I (veri) colori di Michelangelo
I 500 anni dalla creazione della Cappella Sistina
di GIANLUIGI COLALUCCI
da: L’Unità,
mercoledì 31 ottobre 2012
I ricordi del restauratore capo dell’impresa che ridiede luce agli affreschi
offuscati da secoli di fumo delle candele e vecchie tecniche di ripulitura
Quella pittura, sublime e profonda come una «cantata» di Bach, era assolutamente rivoluzionaria. A tutti parve subito chiaro che la pittura dei grandi maestri come Ghirlandaio, Botticelli o Perugino, che avevano fatto sino ad allora la gloria della Sistina, era ormai superata.
L’interpretazione che Michelangelo aveva dato alle storie della Genesi (il Giudizio Universale lo dipingerà quasi venticinque anni dopo), la scelta e l’estensione dei colori, l’uso coraggioso del cangiante, il disegno delle figure enormi, la tecnica perfetta ed esclusiva dell’affresco, che neanche Giotto e i suoi aiutanti avevano potuto raggiungere, facevano di questa opera, che Michelangelo ha dipinto quasi tutto da solo, un caposaldo col quale la pittura futura avrebbe dovuto fare i conti. Infatti anche l’uomo d’oggi, che ha metabolizzato nella sua cultura i Caravaggio, i Tiepolo, i Picasso, i Pollock, continua a rimanere incantato e turbato da questa ineguagliabile opera.
Il cinquecentenario che celebriamo oggi non è importante solo per ricordare la grande impresa, l’opera d’arte assoluta, esso ha per noi, che viviamo il nostro tempo, un altro piccolo ma importante significato: noi siamo quelli che dopo decine e decine di generazioni la Sistina la vedono così come l’aveva dipinta Michelangelo.
A dirlo oggi sembra una banalità, ma sino a diciotto anni fa sarebbe stato argomento di lunghe discussioni perché molte erano le dispute sul vero aspetto di questi affreschi.
Delle migliaia di visitatori che si accalcano ogni giorno a testa in su sotto la volta credo che pochi, specie tra le giovani generazioni, possano immaginare che fino al 1980 questi affreschi erano quasi senza colore per via dei tanti strati di fumo di candele, delle stesure di colle animali, gomma arabica e fiele di bue usati dagli antichi restauratori per nascondere i danni dovuti ai sali prodotti dalle infiltrazioni di acqua piovana e per ravvivare temporaneamente i colori che sempre più si scurivano.
I modellati, poi, con il passare del tempo, sotto la coltre bruna, si appiattivano obbligando i restauratori ad aggiungere ombre nere sopra quelle originali che erano colorate, modificando a tal punto l’aspetto da apparire molto diversi da quanto dipinto dal Maestro. Ma Michelangelo è sempre Michelangelo, e così, anche se scure e macchiate, quelle pitture avevano un fascino che influenzò generazioni di pittori i quali trasferirono nella loro arte la falsa cupezza michelangiolesca.
Nel 1980 i Musei Vaticani, avendo scoperto quale fosse il vero colore di Michelangelo grazie ad una piccola indagine del Laboratorio di restauro, decisero di intraprendere la pulitura degli affreschi. Furono Carlo Pietrangeli, allora direttore generale dei Musei e Fabrizio Mancinelli direttore di reparto, ad assumersi la coraggiosa responsabilità.
Coraggiosa perché la pulitura, come era evidente dopo i primi saggi, avrebbe rivoluzionato le conoscenze che sino ad allora si avevano di Michelangelo pittore, e questo avrebbe modificato una bella fetta della storia dell’arte. Infatti le reazioni contrarie non si fecero attendere. Vennero soprattutto dagli artisti che erano affezionati al Michelangelo della melancolia negra, da quelli che non avevano idea delle sue capacità tecniche, dagli ambienti d’oltre oceano. Gli storici d’arte più importanti, come Giulio Carlo Argan o Gombrich erano favorevoli alla riscoperta di Michelangelo, ma i contrari, i polemisti, se pur una minoranza, furono durissimi, molto attivi e rumorosi, e se la presero soprattutto con me, che ero il restauratore capo.
A noi italiani questo può sembrare strano, ma all’estero, specie nei paesi anglosassoni, poco inclini alla burocrazia, vedono come il vero responsabile del restauro i restauratore e non il «direttore dei lavori». Ma se la polemica fu dura e lunga, essa è ormai affidata alla storia, come tutto il restauro della volta e del Giudizio, perché quello che conta sono gli affreschi che possiamo godere così come Michelangelo li ha dipinti.
Questa è la funzione del restauro, che però non va mai disgiunta dalla conoscenza della storia dell’opera d’arte, perché altrimenti, come in questo caso, quale senso potremmo dare alle parole che Wolfgang Goethe scrisse il 16 febbraio 1787 nel suo Viaggioin Italia? «…il 2 febbraio siamo andati nella Cappella Sistina, per assistere alla cerimonia della benedizione dei ceri. Ma non era cosa per me, e me ne sono andato via ben presto con gli amici.
Penso infatti: ecco qua precisamente i ceri, che da tre secoli anneriscono questi affreschi stupendi, ed ecco l’incenso che, con tanta sfrontatezza, non solo avvolge di vapori il sole unico dell’arte, ma di anno in anno lo offusca sempre più e finirà con l’immergerlo nella tenebra…».