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Presentazione della mostra personale di Paolo Pianigiani

Soave (Verona)

 

di Giancarlo Calciolari

 

L’indagine di Paolo Pianigiani è volta alla qualità assoluta e non al segno: è il segno che s’instaura nella sua originarietà lungo l’indagine di Pianigiani, sino al paradiso, l’altro nome del giardino del colore e del tempo. Un’opera che giunge alla formula, al dogma, alla cifra, alla qualità senza l’intento di dover sollevare lembi d’informulato, come molti informali tentano di fare.

(27.06.2006)

 

 

 

 

Paolo Pianigiani nasce e cresce artisticamente tra informali, astratti e concettuali e lo testimoniano i suoi scritti d’arte, come quelli su Luigi Boni e su Pietro Dorazio, ma integra queste lezioni e la cifra della sua opera non è decifrabile tornando (operazione per altro impossibile) alle sue sorgenti.

Il ri-nascimento è la seconda nascita di cui ci parlano i miti greci e quelli moderni, tra i più recenti quelli inventati da Armando Verdiglione e da Giuseppe Pontiggia.

Ecco, le opere di Paolo Pianigiani ciascuna volta rinascono originarie, fonti inesauribili, ben oltre la funzione di decoro per il tempo di una stagione, partecipando alla celebrazione della vita, non della morte, come si può trarre dalla lezione di Felice Naalin.

Paolo Pianigiani non ha bisogno di risalire all’archetipo della dimensione espressiva che si schiude, agli ordini dell’algebrista Martin Heidegger, che tanti esecutori geometristi delle sue teorie ha trovato e trova in vari scorci di secolo.

Non ha la vanità di dire le cose che ancora non ci sono perché il suo operare artistico è una dimensione del dire. Paolo Pianigiani, per quanto abbia composto e componga rare opere, è da leggere con libertà e leggerezza nel suo mito del gerundio: dicendo, operando, facendo, dipingendo, costruendo.

E certamente, per ciascuno, rimane insondabile il dove la pittura fa vortice e, nel suo originario valore di produzione, il tono dell’incontro è la sua cifra, in rinnovata meraviglia.

 

Paolo Pianigiani, “Labirinto armonico bianco”

 

Nel giardino del colore di Paolo Pianigiani l’albero è di vita. Il segno di vita è l’albero, la logica. Lo zero è la radice, inestirpabile, pena di rompere l’uno in due qualora lo si tirasse. L’uno è il tronco. Transfinito è la chioma, i rami e le foglie. La terra è il due, l’apertura, la zolla. Il cielo è il dieci. Il paradiso è l’altra faccia del numero, l’aritmetica. Quindi non c’è più chi possa credere che le tessere di un mosaico monocromo indichino l’attuale sfacelo sul quale occorrerebbe aprire gli occhi come la sola possibilità di rinnovamento, come pensava Samuel Beckett. La monocromia è il pretesto per indicare il segno nella sua elementarietà. Segno di vita: zero, uno e transfinito.

Paolo Pianigiani producendo un’opera, ossia inventando, introduce un senso che prima non esisteva. Il lettore, più che lo spettatore, rischia appunto leggendo l’apparir del vero di imbattersi nella verità come effetto, in una distanza infinita dal pericolo d’incappare in esperienze di verità sopite, avvertite come una minaccia. L’opera di Paolo Pianigiani produce un’effettiva trasformazione, come quella cercata e trovata da Francis Bacon. Questa è l’influenza artistica, che non è mai plagio, contaminazione, infezione, telepathos.

Una materica perlustrazione del giardino, peraltro insondabile, offre l’infinita tessitura del labirinto; e nel suo disegno preciso, dove ogni tratto è insostituibile, conta il cielo che lo sovrasta, leggero, senza più i presagi invocati dall’angelo di Klee, il cui sguardo è rivolto all’indietro.

 

Paolo Pianigiani, “Labirinto bianco solarizzato”

 

Non è facile leggere l’arte moderna, in particolare l’opera di Paolo Pianigiani. C’è chi si chiede se sia ancora necessario descrivere con precisione l’alternanza tra sensibilità e intelleggibile che dà vita all’opera. L’inintelleggibilità dell’opera moderna – come assolutamente moderna è quella di Paolo Pianigiani – serve forse a intaccare la facile intelleggibilità della produzione di massa?

Il giardino del colore di Paolo Pianigiani spinge il sentire e il pensare ad attrarsi e a respingersi, instaurando un dispositivo che poggiando su piani diversi ma non inconciliabili, si spalanca su una terra incognita da mappare. Ma la mappa non ricopre la cosa da mappare. Nessuna conoscenza del giardino del colore di Paolo Pianigiani: nessun comitato elitario della comunità degli interpreti può limitare l’interpretazione delle sue opere.

Il colore e la spirale. L’oro di Colombo e la striscia di Moebius. Il frutto dell’albero e il giardino. Nel giardino del colore di Pianigiani l’albero è originario. La sua radice inestirpabile. Occorre viaggiare nel giardino del colore sino a confrontarsi con il limite e la frontiera del tempo, di passo in passo, di piede in piede, a conferma dell’insensatezza di qualsiasi limitazione e di qualsiasi affronto.

Il paradiso, l’altro nome del giardino, è intriso di tranquillità, anche dal nero al nero su una pagina di colore nero, come nel Labirinto nero, dove il nero è colore, come in Pierre Soulages e in Luigi Terrini.

La pittura di Paolo Pianigiani torna nel lettore come pensiero, e l’influenza artistica, oltre le fantasie di plagio, scioglie la lingua dei litiganti, quella degli anti-artisti, sospingendola verso l’interrogazione libera, non fondante.

La lingua doppia della normalità (e dell’anormalità come suo limite umanissimo) si scioglie in infinite stringhe che vanno a intessere la trama autentica della vita. Anche dal bianco al bianco sopra una pagina bianca, come in Labirinto bianco, al di là dell’impossibile quadratura del cerchio inseguita da Malevich, e non solo.

Paolo Pianigiani inizia a tracciare un segno verso il suo destino abduttivo, che non ha nulla della predestinazione logica, adorata dai più, i dipingitori riproduttori postmoderni del medesimo. Originario il suo tracciato, piuttosto che andare verso la sua origine, che è solo un ricordo di copertura.

I sentieri del labirinto si biforcano, si moltiplicano, la complessità pare darsi come un terribile groviglio, le immagini della foresta e del deserto cercano di minare la terra, ma il giardino del piacere è indistruttibile, in esso nessun percorso può darsi per scontato o prevedibile. Giardino instabile, nel senso di non istituzionale, che nessuno potrà mai coltivare come un suo orticello, nemmeno quello alla francese fantasticato per la psicanalisi da Lacan.

Giardino dove l’utile e il superfluo non si escudono. Giardino dell’inesclusione.

Il colore in Paolo Pianigiani convoca il lettore a togliersi i panni del giorno e come Machiavelli, nella lettera a Vettori, induce, verso sera, a vestirsi dei panni del lusso per entrare nelle antiche corti a parlare con i classici.

Certamente, Paolo Pianigiani conversa con i classici più recenti, da Luigi Boni a Yves Klein, da Marcel Duchamp a Piero Dorazio; anche perché i classici non recenti sono quelli che hanno costruito le città e i paesaggi della Toscana e poi del pianeta, da Giotto a Leonardo, da Masaccio a Fattori, da Pontormo a Panichi.

 

Labirinto rosa, 1974

 

Si tratta con l’opera di Paolo Pianigiani di un’esperienza completamente affidata alla crescita, al cominciamento, all’autorità, al lievito, allo zero, al seme, al ritorno dell’inidentico, al nome: si staglia dal caos della vita una striscia assolata di felicità, come l’ha chiamata Kafka, fatta di sentieri e di bordi. Tra i sentieri: il filo della vita.

Tra i bordi: la corda del tempo. Lunghe strisce di colore sino alla luce dell’intendimento imprevisto. Nastri che procedono dal vento indotti dal colore, dissipanti la credenza nell’idea delle cose che passano, che sostano un momento e poi lasciano il vuoto. Idea data per racchiusa nei colori.

Il corpo e la scena che si combinano nel giardino artistico, nonché culturale e scientifico, di Paolo Pianigiani, restano inimmaginabili; eppure sembra che tutto sia preparato per accogliere finalmente l’inatteso, l’inespresso, l’imprevisto. La qualità come effetto. La cifra della vita, che non ha nulla a che vedere con la presunta decifrabilità.

Il giardino del colore sancisce l’indecifrabilità, l’incodificabilità, l’insignificabilità della vita. Il giardino del colore di Paolo Pianigiani non è un cerchio immenso di cui un limitato settore spetterebbe a ognuno…

Ciascun gesto dà luogo a curve capaci di assumere tratti diversi, stagliate su scenari apparentemente immobili e tuttavia capaci d’essere all’improvviso squassati da sconvolgenti scosse. Un pandemonio artistico in grado di confluire in un coerente dispositivo, che è “compositivo”, secondo una precisa direzione. Strisce sulle quali passare da un’idea a un’altra, una serie molto complessa.

La terra è un accumularsi di superfici monocromatiche o soltanto intrise di ombre leggere. Un’alleanza di pellicole che distoglie la pelle dal destino genealogico. Il film della terra, che non fa più pensare alla pelle dell’uroboro che divorando la propria coda cambia di pelle. Questo è il canone della mutazione occidentale, anche per l’arte.

La terra in cui dimoriamo, fatta di inferno e di superno, di labirinto e di giardino, è una compagine di strisce irregolari, che sorreggono tenui curve. Alessandro, l’algebrista di Aristotele, il suo esecutore testamentario in vita, non potrebbe tagliare il nodo di Paolo Pianigiani.

 

Paolo Pianigiani, “Rosso fuoco”, tecnica mista, 2004

 

La ricerca di una forma – precipua della critica formalista – tra le spirali del labirinto occulta il cielo dell’opera che ci sovrasta. Nel giardino del colore di Paolo Pianigiani rientrano anni e secoli di giardini. Il giardino del colore ha la sua altra faccia nel giardino del tempo, da giorno a giorno e da notte a notte, nel variare del crepuscolo, quando l’ombra sta alle nostre spalle.

Possiamo chiamare tale complessità con il termine di pluralità oggettuale del mondo, senza togliere lo sbocco alla semplicità e così consegnarsi alla complicazione?

La striscia trovata, ossia inventata, da Paolo Pianigiani è irriducibile all’uso di un materiale da recupero, è il tracciato del segno, dallo zero all’infinito. Senza più sistema, nemmeno quello morfologico dinamico caro all’epistemologia. Senza più dicotomia morfologica di un’essenza di base, che dovrebbe permettere di distinguere il bene dal male e invece amputa la vita, il giardino, il piacere.

Paolo Pianigiani, “Pittura”, 1999, tempera su carta, cm 33×25

 

L’opera mette in luce un giardino del colore che è molto di più di uno spazio segnico, dove i critici eserciterebbero l’ermeneutica. In altri termini, il giardino esige il labirinto, l’antico groviglio, la selva oscura, la parola vera e propria, sovente illeggibile ai più.

La superficie dell’opera è una serie ritmata di superfici e ciascuna superficie, segnatamente quella delle stringhe, s’illumina di rilievi che conferiscono una pausazione al racconto che emerge per il lettore ignoto.
La superficie delle opere di Pianigiani ha maggior rilievo della profondità delle parole degli archeologi del senso e dei semiologi del non senso.
Lembi di paradiso, le strisce procedono dalla libertà e non si aggrovigliano come un fascio di tensioni incapaci di trovare una fenditura che le porti a liberazione.

Paolo Pianigiani, “Labirinti armonici”

 

E sebbene per ognuno la luce sia fatta anche di piccoli lampi e di grandi cantonate, nel giardino del colore di Paolo Pianigiani si respira l’aria originaria, quella che non pesa, non soggetta com’è a nessuna gravità.

Il gesto artistico di Paolo Pianigiani favorisce la mimesi e l’influenza: non il mimetismo, non la presunta influenza tra umani, temuta e voluta da ogni teoria politica.

La “voglia” che prende come un demone del meriggio lo spettatore che guarda le opere di Paolo Pianigiani è un modo figurativo di dire quello che noi ci troviamo a dire in una torsione linguistica inevitabile.

Nella costruzione dell’opera è singolare e triale il colore insituabile che punta e contrappunta, da una variazione all’altra dello sfumato, l’itinerario che porta all’orto dell’aurora. Come l’artista auspicato dal poeta Flavio Ermini, Paolo Pianigiani inventa “un vero e tangibile giardino”.

Il monocromatismo indica l’insostituibilità del colore. L’acromatopsia è l’altra faccia dell’ipercromatopsia. Gli illuminati di Dio e gli oscurati del diavolo sono categorie della gnosi, dello smarrimento che garantisce di ritornare sempre al punto di partenza.

Il monocromatismo di cui, secondo alcuni, soffriamo nella vita implica che ci identifichiamo con esso e questo apre l’autostrada al pluricromatismo che è la visione a colori dei più, non dei migliori, sebbene, come diceva Nietzsche, anche il migliore ha da essere superato.

Tolto il colore dal giardino, rimane l’orto dell’incuria, dove gli umani trovano che amore e sesso sono anch’essi vittime del monocromatismo e l’Altro viene vissuto come strumento che riconfermi il monocromatismo come ideologia dell’uomo a una dimensione.

Paolo Pianigiani, “Inchiostro 1974”

 

I labirinti e i giardini di Paolo Pianigiani si sottraggono a ogni possibile planimetria, geometria, cosmometria che riduca gli umani al paragone della scala sociale, alla conflittualità genealogica, quella che ha trovato in Shakespeare l’enunciatore di un paradosso, mai rilevato come tale da nessun matematico e nemmeno da nessun letterato, quello del conflitto non tra due differenti ma tra due eguali.

Romeo e Giulietta è la storia questa vicenda. Ma il filo, la striscia, la stringa, lo spago, la corda, non si rompono mai. Questione di itinerario, non di predestinazione.

Paolo Pianigiani, “Labirinto rosa”

 

La bellezza delle figure che abitano l’indelimitabile giardino, non richiede che quasi si frantumino nella luce. Sono figure e forme dell’ascolto. I bianchi, i rosa, i blu, i neri di Paolo Pianigiani entrano nella narrazione originale, nella memoria in atto, non ricordano l’opera di un alchimista intento a fermare con le sue formule magiche il colore, come il linguaggio facile direbbe di chiunque. Per un aspetto, il monocromatismo artificiale e artistico di Paolo Pianigiani mette in discussione la cromatologia dominante, quella dei cromati e degli acromati.

Quella dell’acromatognosia e della cromatognosia: sempre la teoria della conoscenza. Discromatismo? Anomalia visiva, forse il primo passo in direzione del colore come condizione di vita. Visione cromatica? Visione acromatica? Chi vede il colore? Monocromatismo come monoteisno, senza più teismo né ateismo.

Il giardino del colore è quello dell’inconoscenza, dove l’interlocutore resta incognito.

Come credere che nella serie dei labirinti sembri venir fuori il bisogno di una ricerca di armonia di tipo geometrico? Non è attribuibile nemmeno all’ultimo Kandinskij.

La nuova pittura di Paolo Pianigiani è il proseguimento della ricerca, in una distanza infinita da coloro che ricercano una nuova pittura. Il giardino del colore promuove l’inatteso nell’evento pittorico e in quello segnico. Dallo zero alla cifra, attraverso il flusso del segno e il suo influsso. La fluenza e l’influenza, l’incubo degli umani.

Tra la notte e il giorno. La striscia di felicità è quella della verità indrogologica e insemiotizzabile, che non ha più bisogno di spingere l’oscuro a dirsi e il nascosto a manifestarsi perché è già l’assenza di nascondimento.

Il fiume che scorre nel giardino di Paolo Pianigiani non ha più debiti con quello greco né con quello cinese né con quello indiano. Non è fiume della morte della parola, perché sorge dall’albero della vita.

L’albero dell’inconoscenza.

Paolo Pianigiani, “Inchiostri”, 2002

 

Striscia, stringa, curva, banda, nastro, non linea di fondo, non linea di partito. Nessuno spartiacque. Nessuno incluso e nessuno escluso nella federazione degli artisti. Senza più casa dell’essere né casa dell’avere: il giardino non è una comoda e sicura abitazione.

Eppure quando c’imbattiamo nel giardino del colore di Paolo Pianigiani la sensazione è quella della tranquillità. Dall’inquietudine alla tranquillità sulla superficie operano ondulazioni di nastri che non si differenziano cromaticamente, senza per questo esprimere una potenzialità amorfa, ossia una circolarità che è l’abbaglio e la cantonata di Nietzsche, l’eterno ritorno.

Il giardino di Paolo Pianigiani non è reversibile, non è il frutto della variabilità di una stessa struttura morfologica. Si tratta di un giardino che non diverrà mai polvere, ossia le opere di Pianigiani appartengono a ciò che resta.

 

Paolo Pianigiani, “Senza titolo”,  fibra di vetro

 

Nessuna prolessi e nessuna metessi dell’opera nel giardino del colore di Paolo Pianigiani; come artista non contende i suoi passi al segno già tracciato e nemmeno al segno non ancora tracciato. Dipingendo le cose si scrivono, restano.

Un monocromatismo che rivela luci e ombre volte a dissipare la presunta opposizione tra interiore ed esteriore, come nella banda di Moeubius?

Pianigiani non ha bisogno dei paradossi della topologia: le torsioni delle sue strisce procedono dal paradosso, dalla contraddizione senza quindi approdarvi. Il suo approdo è il giardino. Non l’inferno. Anche nel senso che il suo inferno non è infernale. Inferno e superno. Labirinto e giardino. Pittura originaria, senza religiosità.

Nell’ultima produzione artistica di Paolo Pianigiani ci sono dipinti monocromatici e anche altri svincolati dallo strumento retorico e pittorico del monocromatismo. E permane l’onirico, e quindi anche l’ipotesi per cui nei sogni ci sarebbe un monocolore dominante che ne influenzerebbe l’intero tono e le sue sfumature. Tale colore onirico è certamente un richiamo al reale originario.

Mentre poggia altrove, nel fantasma, l’idea che la notte non abbia colori, che i sogni siano monocromatici. Il giorno ha i colori, la fantasia è policromatica?

Il colore è condizione del giardino, non è un mezzo di comunicazione per giungere ai nostri sensi e scatenare delle emozioni, delle sensazioni diverse da persona a persona, in un caleidoscopio personale e introspettivo oppure sociale e estrospettivo.

In una serie di opere il monocromatismo trova terreno per un’anticonvenzionale rappresentazione pittorica? Se così fosse consacrerebbe le convenzioni, che si porrebbero come limite l’opera anticonvenzionale, accettandola senza leggerla, come nel caso della beffa del ready-made di Marcel Duchamp.

Mentre Sandro Trotti ha esperimentato strisce e monocromatismo, ma è tentato ancora dall’armonia; per lui il nudo femminile è sempre la chiave di volta della pittura perché è un rapporto armonico tra linee curve e rette, un rapporto di grande armonia, mentre la striscia e il monocromatismo di Paolo Pianigiani procedono da armonia-inarmonia come ossimoro della vita, per un palinsesto non più circolare.

Invece, l’enfasi sul nudo di donna di Trotti ha la stessa materia dello strip-tease della verità, un aspetto dell’ontologia che è sempre fondamentale.

La decisione di quali colori utilizzare per la realizzazione delle opere sembra spesso affidata all’istinto e alla propria sensibilità. Ma è da sfatare il mito diffuso della soggettività. Il colore è condizione e non è condizionano né condizionabile.

Questo per dire che non c’è in Pianigiani nessun uso estetico e nessun uso comunicativo dei colori. Inoltre il colore non è una variabile grafica a disposizione di un algebrista o di un geometrista. Risulta impossibile scegliere un colore, non c’è nessuna facoltà cromatica. E Paolo Pianigiani non è tentato dall’algebra e dalla geometria.

Non c’è formula algebrica produttiva né cliché geometrico riproduttivo (gli esempi reperibili nei contemporanei sono legione) nel giardino di Paolo Pianigiani, che non si piega all’agroalimentare artistico (coltivare il proprio orticello o latifondo per sopravvivere).

Troppo pressapochismo e approssimazione travestiti da gusto e sensibilità sono stati gli elementi guida di un certo modo molto diffuso dell’arte astratta, informale, concettuale… non classificabile come figurativa. Ma non è cosa da sradicare, nemmeno con un corretto uso dei colori, fondato sulla conoscenza a fondo della teoria stessa dei colori.

Non appare più evidente in Paolo Pianigiani una condizione legata al dibattito post-bellico tra figurazione e astrattismo, che era il cibo degli artisti che ha frequentato da giovane. Non induge in figurazioni o in non-figurazioni o in astrattismi.

La provocazione può giungere anche in luoghi non deputati, convenzionalmente, all’arte: una bobina di fibra plastica diviene l’odradeck di Kafka, il rocchetto del gioco del piccolo Hans narrato e reinventato da Freud, il nodo borromeo di Lacan.

L’interlocuzione e la risposta di Pianigiani non sono rivolte a determinate modalità della struttura formale, non si fondano su un rovello critico attorno alla figurazione, non sorgono dall’arte informale giunta sino al drammatico o tragico sentire, divenuto slogan politico. L’opera di Pianigiani resta propriamente non figurativa, non astratta: né formale né informale.

Allora, come sorge? Come cresce? Come varia? Nasce e rinasce come un gesto arbitrario, libero, felice: senza più padrini né madrine che possano assegnargli un destino. Oggi Paolo Pianigiani si trova fra monocromatismo e insinuati cenni di colore. Le variazioni non appartengono a un sistema logico formale, la sua ricerca trova le proprie soluzioni in una ulteriore e diversa forza espressiva rispetto alle precedenti manifestazioni.

La rilevazione insostanziale e immentale che deve essere fatta per la ricerca e per le soluzioni di Pianigiani è che, entro questo incessante processo, la logica e la struttura non sono determinati una volta per tutte, come avviene in alcuni dei casi più esemplari contemporanei, dove l’angosciosa inarticolazione dello spazio dice l’implacabile immutabilità d’una condizione umana, e al tempo stesso ne propone, entro i propri grumi e grovigli, l’indecifrabilità.

Non c’è questo umanesimo sconfitto in Pianigiani, e non perché l’indecifrabilità lasci il posto alla decifrazione (giunta ai limiti dell’interpretazione con Umberto Eco e alla semiosi infinita con Jacques Derrida), bensì per il suo approdo al giardino, alla sua qualità: cifra che non sarà mai comune.

La vicenda di Pianigiani si presenta dunque come una incessante elaborazione del segno, svincolata dal dover essere una risposta allo svariare e al mutare, entro la dialettica storica e culturale. Nessun debito con l’ontologia, ossia con il possibilismo e l’impossibilismo circolari, quelli di una condizione esistenziale entro una mutabilità-immutabilità categorica.

Sul filo di questi svolgimenti, il suo percorso, dai labirinti ai giardini, si spalanca sul futuro in atto. Dal pensiero critico di Walter Benjamin al gesto critico di Mimmo Rotella s’impongo le immagini nel moderno, tra riproduzione e riciclaggio: megalopoli, giornalismo, folla, pubblicità, pornografia, cinema, fabbrica…

A questo proposito, Paolo Pianigiani non cerca di rappresentare la realtà postindustriale. La sua opera non è specchio personale o sociale di qualcosa, ma partecipa alla celebrazione dell’altra vita, quella che ciascuno non più replicante inventa.

La tensione artistica di Paolo Pianigiani non è verso l’intervento nel mondo, non ha nessuna vocazione transitiva. Nessuna concessione, dunque, agli aspetti auto-referenziali delle tendenze contemporanee che si definiscono come analitiche.

Non si tratta di una riflessione operativa sulle strutture di base del proprio linguaggio pittorico, esibite nelle loro articolazioni formali, e simultaneamente proiettata sull’orizzonte psicologico e culturale della vita moderna o post-moderna nei punti critici del vissuto concreto dell’artista.

Ovvero non partecipa alla criticologia universitaria e giornalistica che scrive in modo scontato e ripetitivo la stessa zuppa banale semplice comunitaria all’insegna del parlare facile, del farsi capire da tutti, quando una sola cucchiaiata di tale zuppa, come “orizzonte psicologico”, blocca qualsiasi digestione intellettuale.

Può collocarsi Paolo Pianigiani nel solco degli anni Trenta all’interno dei dibattiti e dei contrasti entro la costellazione culturale e artistica che tra gli altri include a vario titolo Bataille, Benjamin, Klossovski, Giacometti e Balthus, che germinano gli anni Quaranta e Cinquanta negli States in riferimento al movimento culturale e artistico che tra gli altri include a vario titolo Pollock, Hartung, De Kooning, e fiorisce tardivamente ancora con Wharol e Basquiat? Sì e no.

Leggere Paolo Pianigiani richiede questa attraversata, ma senza “collocarlo”. La collocazione è sempre convenzionale, anche nel conio “out-sider” dell’anticonvenzionalismo. Si tratta proprio di inventarsi i mezzi per leggere l’arte, in questo caso l’opera di Pianigiani.

Non ci sfugge la logica e la struttura della critica d’arte, e non solo. Proprio perché siamo in condizione di leggerla possiamo anche rispondere al piccolo quesito di perché talvolta, se non spesso, non sia in condizione di riconoscere il talento di un autore non noto. Possiamo rispondere volgendo in domanda l’affermazione del modello riproduttivo del semiologo che dice che pubblica solo chi è noto. Ma sarebbe troppo facile.

La stagione all’inferno di Rimbaud qualifica l’analisi della sua epoca: la stagione infernale. La bellezza laida sulle sue ginocchia è quella dell’epoca, non quella che si staglia dalla sua stessa poesia. Monocromatismo? Nel senso di non occuparsi d’altro che dell’originario, dell’autentico, dell’invenzione e del gioco.

Il monocromatismo di Pianigiani non è un ideale che ricorda quello di Yves Klein. E non perché il blu di Klein sia leggibile come la conquista del tutto, dell’immenso universo che ci circonda. Monocromatismo non significa la distesa infinita del campo spirituale.

Lo spirituale è senza spirito, e talvolta occlude le vie del sangue, che dilaga nella retorica schizo e che appunto si blocca nella retorica ossessiva. Il sogno di Klein: l’artista futuro non sarà forse colui che, attraverso il silenzio, ma eternamente, esprimerà un’immensa pittura, cui mancherà ogni concetto di dimensione? Ma in Paolo Pianigiani non c’è la tentazione di Yves Klein di tuffarsi nel vuoto.

“Yves le Monochrome” indaga il colore originario, la condizione dell’itinerario. I suoi dipinti, tele di ampie dimensioni, tendono verso qualcosa, come dichiarò lo stesso Klein, che non è mai nato e mai morto, verso un valore assoluto. Ma la monocromia, principio stilistico fondamentale dell’arte di Klein, fu l’inizio di una ricerca universale, ossia circolare: e nel suo caso l’infarto smentisce tale circolarità.

La ricerca di un punto al di fuori degli eventi terreni e quotidiani? Questo è il colore come punto e contrappunto della vita. Il tentativo di raggiungere i confini dell’infinito, l’idea del vuoto, dell’immateriale, dell’indefinibile? Questo è il tempo come schisi, come divisione che non sarà mai spartizione sociale. Colore e tempo che sono specifici del giardino. Yves Klein intravede quello che oggi è il giardino del colore di Paolo Pianigiani.

Nel 1955 Yves Klein presentò un’opera monocroma al Salon des Realités Nouvelles, ma fu scartata dalla commissione esaminatrice, che consigliò all’autore di aggiungere un punto, una linea o un secondo colore. Tuttavia egli proseguì l’esperienza in atto, quella del colore come condizione di vita, non più rappresentazione di “qualcosa” in sé. Il monocromatismo non è monocolorismo di campiture di colore potenziale.

 

Paolo Pianigiani, “Territorio 1974”, elaborazione al computer, 2004, particolare

 

L’arcobaleno che si staglia nel giardino di Paolo Pianigiani non s’inscrive in un luogo geometrico e il suo cromatismo non prescinde dalla voce. L’arcobaleno è irriducibile al multicolorismo, non a caso diventato manifesto pubblicitario.

Se il colore dispone la trialità del punto (quello cercato da Klein) nell’arcobaleno la voce fuori dalla corale sociale di Pianigiani denota il punto di astrazione del colore. Questa è anche la lezione di Dante accolta da Pianigiani: il sommo Poeta incontra il colore della voce quando si avvede di un semplice sembiante.

Il cromatismo del sembiante si tripartisce fra il colore dello specchio quale punto di distrazione, il colore dello sguardo quale punto di sottrazione e il colore della voce quale punto di astrazione. La sensazione leggendo le opere (non basta guardarle) di Pianigiani può essere quella d’inspecularità sociale, di stranianza personale, di vuoto impartecipabile.

Questo punto di caduta, punto di fuga, punto vuoto, inseguito da Klein è il colore stesso. La sua stessità è singolare e triale.

Nel giardino di Pianigiani il colore è inconcettuale, impossibile anche pensarlo, impossibile renderlo plurale o popolare, singolare o personale. Insopportabile per ogni logia del Chrôma. Nessun discorso sulla sfumatura, che diverrebbe l’altro nome del narcisismo delle piccole differenze. Il paragone è delle arti, non tra Pianigiani e Klein, senza evitarne la lettura. E proprio analizzando le loro opere risulta che persino la colorazione è un ricordo e, come tale, falso.

Il colorismo si scontra anche con lo schermo (Fontana taglia la tela non lo schermo), che rimane inadeguato al colore, e con la meta, che mai raggiunge il colore.

Paolo Pianigiani, “Labirinto rosso armonico”, 2004

 

La lezione di Paolo Pianigiani richiede di riscrivere i dizionari: il colore proviene dalla stessa radice di celare, nascondere, perché nasconderebbe le cose, o piuttosto è la loro condizione? Senza colore le cose di dispongono al bianco e nero, senza sfumato, in altri termini al dramma.

Occorre scriverlo? Oltre la cinerea acromia del passato, la pulviscolare monocromia del presente e la fosforica policromia del futuro, il giardino del colore di Paolo Pianigiani è felice, senza più tragedia né dramma.

 

Dall’8 luglio al 20 agosto 2006


mostra delle opere di Paolo Pianigiani


“Il Giardino del colore. Opere 1974-2006”


presso le sale del Ristorante Enoteca Amleto


Via Covergnino, 26 – 37038 Soave (VR)

 


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