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        ROBERTO BARNI

DOVE NATURALMENTE VA OGNI COSA

Alberto Boatto

da Alfabeta2, n. 24 – novembre 2012

 

 

Alberto Boatto

 

     L’opera di Roberto Barni, in pittura come in scultura, rinnova con visionaria originalità la superba linea dell’arte italiana impegnata, lungo il Novecento e oltre, ad affrontare la difficile, improrogabile esigenza di dare un’espressione visiva alla figura dell’uomo, non già dell’uomo eterno, ma proprio dell’uomo malmesso dei nostri giorni. Per questo nella sua opera l’uomo ha cessato di possedere il privilegio di un’individualità, di una fisionomia riconducibile a una persona singola, per presentarsi col profilo assottigliato di un emblema anonimo costantemente affaccendato e in cammino, senza appartenere alla quantità, alla folla accalcata delle grandi metropoli, alla massa manipolabile degli utenti. Così è destinato a raddoppiarsi, a proliferare, a dare origine a folte concatenazioni e sequenze, fino a comporre delle colonne umane formate da un gruppo di uomini sovrapposti gli uni sulle spalle degli altri (Colonna bisbetica).

     In scultura, la fusione nel bronzo rappresenta la scelta funzionale di una materia e di una tecnica metallurgica che consente la moltiplicazione del modello nei confronti dell’inclinazione del marmo verso l’unicità aristocratica. Questa figura ha abbandonato i solenni e così facilmente enfatici piedistalli per collocare con umiltà i suoi piedi sulla durezza del terreno (Atto muto) o, con maggiore frequenza, per fissarsi sopra bizzarri attrezzi che finiscono per condizionare ogni gesto e movimento. Ecco i gradini di una slitta (Passione), quelli di una scala curva somigliante a un dondolo (Continuo) oppure i bordi di una serie di larghi recipienti dalle fogge disparate (Solidali, Vacina, Rimorsi). Poiché gli uomini di Barni, come il sosia o individui clonati di recente, cambiano di poco il loro aspetto scialbo, mentre cambiano in misura considerevole le situazioni, al tempo stesso eccentriche e comuni, in cui si trovano coinvolti.

     Si tratta di situazioni egualmente difficili e precarie, contrasti e dispute stizzose con i propri consimili, colleghi e condomini, oppure percorsi in equilibrio instabile sugli orli di un abisso casalingo quanto può essere il fondo di recipienti di insolite dimensioni. In queste scale e in questi contenitori prende corpo il tema che sta al centro dell’invenzione dell’artista: il tema del vuoto e della vertigine che mettono a dura prova la resistenza umana. Non ci troviamo di fronte a spaccati realistici ricalcati sull’ambiente quotidiano, ma a scene scaturite direttamente e poi fissate in un flash visionario dell’accesa e umorale immaginazione dell’artista.

     Nelle ultime sculture, l’iconografia di Barni registra un ennesimo scatto inventivo, con un risultato d’approfondimento, se non di conclusione pur sempre provvisoria. L’uomo in marcia che, passo dopo passo, percorre la sua intera opera, ribadisce la sua estraneità nei confronti del romantico Homo viator, così sovraccarico d’illusioni e di aperture verso un improbabile e dorato là bas. Dove ha finito per condurlo il suo meccanico marciare è dentro il cestino dei rifiuti (Capogiro 2012). La vertigine di cui ha sofferto di continuo e che pure ha sfidato da “Eroe domestico” e il vuoto che lo ha attratto, lo hanno condotto infine nel luogo “Dove naturalmente va ogni cosa”.

     Anche la morte, più volte rappresentata dall’arte e dall’immaginario come un personaggio armato di falce, che sorprende l’uomo dall’esterno, viene raffigurata come una presenza che ci appartiene da sempre, un ospite ingrato: la falce è  collocata ora sotto i nostri piedi, nel posto dove si è sempre trovata Condominio. Queste figure plastiche segnano un luogo, occupano un punto, ma non conferiscono alcuna misura allo spazio. Con maggiore particolarità della scultura, la pittura testimonia ciascuna tappa del lungo itinerario di Barni. Nei suoi recenti quadri, le stesse sagome umane, inflazionandosi, danno vita a centrifughe colorate fra l’imitazione della giostra e la vertigine del mulinello. Le teste e i piedi toccano ogni punto della cornice, in una volontà d’esaurire la totalità dei luoghi spaziali, conferendo un’importanza relativa, ma non affatto un valore ad ogni punto contrassegnato. Nella sua lucidità, Barni sa bene che qualsiasi opera creativa non possiede più sede, adeguato luogo d’accoglienza. Il museo odierno, che si affanna a tenere testa alle fiere ubiquitarie dell’arte, non offre certo una soluzione. Nel frattempo la figura dell’uomo, assoggettata com’è fatalmente all’erranza e all’errore, anche nel caso che sostasse immobile, perché non piazzarla già travolta dalla distrazione generale, rovesciata per terra? È ciò che ha fatto Barni scaraventando per terra la sua scultura Sadovasomaso, come racconta lo stesso autore, nello spazio pubblico della centralissima piazza della Repubblica di Firenze “come altri scaraventano per terra una lattina di Coca-Cola”.

     Pessimismo mischiato a una dose amara d’acutezza cinica? Ma l’assurdo, che resta la qualità spiccata di quest’opera, consente l’impiego dell’incongruo paradosso. Ecco un’esemplificazione: sul quadrato del ring, un solo pugile solleva il braccio al termine dell’incontro: il vincitore. Questa è la norma, la “dossa”. In Barni il vincitore e il vinto sollevano assieme un unico braccio con un unico guantone in segno di trionfo. Siamo all’anormalità; siamo penetrati nel paradosso.

     Di tutta l’opera di Barni colpisce la spiccata originalità dell’iconografia – che costituisce una novità nella storia della scultura – dove, accanto alla effigie umana, occupa la medesima importanza l’oggetto, l’attrezzo impiegato che, pur presentandosi “spaesato”, appartiene pur sempre all’universo domestico. Che cosa ci può essere di più ordinario di un secchio o di una scala?

     Si direbbe che Barni, nato nella bella città medievale di Pistoia, e dunque erede diretto della grande tradizione d’arte e di cultura della Toscana, si sia proposto di chiudere in un fascio di situazioni esemplari la difficoltosa e conflittuale condizione dell’uomo contemporaneo, logorato dallo stress quotidiano e dal sentimento dell’inutilità di qualsiasi sua occupazione.

     L’accostamento fra queste opere, col loro spiccato senso della mimica e del gioco scenico, e il teatro di Samuel Beckett rimane l’accostamento maggiormente illuminante.

      Intervengono con grande peso l’esplosiva qualità formale della sua scultura, che porta ancora le tracce visibili della mano del modellatore, e la patina rossa con cui si presenta. Essa non ha il valore di un superficiale rivestimento, ma quello di una manifestazione cromatica dell’energia della materia plastica.

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