 – Osvaldo Meniconi di Carrara.

11.3.1962 – Antonio Romagnoli di Empoli. Pitture e sculture.

6.5.1962 – Antonio Porto di Firenze.

3.6.1962 – Mostra dei pittori empolesi Alberto Mantelli e Vincenzo Martini.

31.10.1962 – Prof. Antonio Trifoglio di Empoli.

29.11.1962 – Prof. Gino Terreni di Empoli.

22.12.1962 – Mostra collettiva dei pittori esordienti Lino Genti, Vittoria Contardi, Adolfo Nencioni e Tina Sandroni.

 

1963

17.2.1963 – Collettiva dei pittori Mario Asprea, Romano Bonífazi e Umberto Marzola.

17.3.1963 – 7a Mostra Gruppo Autonomo Pittori Fiorentini (già Oltrarno).

1.6.1963 – Esposizione di un gruppo di Artisti aderenti alla Associazione Unitaria Artisti Toscani.

14.9.1963 – Gregorio Servello di Firenze.

16.10.1963 – Mostra collettiva dei pittori esordienti Tamara Alderighi e Luciana Capaccioli.

27.10.1963 – Mauro Masoni di Empoli.

23.11.1963 – Mauro Conti di Sesto Fiorentino.

 

1964

18.1.1964 – Collettiva degli alunni del Liceo Scientifico di Empoli.

13.2.1964 – Giuseppe Furrer di Pescia.

 

(10)  Se fosse possibile precisare attraverso le statistiche, ammessa la veridicità e rispondenza reale delle stesse, l’influsso e l’apporto dei vari fattori al risveglio dell’interesse artistico ed al consumo del prodotto stesso nell’epoca nostra, allora ci potremmo rendere conto dell’incidenza dei musei e della critica d’arte intesa quale disciplina scientifica sul gusto, non sul gusto degli iniziati o degli specialisti, ma sulle graduabili scale di coloro che portano amore al fatto, s’interessano e collezionano opere d’arte.

Il Museo di Empoli, già noto ai cultori sin dalla sua costituzione, alla riapertura nel dopoguerra, per le amorevoli cure degli architetti ricostruttori e degli ordinatori Procacci e Baldini, è ritornato ad essere, potenziato, un centro di ricerche e di studi notevolissimo, di segnalata attrattiva. Quanti sono gli Empolesi che lo visitano, lo frequentano e ne studiano le opere?

Quanto il Museo influenza la più vasta opinione pubblica nell’apprendimento e nella conoscenza? Quanto incide sulla cultura del popolo e del ceto medio? Quanto su coloro che non comprano e non collezionano, ma discutono assai di frequente e s’affannano, più spesso di quanto non s’immagini, a fatti di estetica e a figure dell’arte, in sospeso tra la cronaca e la storia?

Le statistiche, da farsi, non ci aiuterebbero molto, e le « settimane dei Musei » e le facilitazioni di ogni genere non incidono profondamente sulle masse cittadine o suburbane; fino ad oggi la massa – ancora e purtroppo – s’appassiona agli eroi rotocalcati, ai  « pittori maledetti » in cinemascope, alle diffusioni culturalistiche e distorte, ed anche questo enorme e potenziale lavoro non è – certamente – un macinare a vuoto, tutto e soltanto in perdita,

Per quel gioco dell’idee e controriversibile di cause e di effetti, di necessità e di aspirazioni, la attuale cultura di fondo, classificabile al livello post-elementare, elevandosi anche per l’apporto dei passatempi educativi come la stampa, i mezzi della visione, ecc., potrà contribuire ad una più responsabile comprensione dell’arte antica e moderna, e divenire cosciente affermazione delle necessità di difesa dei nostri tesori culturali e di paesaggio, varrà entro i termini utili dell’usura questa promozione popolare al godimento dei fatti dell’arte?

Me lo auguro, così come proprio auguro ai miei connazionali che i mezzi di diffusione e di informazione non tendano al costante tono basso della cultura popolare, adattandosi inertamente alla stessa, ma che contribuiscano, spingendo in avanti coscientemente il popolo, al possesso ed alla fruizione dei beni dello spirito e della cultura.

 

(11) Io penso, nello spirito della verità, essenziale sul piano di un esame non sommario dell’Arte toscana, che anche la nostra giovanile vicenda –  non un semplice e culturale recupero – innestata come essa fu alla « patria senza frontiere» dello spirito, tra il ’30 ed il ’40, e culminante con 1a « Seconda Mostra » alla Sala d’Arte de « La Nazione » (Febbraio Marzo ’40), sia di diritto da rapportarsi (e considerarsi entro) al Rinnovamento dell’Arte in Italia 1930 – 1945.

Il catalogo che va sotto questo titolo e si propone di chiarire tale assunto, redatto a cura di Eugenio Riccomini ed edito in occasione della mostra ferrarese di casa Romei (giugno-settembre 1960), pubblicava gli scritti introduttivi di Raffaele De Grada junior, Antonio Del Guercio, Virgilio Guzzi e Franco Russoli.

Al carissimo informato Guzzi, certamente, delle faccende dell’Arte toscana attive fuori della vicenda Soffici-Rosai, o della vicenda Viani-Carlini, non fu passato l’incarico di parlare e passi anche la non informazione per il mezzo toscano De Grada, ma Franco Russoli, pisano, doveva essere a conoscenza dei nostri fatti, e se vogliamo giustificarlo per la sua giovane età in quella stagione di punta, doveva sapere che il Viviani aveva preso le mosse « attonite» da diramazioni non dissuete, ed il Marcucci, apprezzabilissimo, dopo il periodo d’incubazione viareggina, era sbarcato a Firenze alle soglie del ’40.

E proprio in quell’anno ’40, alla Sala d’Arte della Nazione, facendo seguito alla Mostra dei Maestri Carrà, Tosi, De Chirico, ed altri si tenne una seconda Mostra di apertura sull’avvenire, dal 24 Febbraio al 9 Marzo, presentando gli impegnati giovani Alessandrini, Boccacci, Ciani, Faraoni, Lotti, Ravazzi, Varyas, con un complesso notevolissimo di opere, in un avvenimento che scavò a fondo nell’interesse della critica e dell’opinione pubblica.

Agli amici critici Mario Novi e Umberto Baldini, che beati loro a quei tempi non potevano essere informati, ci permettiamo di suggerire il reperimento delle Gazzette e delle riviste dell’epoca, nonché la ricostruzione e comprensione di quelle singole storie, e dei testi, alcuni dei quali importantissimi, purtroppo distrutti, e dei cataloghi rari legati a quell’operare.

Capisco  come  oggi  rimane  difficile  ricostruire  i fatti al « vivo » e rendersi conto dell’importanza non stagionale, ma storica, di quella nostra non modesta vicenda giovanile. Con il catalogo della Mostra del Treno S.G. 4917 ci auguriamo di aver offerto agli amici critici questo più ampio e documentato canovaccio con la viva speranza di averli, con la loro autorità, nella partita del giusto recupero di quei valori.

Tanto per non fare nomi, quando il sottoscritto dipingeva il « Ritratto di Spinacino», (1932, Firenze coll. Leonardo Lapiccirella), qualche grosso nome (vedi Guttuso) era ancorato all’Accademia novecentesca del « San Sebastiano », ed il gruppo di opere « La Paura », « La levatrice »,  Il campo stregato », « Paesaggio tragico », « Crocifissione », « Cristo deriso », « La bambina e Pinocchio », già siglate nel ’35, risultano in anticipo di un paio d’estati sui sommovimenti vanghogghiani milanesi di « corrente », di ciò scrisse a suo tempo anche il Vagnetti, ed io ciò comunicai a Longhi, se precisazioni si debbono fare.

E quanto il Maestrelli, Raffaello Ciani, l’Alessandrini, R. Lensi e Faraoni, in quel tempo agissero con stimolanti e diversificate personalità in questo senso, ed in clima aperto, liberi dai paraocchi dello « Strapaese », sarà chiaro dalla connessione possibile delle nostre opere e dei nostri interessi all’esame di una critica più avvertita.

In seno all’ambiente artistico empolese agiva questa nostra deviazione di punta e lo stesso Carmignani giovane, ce lo dice Sineo e lo confermano gli « Autoritratti », amava il Kokoschka, il farsi europeo della scelta drammatica della vita e dell’Arte postulata dall’espressionismo.

Anche le acqueforti di Lotti « lo sono un evaso », « Viva Guerra » (il ciclista, beninteso!), e 1a serie preziosa di quelle incisioni realizzate spesso in una sola copia e stampate con l’aiuto di Tarchiani tra il ’35 ed il ’37 a Porta Romana, fu stimolante per le scelte dei sunnominati Alessandrini, Faraoni e Farulli, più giovani del sottoscritto e vicini a lui nel quotidiano lavoro di quegli anni fertili.

Il nostro operare ribelle pubblicato ufficialmente nelle Sale de  « La Nazione » fu cosa grossa per i tempi, e soprattutto valida, perché primieramente alcuni di noi avevano delle cose umane, importanti, da dire. E le dissero saltando a piè pari situazioni regionali e nazionali allora stagnanti e rifacendosi direttamente alle testimonianze di Van Gogh, Ensor, Goya, eletti a maestri; non lavorarono cioè di testa, per fredda violenza culturale o politica.

Le loro scelte personali a quel mondo convergevano, e le risposte-opere, che ne dettero, risultano oggi tra le più persuasive e cariche di significati udite in casa nostra in quel decennio.

***

(N.d.A.) Il presente studio doveva essere stampato, a suo tempo, corredato da circa 50 schede biografiche riferite agli artisti:

Alderighi, Nello Alessandrini, Renato Alessandrini, Antonini, Bagnoli, Baragatti, Carmignani, Chiti, Ciani, Cioli, Cirri, Del Vivo, Donati, Falomi Gianfranco, Falorni Quirino, Faraoni, Filidei, Fucini, Gayoni, Gemignani, Ghezzi, Giani, Lensi Orlando, Lensi, Lotti, Maestrelli, Martini, Masoni, Mazzoni, Morelli Luigi, Morelli Nino, Pettinati, Piccini, Romagnoli, Rosselli, Rossi, Scaramelli, Scardigli, Sedoni, Taddei, Terreni, Tognetti, Trifoglio, Tuti, Vezzosi, Vincelles.

Ciascuna scheda biografica, caratterizzata da una illustrazione, completa secondo le notizie fornite direttamente dai protagonisti viventi, da amici e familiari, o frutto di personali ricerche, ha acquistato nella redazione finale l’importanza di un documento di vita e di attendibilità critica tale da consigliarne la completa pubblicazione al prossimo numero.

Al lettore ed al ricercatore interessato consigliamo la scarna bibliografia costituita dalle impostazioni dovute al sottoscritto:

« Empoli-Firenze, Treno S. G. 4917 », Caparrini, Empoli, 1963 pp. 15 con XXX tavv. f. t.

« Filidei o della Scultura » catalogo della Mostra personale dello scultore rosignanese allo « Sprone », Firenze, Giugno 1964.

Bardi, 26 Luglio 1964

 


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