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EMPOLI, PALAZZO GHIBELLINO

1977

 

Adriano Seroni al premio Pozzale di Empoli. 1949. Foto dal Fondo Fotocine proprietà di Michele Iacuzzo.

 

 

RIFLESSIONI…

di Adriano Seroni

 

Accertato come dato obiettivo il segno della fine, o di un mutamento d’epoca, di cui è componente non trascurabile il concludersi del capitolo intitolato alle «arti figurative» ritengo che, a chiarirne la portata siano finalmente necessari interventi  di  minuta  e seria   ricerca  sulle  vicende  e  i modi di essere di quel «figurativo» appunto, che se oggi non può essere riproposto come canone d’arte e neppure come semplice dato di riferimento per fare arte, è tuttavia parte di una cultura da rivisitare.

Ma da rivisitare non solamente ai vertici imposti all’attenzione dalla critica o dal mercato: bensì nella complessa, spesso sfuggente, talora travagliata, sempre dispersiva e frantumata, fenomenologia, che si può centrare soltanto rifacendosi alla « cronaca », senza dubbio alle realtà regionali. In altre parole: una storia del « figurativo » che caratterizza in Italia la maggior parte della produzione artistica della prima metà del nostro secolo o meglio fino agli anni ’60 ha da essere, pena infiniti equivoci anche nell’attribuzione dei valori, una storia regionale.

Si dovrebbe, cioè, procedere nella pratica della storiografia artistica con gli stessi criteri di ricerca che hanno aperto la strada ad una nuova storiografia politica. Una sintesi storica che ignori le realtà locali e regionali, insomma, non solo è arbitraria; ma la stessa sistemazione e valutazione di scuole, correnti, influenze rischia di esser vista attraverso una lente deformante.

Si tratta indubbiamente di un procedimento che incontra difficoltà già sulla linea di partenza: se lo stesso reperimento, o quanto meno l’uso, degli stessi cataloghi delle mostre locali e regionali è difficoltoso e se, una volta reperiti i cataloghi, ti trovi in genere di fronte a presentazioni critiche gravi di retoriche apologie,  di  insopportabili  rivendicazioni  di «salute» o  di «umanità»  o di «comprensibilità» opposte alla «malattia», all’astrazione, all’«incomprensibilità» che tradizionalmente vengono attribuite alle avanguardie.

Punto di partenza, dunque, necessario anche se non sufficiente per un’operazione del genere è la documentazione; ed è quindi da salutare come positiva ogni iniziativa locale che tenda a riproporre documentariamente frammenti spesso dispersi e non ritrovabili per una consultazione adeguata nelle pubbliche gallerie, di un’attività artistica che rischia perciò d’essere tagliata fuori da ogni ricostruzione storica di un quadro generale.

Sono queste le ragioni fondamentali per cui ho accettato di presentare brevemente l’iniziativa del Circolo amatori arti figurative di Empoli, che ripropone prodotti selezionati di sei operatori artistici di origine empolese o ad Empoli prevalentemente operanti a far data dai primi anni del nostro secolo fino agli anni ’70 e il cui lavoro è stato contrassegnato da varia e diversa fortuna vuoi di mercato e di diffusione, vuoi di critica. Gli operatori in parola, dei quali tuttavia non spetta a noi di trattare in modo particolare, sono Dante Vincelle, Nello Alessandrini, Mario Maestrelli, Cafiero Tuti, Sineo Gemignani, Amleto Rossi.

Ora io non so se gli amici empolesi riusciranno fino in fondo ad evitare a questa loro iniziativa i consueti toni della commemorazione e dell’autocompiacimento; mi auguro tuttavia che il loro lavoro e la loro proposta culturale giovino comunque ad allargare le fonti di conoscenza di un contesto generale tipico del figurativismo della nostra epoca.

Un punto di riferimento certo è ad ogni modo disponibile per una operazione del genere, ed è lo stretto collegamento della produzione di questi pittori con quella realtà che si chiama « artigianato »; a segnare un discrimine abbastanza netto tra il figurativo e la situazione che si è aperta in Italia, in notevole ritardo rispetto al contesto europeo, all’aprirsi stesso del secondo cinquantennio del secolo. Si tratta, in altre parole, di prodotti d’arte che rispecchiano in modi varii e spesso contraddittòri una società agrario/industriale di cui l’artigianato è tratto distintivo non meno, per quanto attiene alla Toscana, della mezzadria con le immagini paesistiche ad essa connesse.

Ciò non vuol significare affatto che  si  abbiano  da  trascurare i dati risolutivi o « poetici » di prodotti talora di livello (l’indagine estetica fa parte, del resto, dell’epoca del prodotto artigianale e della pratica dell’artigianato, stavo per dire della sua ideologia) o i collegamenti con tendenze o artisti operanti a livello nazionale ed europeo, nonché quella costante che è stata per il figurativismo italiano, non meno che per certe avanguardie, il rapporto con Parigi.

Ma vorrei insistere sulla matrice artigiana, con tutto ciò che di manualità il concetto e il riferimento esattamente interpretati includono, e non escluso la funzione di controllo della pratica artigianale sugli scatti stessi della fantasia, dell’istinto, dell’oniria.

Il discorso tende a farsi generale. E’ un’occasione, questa, che non voglio lasciarmi sfuggire per ricordare che non desterebbe più tanto scandalo l’affermazione della fine forse irreversibile del «figurativo», se si tenesse presente il fatto che anche l’artigianato tradizionale fondato sui rapporti mano/occhio/colore non è più; che si è anche inesorabilmente chiuso anche il momento di una relativa meccanizzazione dello stesso; che, insomma, e nel bene e nel male, viviamo nell’epoca del nucleare, dei cervelli elettronici, dell’automazione e dell’informatica, e che il nuovo salto qualitativo umanistico che tutti ci auguriamo andrà compiuto partendo da tali nuove realtà e non abbandonandosi al vagheggiamento elegiaco d’impossibili ritorni.

Vorrei perciò suggerire agli amici di Empoli di puntare, per questa e per future loro iniziative, sulla possibilità di fornire ai frequentatori della mostra, e particolarmente ai giovani, tutti i possibili dati per una lettura critica, che allontani da loro il sospetto che gli si voglia proporre esempi da seguire, lezioni da imparare, « buona arte » da imitare, anziché dati di conoscenza da utilizzare per la loro formazione.

Anche perché la formazione artigianale di questi operatori, il loro culto della manualità e del colore, il loro rapporto con una natura ormai scomparsa, è difficile e riproporli e riprodurli. Ogni volta che, nel mio studio, mi vien fatto di alzare gli occhi ad un frammento del Comizio di Sineo Gemignani (si tratta della mia immagine, cui Sineo si riferì per la figura del comiziante), resto sorpreso dalla ricchezza coloristica che la patina del tempo ha aggiunto a quel frammento d’affresco; appunto come avviene al prodotto artigiano nobile la cui stessa materia si arricchisce col tempo anziché spegnersi o svanire nell’anonimato.

E se può valere il rapporto talora istituito fra Vincelle e il Doganiere, non c’è forse alla base dell’operare e dell’uno e dell’altro la fattura artigiana del prodotto? E la allucinata oniria di Maestrelli non ci rimanda forse a quel che di «bizzarro» era presente nella nobile tradizione artigiana, nella figura stessa, nella personalizzazione mitica dell’artigiano di un tempo? E la caratterizzazione della « toscanità » non rinvia ad una tipicità artigiana, che se ad essa non ti riferisci, rischi di non capire neppure gli artisti che la selezione della critica o del mercato ha indicato di maggior statura? (si pensi, tanto per fare un solo esempio, all’artigiano Ottone Rosai).

Per quanto attiene al riferimento «artigianato toscano», vorrei ancora avanzare l’ipotesi che la caratteristica «non fortuna» dell’artista operante in Toscana e che è tipica degli artisti presenti in questa mostra, possa derivare anch’essa dal dato artigiano, che, anche quando tende al «bizzarro», finisce poi per reagire alle cose con un ben noto equilibrio: è forse tale equilibrio che trattiene l’operatore artistico toscano, ai tempi qui esemplati, di fronte alla sperimentazione, vorrei dire al limite di essa: non so se si tratti di un timore di lasciarsi prendere da essa (la paura del «salto nel buio») o appunto di un equilibrio consapevolmente perseguito e praticato fra tradizione e sperimentazione. (Alla fine, il segno di una minorità dei macchiaioli di fronte alla contemporanea pittura francese, che pure essi conobbero e frequentarono, non dipende da ciò?)

Vorrei ripetere ancora una volta, a scanso di equivoci, che i temi di ricerca qui indicati non vogliono essere i soli ed esclusivi che interessano: i rapporti dei pittori presenti in questa mostra con personalità dell’arte o con correnti, tendenze, scuole non sono certo dati da trascurare (influenze morandiane, sofficiane, careniane; manifestazioni di tonalismo, o, all’opposta sponda, di neorealismo si possono catalogare per i varii artisti qui esposti); così come può essere utile una ricerca sulla frequentazione da parte dei singoli degli artisti antichi, che è quanto dire sulla formazione artistico/culturale dei diversi soggetti.

Ma qui entrano in giuoco dati di formazione scolastica. A me interessava invece porre in rilievo la possibilità che si offre agli organizzatori di questa iniziativa di andare verso la fondazione di un centro di ricerche sull’arte locale che estenda il proprio orizzonte allo studio e alla ricerca delle forme artigianali, della cultura mezzadrile, dell’artigianato del vetro e via dicendo.

Queste riflessioni sull’iniziativa degli amici empolesi potranno sembrare forse troppo lontane da un discorso sui « valori » dei quadri esposti nelle salette del Palazzo Ghibellino. Ma costituiscono il più utile contributo che mi è possibile offrire all’iniziativa.

Ripetendo e concludendo: un lavoro di ricerca, di approfondimento, di costruzione d’una storia regionale della cultura è ciò di cui oggi abbiamo bisogno; ed è, alla fine, l’unica operazione che possa giovare alla conoscenza di una vicenda toscana delle arti figurative, l’unico modo forse di fare uscire da un ambiente chiuso quale ancora si rivela quello fiorentino e toscano dati e riferimenti, di aiutare chi opera in tale ambiente a superare sia i limiti che i miti della «fiorentinità» o della «toscanità».

 

Adriano Seroni

Roma, luglio 1977

 


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