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Anton Domenico Gabbiani, Oratorio della Compagnia della Croce, Santagostino, Empoli

 

Sabato 21 Marzo 2015, in anticipo sul programma, si è tenuto l’atteso incontro con lo storico dell’arte Riccardo Spinelli. L’ambito è quello de “I luoghi e la città”, al Cenacolo degli Agostiniani, una serie di incontri di approfondimento e diffusione di cultura artistica locale, tenuti da specialisti di chiara fama e curati da Cristina Gelli.

Specialista del periodo dal 500 al 700, in particolare di area fiorentina e del collezionismo mediceo, Riccardo Spinelli è stato con Antonio Natali il curatore della mostra sul Gran Principe Ferdinando, che qui ricordo in un video della Rai.

Fu grazie a questa mostra, benedetta, per la quale fu richiesto il trasferimento in prestito a Firenze della pala d’altare del Gabbiani che sta in Santagostino, che si pervenne alla bella scoperta dell’affresco, d’autore ancora misterioso, che stava sotto la tela del Gabbiani, copia data in cambio ai confratelli della Compagnia della Croce, nell’ambito della trattativa intercorsa fra l’emissario di Ferdinando, Filizio Pizzichi. Abate, cappellano di corte, pittore a tempo perso, illustratore di testi scientifici (del grande Francesco Redi), e pure scacciademòni. Lo troveremo ancora sulla nostra strada, prossimamente. Ma intanto, è da dire, fu lui a portarci via il nostro bel Cigoli, in cambio di 600 scudi d’oro, di promesse d’aiuto in bèghe con i frati, padroni di casa in Santagostino, poi non mantenute, e la copia peraltro magnifica del pittore di corte Gabbiani.

Data la vicinanza dei luoghi, sarebbe stato interessante una visita finale nell’oratorio della Croce, a due passi dalla ex mensa degli Agostiniani, dove le due Deposizioni stanno una di fronte all’altra: quella del Cigoli, copia stampata e riprodotta su tela a grandezza naturale, e l’altra, la copia del 1690 del Gabbiani, di cui si parla. Ma Santagostino era chiusa e non se n’è fatto di nulla. Peccato, sarebbe stato interessante veder le differenze; anche perché dalle foto presentate a corredo, di qualità non eccezionale, non si è capito moltissimo. Ma ci sarà il tempo e il modo di farlo, in un’altra occasione.

Ma la parte a parer mio più interessante della conferenza, è stata quella dove la figura di Ferdinando, Gran Principe erede al trono, speranza non realizzata del Granduca Cosimo III suo padre e della Toscana tutta, è stata raccontata con vivacità e documentazione d’immagini; e la vera passione di collezionista del bello dell’esponente della famiglia dei Medici è emersa pienamente. Opere come la “prima” Pala Dei, la celebre Madonna del Baldacchino, dipinta nel 1508, ma non finita, da Raffaello, e che fu rifiutata dalla famiglia Dei perché non terminata, finì a metà 500 a Pescia. Era un caposaldo del Rinascimento fiorentino, e Ferdinando la volle assolutamente. Non badò né a spese né a furori di popolo, che pure ci furono. Se la portò a Firenze, in collezione. Dando in cambio, oltre a una somma enorme in fiorini d’oro, anche il solito cadeau, la copia fatta eseguire da pittori di corte.

E siccome aveva anche il gusto dei paragoni e dei confronti, la fece adattare da pittori di corte e la espose a confronto della pala di Fra’ Bartolomeo, il Salvator Mundi con gli Evangelisti, che già possedeva. In pratica fu alzata, con l’aggiunta di una nicchia a cassettoni, tipica del Rinascimento fiorentino. Cosa che fece fare anche alla ‘seconda’ Pala Dei, quella commissionata al Rosso Fiorentino. L’originale creazione del Rosso fu ampliata da tutte le parti per confrontarsi con altra opera, per creare un pendant, per dirla coi francesi.

Questi ritocchi, è da dire a parziale difesa dei criteri, oggi ovviamente discutibilissimi, del Gran Principe, erano lasciati a vista e identificabili, con il virare leggero dei toni o la linea della giunzione lasciata a bellavista. In sintonia con i moderni criteri del restauro, dove le parti ricostruite o più pesantemente ritoccate, sono sempre lasciate ben visibili. Ingrandire per motivi di confronto fra maestri e scuole di pittura, ma lasciando sempre la forma voluta dal primo artefice. Era un modo di metterci del suo, da parte del Gran Principe, per la gioia e gli occhi dei suoi amici e della sua corte.

Un altro aspetto che Riccardo Spinelli ci ha opportunamente evidenziato, è il “marchio” di fabbrica che sempre le opere accolte a Palazzo Pitti si guadagnavano. Una cornice dorata, ricchissima, eseguita da artisti intagliatori, che davano unità e seguivano le scelte del collezionista. Quando affiancava, ritoccando magari le dimensioni, due opere, faceva in modo che questa scelta fosse identificata dall’impiego della stessa forma delle cornici.

E infine le cifre, che sempre danno peso e sostanza alle cose. Furono oltre 1.100 le opere raccolte da Ferdinando, enumerate alla sua morte negli inventari di corte. Di valore variabile, ma tutte scelte e selezionate con cura e conoscenza personale, che rimangono oggi sulle pareti dei Musei fiorentini, come perle e ricordo di passione per l’arte e amore del bello.

E se non fosse morto a 50 anni, nel 1713, per la desolazione e il dolore di tutta la Toscana, di sifilide, che si era presa in regalo da qualche dama, durante un suo viaggio a Venezia, chissà cosa d’altro avrebbe portato a Firenze.

Niente e nessuno lo avrebbe mai fermato.

E se fosse arrivato alle redini del Granducato, sicuramente Firenze avrebbe avuto una sorte diversa da quella che ebbe, nelle fragili mani di Giangastone, il fratello minore e pieno di debolezze, dal carattere fragile e influenzabile dai cortigiani senza scrupoli.

Paolo Pianigiani


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