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Vita ed Arte di

MICHELANGELO

di Franco Russolo

 

da: Tutta la scultura di Michelangelo, Biblioteca d’Arte Rizzoli, Milano, 1953

 

 

Narra il Vasari che, nel nono decennio del quindicesimo secolo, il Magnifico Lorenzo de’ Medici aveva adornato il suo giardino sulla piazza di San Marco «molte belle anticaglie» e «di buone figure antiche di marmo e di pitture, ed altre così fatte cose, di mano de migliori maestri che mai fussero stati in Italia e fuori». E che vi aveva preposto Bertoldo scultore, non tanto per custode o guardiano, quanto perché, «desiderando egli sommamente di creare una scuola di pittura e di scultori eccellenti, voleva che elli avessero per guida e per capo il sopradetto Bertoldo, che era discepolo di Donato.

A questa scuola, creata sotto il segno del più colto e accademico umanesimo, fu condotto, ai primi del 1489, dall’amico Francesco Granacci, il quattordicenne Michelangelo di Lodovico Buonarroti (era nato a Caprese il 6 marzo 1475). Un ragazzo prodigio, che già aveva destato l’ammirazione e, si mormorava, l’invidia di Domenico Ghirlandaio, alla cui bottega era legato da un contratto di tre anni, steso il 10 aprile 1488. Un ragazzo di cui era già stata notata non soltanto la prodigiosa abilità tecnica, testimoniata da copie, da disegni dal vero, da stupefacenti contraffazioni, ma anche la inquietante tendenza a far da sé, a scegliersi da solo i propri esempi e modelli, a tentare un personale linguaggio, secondo criteri che riuscivano oscuri sia ai maestri, sia ai condiscepoli. Un giorno che certi suoi disegni erano capitati sotto gli occhi del Ghirlandaio, narra ancora il Vasari, questi era rimasto «sbigottito della nuova maniera e della nuova imitazione che dal giudizio datogli dal cielo aveva un simil giovane in età così tenera».

Sbigottimento ben comprensibile, di fronte a disegni che si possono con certezza immaginare già tesi a cogliere la più ferma struttura delle figure e delle cose, la loro più assoIuta presenza plastica, quando si pensi alla limpida analisi naturalistica del Ghirlandaio, alla sua corretta prosa narrativa. Non si vuol dire che in quelle prime prove la ricerca dell’espressione della forza vitale animante tutta la realtà fosse già ricondotta al tragico scandaglio dell’unica immagine prescelta: la figura dell’uomo. Le notizie di copie da stampe dello Schongauer, di disegni di scene dal vero, di studi sugli affreschi trecenteschi e quattrocenteschi, dicono che l’adolescente Michelangelo compiva il noviziato pagando, com’è naturale, il suo scotto all’eclettismo di ogni inizio, tanto più se assecondato, come nel suo caso, da un maraviglioso virtuosismo.

E l’occhio esercitato e acuto del Ghirlandaio avrebbe ben potuto cogliere (come finse il Vasari), nei pochi saggi del giovane, sia la prodigiosa capacità di risolvere qualsiasi difficoltà rappresentativa, sia — e questo è più importante la «nuova maniera»,  la «nuova imitazione» che da quelle prove si manifestava: vale a dire appunto i segni di un linguaggio che si svincolava, violandoli, dai canoni e dalle formule figurative allora comunemente seguite. Domenico non si sarà quindi stupito, non vedendo tornare Michelangelo alla sua bottega, dal giardino di piazza San Marco: egli doveva ben capire che in quelle «anticaglie» Michelangelo poteva finalmente trovare modelli di insuperata bellezza formale, anzi di compiuta perfezione, da emulare con appassionato, ingenuo fervore di applicazione.

Ma nei detti di Donatello, che il vecchio suo discepolo Bertoldo avrà severamente ripetuto ai giovani, soltanto il genio di Michelangelo scopriva una solenne testimonianza circa il metodo e la libertà di lettura di quelle «anticaglie», perché divenissero non pretesti di esercitazione, ma fonti di nuovi messaggi. Infatti, le prime sculture eseguite dal Buonarroti nel giardino dei Medici, e perdute (nonostante i vari tentativi di identificazione), cioè «certe figure tonde, di terra», lavorate per emulazione col Torrigiano, e la testa di Fauno, copiata dall’antico, che destò l’ammirazione del Magnifico Lorenzo, furono probabilmente soltanto prove dell’eccellenza tecnica del giovane, volta ora, per l’insegnamento umanistico di Bertoldo, all’imitazione dell’antico invece che alla copia dalle stampe tedesche. Ma le altre opere, di poco posteriori, che sono giunte sino a noi, rivelano già una posizione «critica» rispetto all’antico, un atteggiamento di «lettura partecipe» di cultura viva e non retorica, già enunciando i temi, stilistici e morali, della poesia michelangiolesca.

Sono, queste sculture, i due rilievi conservati nella Casa Buonarroti a Firenze: la Madonna della Scala e la Battaglia di Centauri. Compiute entrambe prima della morte di Lorenzo, cioè prima dell’aprile 1492, esse appartengono al periodo in cui Michelangelo viveva nella casa del Magnifico, accolto quale un figlio adottivo, e ammesso nel cerchio dei grandi umanisti che convenivano al palazzo di via Larga: il Poliziano, il Ficino, il Beniveni, il Landino e Pico. Nello stesso tempo egli si recava spesso in Santa Croce e al Carmine, lasciando nel suo libro di disegni le testimonianze della profonda meditazione sull’opera di Giotto e di Masaccio, vale a dire sulle figurazioni del più solenne ed esclusivo antropomorfismo.

In questi due rilievi già il tema cristiano e il mito pagano, il culto dell’antico e la lezione umanistica, e il messaggio stilistico di Giotto e dei Pisano, la terribilità plastica di Masaccio, la bruciante energia di Donatello — già tutto questo humus culturale, questa vulcanica miscela, è arrivata a un alto grado di fusione poetica. Nell’immagine novissima, grandiose figure umane, staccate da qualsiasi localizzazione di tempo e di ambiente, esprimono, con la titanica tensione dei loro corpi poderosi, con il tormentoso sforzo di sciogliere le membra dal peso della loro mole, l’eterno divenire della natura, e la coscienza orgogliosa e disperata dell’uomo di riassumere in sé quell’universale moto organico.

Uno sbigottimento simile a quello che colse il Ghirlandaio avrà preso il vecchio Bertoldo, se poco prima di morire poté vedere il rilievo stiacciato della Madonna della Scala. Di tutte le sue lucide, preziose derivazioni formali dallo stiacciato donatellesco, nemmeno dà segno di essersi accorto il giovane scultore che, del resto, limita la stessa diretta lezione di Donato a uno spunto tecnico e a lievissime riprese di motivi liminari. E Bertoldo non poteva vedere il legame più profondo tra il suo Maestro e il suo Discepolo: la capacità di esprimere non soltanto uno spazio naturale vibrante di luce o l’arabesco vitale di un corpo in movimento, ma soprattutto la presenza dell’uomo, la sua sofferta e solenne dignità. Lo «stiacciato» qui non è usato secondo un intento pittorico, né di ritmo lineare, ma per avvalorare, nel serrato premersi dei piani, l’urto prepotente delle forme. Chiusa tra i monumentali, erti gradini, e lo squadrato blocco su cui siede, la Vergine («archetipo dello donna» secondo la bella immagine del Tolnay, «che è creatrice della vita ed è insieme custode della morte»), accoglie al seno, come svincolantesi dal ritmo delle sue mani vigorosamente «scortate», il Bambino, il cui dorso di Ercole fanciullo è già modellato secondo quella stupenda invenzione formale che si ritroverà, compiutamente sviluppata, nel Giorno.

L’energia disperata, e rattenuta nelle vibranti distese di piani, della Madonna della Scala si scatena nell’epico groviglio plastico della Battaglia di Centauri. Un mito suggerito probabilmente a Michelangelo dal Poliziano, che sembra aver intuito quale soggetto della cultura umanistica potesse meglio rispondere alla fantasia poetica del giovane. E Michelangelo non soltanto rifiuta le elaborate e fredde esercitazioni dai sarcofagi classici del maestro Bertoldo, ma anche i suggerimenti a cogliere il moto dei corpi nella più esasperata e crudele tensione di muscoli e tendini, quali potevano venirgli dalle scattanti anatomie del Pollaiolo e del Verrocchio. È ritrovato, in questo altorilievo, il drammatico senso plastico dei marmi pergameni, attraverso la solenne lezione di Nicola Pisano, più che di Giovanni. I corpi dei combattenti si snodano ben rilevati, crescono fuor dal fondo scabro della lastra torniti dalla luce, cui offrono ampie superfici, aggetti a tutto tondo.

Poco dopo il compimento di questa scultura, morì Lorenzo il Magnifico. Grande fu il dolore di Michelangelo, che se ne tornò a casa del padre, dove, per proprio conto, scolpì una grande statua di Ercole. Purtroppo, questa scultura è andata perduta, come le altre di questo periodo, tra le quali i biografi ricordano un Crocifisso in legno per il priore di Santo Spirito, il quale, come narra il Condivi, gli procurava «corpi da poter far notomia, del che maggior piacer far non se gli poteva». Intanto Piero de’ Medici lo aveva richiamato a corte e lo onorava come già aveva fatto il Magnifico, anche se la sua scarsa fantasia non gli suggeriva di affidare al giovane artista commissione più nobile di «fare nel mezzo della sua corte una statua di neve». Non era, tale leggerezza, cosa da andare a genio alla profonda serietà di Michelangelo; e il disagio si maturò in insofferenza e in bisogno irreprimibile di fuga, quando la sua inquieta, tormentata sensibilità fu scossa dai racconti di un cortigiano, di visioni oscuramente profetiche. Nell’ottobre del 1494 egli partì dunque per Venezia, dove si trattenne pochi giorni, poi si recò a Bologna, dove poco dopo lo raggiunse la notizia della cacciata dei Medici. Il gentiluomo Gianfrancesco Aldovrandi lo prese sotto la sua protezione, e gli fece ottenere la commissione di tre statuette per l’Arca di San Domenico, già iniziata da Nicola Pisano e dai suoi aiuti Arnolfo, Fra Guglielmo e Lapo, continuata da Niccolò, che da tale capolavoro ebbe appunto nome «dell’Arca», e da lui lasciata incompiuta.

Non soltanto da queste piccole sculture, ma da molte delle opere successive è dato comprendere quanto sia stato importante per l’arte di Michelangelo il soggiorno bolognese, il quotidiano contatto con le opere di Jacopo della Quercia, le meditazioni, come già un tempo sui dipinti di Masaccio e di Giotto, davanti agli affreschi e alle tavole dei Maestri ferraresi, Tura, Cossa, Roberti. Per intanto si noti come il disporsi solenne e vibrante del San Petronio derivi dalla prepotente presentazione delle figure di Jacopo, e come la vitalità della figura sia avvalorata dal muoversi del panneggio, che scioglie appena in più dolci pieghe l’arricciarsi ossessivo dei panni che vestono i Santi del Tura. E si veda come il San Procolo, del quale è stato accennato come a un passaggio dal «San Giorgio» di Donatello al David michelangiolesco, riveli ancora, nonostante i guasti (e sia pure in sottordine rispetto alla predominante corrucciata spiritualità, che è solo di Michelangelo), lo scatto nervoso del moto, articolato da Ercole de’ Roberti sull’impianto del Pollaiolo. Ma la statuetta più bella è l’Angelo inginocchiato, il portacandelabro simmetrico a quello di Niccolò dell’Arca.

Qui si ritrova, nella piccola testa tenace, compatta di riccioli, come quelle degli eroi della Battaglia di Centauri, lo sguardo fisso, profondo, della Madonna della Scala, quella dolorosa coscienza umana che anima il limpido profilo classico; e nell’agiato disporsi del corpo si osserva una fortissima presenza plastica armonizzarsi al ritmo di un elegante classicismo. Di Niccolò dell’Arca il giovane emulo accoglie l’invito a portare il marmo a effetti di «sottigliezza raffinata e minuziosa» (Gnudi), ma converte la sua bruciante fantasia in umana, severa meditazione.

«Stette con messer Gianfrancesco Aldovrandi poco più d’un anno» (Condivi). Tornato quindi a Firenze sulla fine del 1495, Michelangelo scolpì un Cupido dormente e, per Lorenzo di Pier Francesco de’ Medici, un San Giovannino. Nonostante sia stata tentata più volte l’identificazione di queste opere, esse sono perdute; né è possibile farsene una idea, se non forse pensando, per il Cupido, a una sorta di esercitazione sull’antico, dato che, truccato in modo da parer oggetto di scavo, esso fu inviato Roma e là venduto come pezzo classico al Cardinale di San Giorgio. Che del resto Michelangelo pensasse in quel torno di tempo a fare scultura di coltissima, complessa ripresa ellenistica, è dato arguire dal Bacco, l’opera eseguita per Jacopo Galli, nel 1496-97, a Roma, dove appunto egli si era recato per far valere i propri diritti circa il Cupido, della cui vendita era stato tenuto all’oscuro.

Nel Bacco il più prestigioso virtuosismo è esibito, nel volgere a intenzioni di naturalismo illusivo lo schema classicistico del nudo stante. Nel torpido svolgersi delle membra, nella morbidezza del modellato, che dà al marmo l’equivoco splendore e la molle plasticità della carne, nell’insistita definizione psicologica, sin nel rapinoso scatto luministico del faunetto, è spiegata una piena sensualità fisica, che non e accompagnata — come sempre poi avverrà nelle opere di Michelangelo in cui sia accennato un minimo compiacimento sensuale — da un doloroso turbamento, da un tremore religioso. Per ciò la critica più avvertita ha notato il «valore episodico e staccato di questa scultura, e ha visto in essa «l’intento di commisurarsi all’antichità romana, quasi in una sorta di cultissima falsificazione» (Ragghianti).

È dato pensare che rispondesse agli stessi intenti di esibizione virtuosistica, allo stesso pensiero di far rivivere le forme classiche col fremito di un immediato, diretto naturalismo, anche il Cupido-Apollo scolpito per lo stesso banchiere Jacopo Galli: opera anch’essa perduta.

Nel 1499 Michelangelo terminava la Pietà marmorea, ora in San Pietro a Roma, ordinatagli dal Cardinale Jean Bilhères de Lagraulas. Garante del contratto era l’amico e mecenate Jacopo Galli, il quale entusiasticamente prometteva che l’opera sarebbe stata la più bella «che sia hoge in Roma, et che maestro nisuno la faria megliore hoge». Testimonianza esplicita che la ripresa classicistica, il virtuosismo e l’interesse psicologico evidenti in questo momento dell’attività del Buonarroti incontravano il più grande successo nell’ambiente umanistico romano. In quesi opera, la più raffinatamente levigata e «perfetta», la più dolcemente sensibile, nella pacata espressione di raccolto dolore, che Michelangelo abbia dato, sono stati notati dalla critica elementi di educato equilibrio ritmico di tradizione quattrocentesca fiorentina, reminiscenze di schemi e di vibrato panneggiare di origine ferrarese, e influssi di pittoricismo leonardesco. E certo la scultura in cui il marmo è più piegato a essere duttile materia sensibilissima al trascorrere sottile della luce, l’opera in cui si attua liricamente la fusione tra l’ideale rinascimentale dell’illusività naturalistica e la più squisita e astratta ricerca formale.

E nel sensibilissimo scorrere delle lisce superfici del nudo corpo del Cristo e del volto di Maria contro, entro il moltiplicato rifrangersi del vasto panneggio, dove nessun anfratto, nessuna piega sono lasciati sfuggire al ferreo ritmo di una superiore «accademia», sin nella cadenza sentimentale delle espressioni, par di sentire un ricordo della coltissima enfasi chiaroscurale del Verrocchio, del suo ridurre (da orafo) a complicati effetti pittorici la luminosa, intima analisi fiamminga. Nel Verrocchio appunto Michelangelo poteva trovare a Firenze alcune risposte (ma quanto parziali, e aliene dal suo spirito!) alle domande che il soggiorno bolognese e la conoscenza dei ferraresi avevano provocato.

Quando, forse nella primavera del 1501, Michelangelo torna a Firenze, la fama dei suoi successi romani lo ha preceduto, e la Repubblica, le Chiese, le Corporazioni, i privati fanno a gara nel commissionargli opere. Sino al 1505 sarà un periodo di intensa, appassionata attività, di lotta col tempo per tener fede agli impegni contrattuali e alle esigenze della sua incontentabile ricerca espressiva. La scultura più vicina nel tempo e nelle intenzioni alla Pietà di San Pietro è la Madonna col Bambino, ora a Bruges; e, come quella, anche quest’opera finissima è basata sul modulo chiaroscurale del contrasto tra morbide superfici accarezzate dalla luce e panneggi mossi dal gorgo delle pieghe. Ma alla forma aperta alla luce della Pietà di Roma qui si sostituisce una bloccatura architettonica del gruppo (che non sarà del tutto erroneo pensare sviluppata dai moduli di classicismo ritmico di alcune figure sedute di Nanni e del primo Donatello); e una severità morale, che richiama la Madonna della Scala, torna a dominare sulla estenuata sensibilità sentimentale dell’opera precedente. Più che i richiami iconografici alla «Platytera» bizantina e alla «Vergine di Padova» di Donatello, converrà notare, a conferma della continuità di una tradizione classica, l’assonanza, se non l’esplicito richiamo, del morbido nodo delle mani della Vergine e del Bambino, con quello che si può ammirare nella «Carità» del Pulpito pisano di Nicola.

Nelle statuette per l’Altare Piccolomini di Siena, giustamente rivalutate dal Kriegbaum — San Paolo, San Pietro, San Gregorio e San Pio — sono dominanti interessi di vibrante plasticità «ferrarese»; di grandioso impianto architettonico, che riassume e vince la raffinata perfezione dei particolari; di intenso ritratto psicologico, infine, pur ottenuto col più intellettuale linguaggio plastico. Sono cioè ancora altissime variazioni ed esercitazioni sui temi, lungamente meditati, della astratta monumentalità dei Maestri di Ferrara, sull’aggressiva, ma profonda, individuazione psicologica di Donatello, e insieme sull’«antica semplicità» di Nanni di Banco. Michelangelo, in quei giorni, avrà forse alzato la testa, spesso e a lungo, verso i «Profeti» del Campanile di Giotto.

Il Maestro firma poi il contratto cui più teneva, per il quale forse era tornato da Roma a Firenze, che lo impegnava a dar prova completa della sua prodigiosa abilità, e a fare ciò che ogni altro artista del tempo aveva ammesso esser superiore alle proprie forze. Doveva Michelangelo trarre, dall’immane blocco marmoreo infelicemente bozzato da Agostino di Duccio quarant’anni prima, una figura per l’Opera di Santa Maria del Fiore. Il David costò a Michelangelo diciotto mesi di lavoro: nell’aprile del 1504 il «Gigante» come subito lo chiamarono i fiorentini, era finito, ma sin dal gennaio la Città, entusiasta e commossa per la meravigliosa opera, aveva convocato i più grandi artisti del momento, dal Perugino a Leonardo, dal Botticelli a Filippino Lippi, da Andrea Sansovino a Giuliano da Sangallo, e altri ancora, in una commissione che decidesse la collocazione più degna e più opportuna per la mirabile scultura. Prevalse l’opinione del Botticelli, e il «Gigante» fu posto, quasi simbolo della Città, davanti al Palazzo della Signoria.

Giustamente il Tolnay ha osservato che il David «può essere considerato come una specie di sintesi degli ideali del Rinascimento fiorentino». Il richiamo classico allo studio appassionato dell’anatomia, che porti a scoprire nelle forme del corpo umano, nel serrato ritmo della loro composizione, sia la pulsante vitalità organica dell’universo, sia la espressione fisica, fenomenica, della coscienza eroica della dignità dell’individuo, trova in questo «superorganismo» la sua più esplicita e violenta espressione figurativa. Persino nelle dimensioni è energicamente dichiarato l’intento di questa ideale esaltazione antropomorfica. Non più, nell’«ignudo», la veemente esasperazione del moto o la determinazione descrittiva dei «David» o degli «Ercoli» del Pollaiolo, del Verrocchio, di Bertoldo, di Donatello stesso: la straordinaria potenza vitale del giovane eroe è invece contenuta, riassunta nell’agio ritmico in cui serenamente, ampiamente, si dispone la figura. Lo scatto del volto corrucciato, la torsione del polso, l’agilità dei profili, bastano a esprimere la terribile violenza delle azioni di David, una volta che si muova. È questa la vita potenziale del «San Giorgio» di Donatello, che dà nuovo valore a un motivo di iconografia classica Ercole» di molti sarcofaghi), già ripreso in una interpretazione di olimpica serenità da Nicola Pisano, e di disperato furore da Jacopo della Quercia. E questo giovane titano (questa «idea» stilistica, questo simbolo figurativo), còlto nella mimica più varia e più ardua di atti di gioco, di pura esibizione fisica, di battaglia, ritornerà nelle pitture michelangiolesche: il Tondo Doni, la Battaglia di Càscina, alcune parti della Vôlta della Sistina. Michelangelo porta avanti, sino alla articolazione più rischiosa, al limite di una ricercata, lucida complicazione formalistica, lo scandaglio delle infinite «pose» del corpo umano, per sfruttarne tutte le possibilità di contrappunto dinamico.

Sarà stato in quest’ordine di meditazioni formali anche il David in bronzo, ora perduto, ordinatogli nel 1502 dalla Signoria, per il Maresciallo di Rohan, e terminato da Benedetto da Rovezzano nel 1508.

Così, in questi anni, Michelangelo andava scandagliando sempre più a fondo la struttura dei corpi, secondo un principio figurativo chiaramente rinascimentale; ma la terribile pressione plastica, il teso groviglio delle sue forme, forzate a torsioni insostenibili, erano appunto l’immagine «novissima» di una visione etica, di un tormento spirituale ignoti al Rinascimento. E, come aveva fatto sue, reinventandole a nuovi significati, le forme classiche, e le conquiste rinascimentali dei suoi grandi predecessori fiorentini, così Michelangelo è ora attento a cogliere quanto può essere coerente con i suoi problemi e con il suo mondo poetico nelI opera di Leonardo. È questo il tempo in cui i due artisti lavorano ai cartoni per le pitture che dovevano ornare le pareti della Sala del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio. Mentre Leonardo figurava il suo pensiero poetico dell’unità cosmica risucchiando nello stesso vortice, come felicemente dice il Baroni, il gruppo dei combattenti della «Battaglia d’Anghiari» e la Natura, Michelangelo invece esaltava, nella Battaglia di Càscina, la concezione che il moto vitale dell’universo è riassunto nell’uomo ed espresso nella sua struttura fisica. Nella immagine di Leonardo, l’uomo si adegua, cosciente, al flusso misterioso del divenire cosmico, per via di «sfumato», e lo scatto vibrante dei suoi moti, il «contrapposto», è intimamente legato al ritmo vitale, organico, che anima ogni oggetto del creato. Nell’immagine di Michelangelo, invece, tale «contrapposto» è prepotentemente isolato nello spazio vuoto, e l’uomo rivendica a sé, nella potenza incontenibile del ritmo chiuso della sua forma, il respiro universale.

Si esaminino, tenendo presenti queste considerazioni, le due sculture di Michelangelo, lavorate ira il 1503 e il 1506, che più hanno fatto parlare di «leonardismo»: la Madonna Pitti» ora al Bargello, e la Madonna «Taddei», ora a Londra. Nella scultura del Bargello le influenze leonardesche paiono da ravvisarsi soltanto in un suggerimento compositivo per la figura del Bambino, e nell’ammorbidimento del modellato, reso più sensibile al trascorrere della luce per la sapiente gradinatura delle superfici. Una ricerca complementare, quindi: un «effetto di fronte all’idea basilare, che è pur sempre quella, propria di Michelangelo e di lui soltanto, di esprimere, anche negli atti più sereni di una cronaca familiare, una alta severità morale, attraverso l’impianto di forme poderose. La Vergine del Bargello è come una Madonna della Scala sciolta dal rigore arcaico dello stiacciato: si dispone con agio naturalissimo, di ire quarti, nello spazio chiaramente scandito dal cubo su cui siede, e stringe a sé, tra le ginocchia, il Bambino, il cui atteggiamento è ritmato ad accompagnare il perimetro del tondo. Si osservi il volgersi del capo della Vergine, che rompe invece il filo del cerchio, la torsione del braccio e della festa del Bambino, e si noterà come, anche qui, Michelangel0 ha composto secondo una complicata e pur lucidissima contrapposizione di forme.

Più profondo, invece, il leonardismo del bassorilievo di Londra. E non soltanto per la ripresa del moto scattante, e contrappuniaio, del Bambino, da una immagine di Leonardo che è possibile seguire, dai disegni per la «Madonna del Gatto al cartone per la «Sant’Anna sino ai putti della Leda Ma proprio per la presenza di uno spazio inteso come «atmosfera» vibrante alla luce. La composizione centriripeta della Madonna «Pitti» riportava al blocco assiale della figura di Maria ogni altro elemento, e aveva il fulcro poetico nel suo severo sguardo intento; mentre qui le figure si ritraggono dal centro del tondo, dove il vuoto è sottolineato nel suo valore di profondità dal frullo dell’uccellino che si dibatte tra le mani del piccolo San Giovanni, e svolgono il tema della composizione circolare in un serrato contrappunto chiaroscurale di movimenti su diversi piani. Eppure, anche in questo bassorilievo così legato ad alcuni aspetti dello sfumato leonardesco, I aver lasciato abbozzate alcune parti a contrasto con altre perfettamente polite non risponde esclusivamente all’esigenza di variare le incidenze della luce su superfici glabre o levigate per ottenere effetti di movimento chiaroscurale. Bastano il lento volgersi del volto assorto di Maria, il suo collo pulsante, la mano che così violentemente stringe il panneggio, e l’energia plastica del Putto, quasi ad altorilievo, a far intendere che Michelangelo vuole, in questi punii di «messa a fuoco concentrare il flusso di vita che anima tutta la composizione. Come da un terribile travaglio creativo nascono questi frammenti della figura umana: in essi l’energia cosmica ha preso forma.

Ma qui si apre ormai il discorso sul «non finito» di Michelangelo.

Si noti anzitutto che le opere non finite — intendendo ciò nel senso tecnico, accademico, di determinazione plastica di ogni particolare, perché, ben s’intende, tutte sono «finite quanto a realizzazione poetica — sono molto più numerose di quelle condotte a finitura. E si noti anche che tutti i grandi monumenti architettonico-scultorei sono stati da Michelangelo ridotti di complessità e di proporzioni, rispetto ai primi progetti, se non addirittura abbandonati; mentre invece i grandi cicli pittorici sono stati in tutto condotti a termine. Il Vasari stesso si accorse che le statue restate imperfette… sono molte maggiormente», e sentì che una spiegazione materialistica (deficienze del marmo, numero eccessivo degli impegni, volubilità dei committenti, ostacoli creati dall’invidia dei colleghi) era in definitiva estrinseca e insoddisfacente. Cercò quindi una ragione «interna» del «non finito l’incontentabilità del Grande. Il Cellini avanzava un’altra spiegazione, legata questa alla famosa disputa della superiorità della scultura o della pittura: «Il gran Michelangelo gli ha fatto più figure di pittura per ogni un mille, che ei non ha fatto di scultura; per essere la pittura tanto più facile, per non essere obbligata alle difficultà delle tante vedute… Così il problema critico del «non finito» era già posto, sia pure in termini approssimativi, nel suo duplice aspetto (che è poi unico), psicologico e figurativo. Ma bisogna giungere quasi ai nostri (empi per vederlo risorgere, e porsi al centro dell’interpreiazione dell’arte michelangiolesca, prima con il Guillaume, poco dopo con lo Justi e con il Thode.

Non è qui il caso di rifare la storia di una tanto vessata questione, ma converrà riportare il nitido riepilogo delle varie opinioni fatto dall’Aru ad apertura di una sua ipotesi interpretativa: «Si è pensato da alcuni a uno stato di “insoddisfazione”, che avrebbe impedito a Michelangelo di toccare il termine della propria visione e gli avrebbe fatto abbandonare il lavoro, vuoi per il tragico sgomento suscitato in lui dall’eterno dissidio fra spirito e materia (Mariani), vuoi per la impossibilità di dare contenuto mistico-cristiano alla forma plastico-pagana (Thode). Si è congetturato (la altri che l’improvviso arresto del lavoro sia stato causato invece dalla “soddisfazione” di avere raggiunto il termine della propria visione: o per il risalto che il non finito dà al rilievo plastico nei confronti del finito (Venturi, Bertini): o per la maggiore espressione di pathos che balza da una sintesi estremamente rapida e ardita (Bertini): o per I accentuazione di  emana da una forma che tenta liberarsi dal blocco (Bertini); o per l’amore delle sculture antiche più poderose ed espressive se corrose e mozze (Toesca); o, infine, per la suggestione che deriva dalle figure che escono dal marmo grezzo, nelle quali l’attività dello spirito umano cito testualmente dal Bettini sembra associarsi alle forze cosmiche e perciò approfitta di uno sfondo ideale infinito, in luogo dello sfondo limitato di una personalità o di un epoca Da parte sua l’Aru notava, rifacendosi alle parole già citate del Cellini, l’esigenza per Michelangelo di una «imperativa unicità di visione», confermata dal suo modo di «cavare con lo scarpello le figure de’ marmi, come disse il Vasari, cioè il suo intendere come scultura «quella che si fa per forza di levare Quindi Michelangelo si sarebbe fermato allorché, cominciandosi la scultura «a volgere a poco a poco», la creazione di altri punti di vista ne attenuava l’eccellenza plastica. Osservazione indubbiamente acuta, e che aiuta a comprendere anche come Michelangelo trovi nella pittura, necessariamente legata all’unicità del punto di vista, il linguaggio nel quale più facilmente si attua la sua visione plastica.

Ma, come sempre avviene, quando si tenta di dare spiegazioni del perché un artista abbia prescelto una forma rispetto a un’altra, o meglio ancora del perché la sua realizzazione artistica risulti diversa dalle sue dichiarazioni di poetica, tutte le ipotesi ricordate possono essere accettate soltanto come approssimazioni più o meno legittime al processo spirituale del creatore. D’altra parte, non esiste un «finito» astratto, come non esiste un «non finito» astratto: la determinazione plastica, compiutissima, del Mosè, ad esempio, è ben altra cosa da quella della Pietà di San Pietro; così la non politura, la gradinatura, lasciate evidenti a bella posta nella Madonna «Pitti», o nel David-Apollo, per ammorbidire le superfici nella luce, sono molto diverse dal pittoricismo leonardesco della Madonna «Taddei», e più ancora dall’«indefinito», per desiderio di espressione psicologica (come ha notato l’Aru) delle teste del Crepuscolo e del Giorno della Cappella Medicea, o della Pietà del Duomo di Firenze; e nel San Matteo, negli Schiavi, o Prigioni, di Firenze, infine, ciò che è «non finito» non è soltanto il trattamento delle superfici, o la definizione naturalistica di alcuni particolari, ma proprio la composizione strutturale dell’immagine, la definizione a tutto tondo. Ogni opera cioè va considerata a sé, nella sua presenza figurativa, in rapporto alla poetica, alla aspirazione intellettuale dell’artista, nello svolgimento della cronologia interna del suo operare.

Storicizzando così il problema del «non finito» una delle prime resultanze sarà — è da ritenersi — il constatare che le prime opere alle quali, più o meno impropriamente, tale attributo può essere dato, appaiono nel tempo delle prime grandiose imprese michelangiolesche (Battaglia di Càscina, Tomba di Giulio II, Vôlta della Sistina), che è anche il tempo in cui la sua meditazione poetica sull’eroica dignità dell’uomo arriva a nuova ampiezza e complessità. La severa, ma sempre serena concezione di un’umanità dominatrice del proprio destino, va trasformandosi in quella, così terribilmente sofferta, dell’uomo specchio, sì, dell’universo, ma piegato dalla divina Necessità: cosciente di esser centro del mondo, ma non creatore, bensì cosa creata, e per sempre legata al peso della materia. E superba aspirazione dell’artista sarà di esprimere questa drammatica coscienza nel chiuso, serpentinato ritmo di una forma compiuta, assoIuta, come già si è visto. Nondimeno questa forma non potrà più essere ancorata ai termini di una immagine rinascimentale, sia pur essa la più scattante, violenta, spericolata. Quel fondamentale rispetto di un canone classico che era alla base di ogni creazione degli scultori quattrocenteschi è decisamente abbandonato: al «sogno rischioso di Michelangelo, come ha notaio il Longhi, risponde, figurativamente, la deviazione dalla concezione classica della forma. E la espressione figurativa nuova sarà appunto in simboli antropomorfici che trovano il loro canone di bellezza, il loro equilibrio formale, nella rispondenza delle deformazioni e dei rapporti «innaturali» di misure e di moti alla profonda, tormentosa visione morale di Michelangelo. Sarà proprio un «superorganismo titanico di schiavi impastoiati, di sibille altocinte, di vecchiezze immemoriali» (Longhi).

Si può ben vedere che gradinatura di superfici, pittoricismo leonardesco, indefinito «psicologico» , sono elementi secondari, effetti complementari, in rapporto all invenzione del complicato modulo compositivo delle sculture in cui essi son presenti. E che invece il «non finito» compositivo del San Matteo, degli Schiavi di Firenze, della Pietà Rondanini, è intimamente connesso al processo creativo dell’intera immagine. Ma, poiché ci si trova anche qui di fronte a piene realizzazioni poetiche, non sta a noi fare ipotesi sulle intenzioni di Michelangelo. In ognuno di quei capolavori l’invenzione compositiva risponde in tutto al mondo stilistico dell’artista: egli avrebbe ben potuto lavorare il blocco sino a sciogliere in tutte le sue implicazioni il motivo plastico già chiaramente enunciato, come invece può darsi che si sia fermato perché questa immagine di un’aspra lotta tra forma» e «materia» poeticamente esprimeva la sua «così grandiosa ansietà dell’inconciliabile» (Briganti).

Fermi così ai termini critici del problema, si guardi ora la prima delle sculture «non finite» di Michelangelo: il San Matteo. È questa l’unica figura di Apostolo alla quale il Buonarroti abbia lavorato, delle dodici ordinategli per Santa Maria del Fiore nel 1303; l’impresa non fu condotta a termine per l’improvvisa chiamata a Roma, nel marzo 1505, da parte di Giulio II, che affidò all’artista, forse dietro consiglio di Giuliano da Sangallo, l’esecuzione del suo monumento funerario. La scultura, anche se già «abbozzata», come scrisse anni dopo Michelangelo al Fantucci, prima di quella data, fu però molto probabilmente portata avanti nel 1506, quando egli fuggì di nuovo a Firenze, adirato col Pontefice che aveva cambiato idea circa il progetto della Tomba.

Questa scultura, senza dubbio una delle più alte espressioni poetiche di Michelangelo, è ancora una esaltazione di quella fiducia eroica dell’uomo, secondo la bella definizione del Mariani, già affermata nel David e nei disegni per la Battaglia di Càscina. Ma la serena energia di quei nudi, scattanti eppur composti nel ritmo di canoni classici, qui dà luogo a una forza appassionata, rude. Ogni armonia classicheggiante di «membra meravigliose» è abbandonata per creare questa immagine tutta vibrante di moti decisi, contrapposti: lo scatto della testa belluina, dal profilo risoluio, tagliente (lo si ritroverà nell’Eterno della Creazione dell’uomo nella Vôlta della Sistina), dal grande occhio intento alla apparizione divina; la spalla che si spinge fuori, a conirasio; la gamba sinistra, piegata ad angolo sull’altra, che preme dispertamente sul gradino, quasi per «sortire» dal marmo. E tutto questo tormentoso concatenarsi di urti delle masse acquista ancor più patetica suggestione dal fremere luminoso delle gradinature, delle sbozzature. Anche in questa immane figura di lottatore della fede, Michelangelo ha espresso il suo travaglio interiore nel più arrischiato nodo compositivo, che solo la sua grandezza e la sua complessità spirituale, biblica o dantesca che dir si voglia, regge al limite di un tour de force formale.

Si cerchi quindi di immaginare cosa dovesse essere, nella fantasia di Michelangelo, la Tomba di Giulio II, concepita appunto come «poema» di questa lotta dell’uomo per «conquistare» la pace gloriosa nella Fede. L’artista aveva ideato quella «grandiosa piramide della catarsi» (Tolnay), ispirandosi agli antichi mausolei, reinventando quindi, anche in questo complesso architettonico, come nelle sculture, motivi classici, con la potenza della sua rivoluzionaria coscienza cristiana. Anche dalle descrizioni del Condivi e del Vasari, pur generiche e contrastanti, risulta però evidente la grandiosità di questa struttura architettonica (vedi il grafico alla pagina 64): un’edicola a quattro facce, lunga diciotto braccia e larga dodici, con all’interno la cella per la tomba papale, isolata nella crociera di San Pietro. E tutto animato dagli Schiavi ribelli alle catene, dalle Vittorie tese nei loro scatti vibranti, dalle Sibille e dai Profeti gravi di umana esperienza e terribili e atterriti di ispirazione divina, sino alla spoglia mortale del Papa, sorretta da Terra e Cielo. Nella glorificazione di un individuo era così cantata la storia spirituale, eterna, del genere umano; e tutto doveva essere espresso da forme esemplificate sull’uomo e sulla sua conoscenza, sul suo dominio dello spazio. È questo il sogno più arduo di Michelangelo: raccogliere l’infinito, l’eterno, l’universale, in una struttura chiusa, cristallina, tutta regolata dalla ragione e dalla coscienza, svolta compiutamente in un ritmo misurabile dalla percezione dell’uomo. Realizzare questo poema sarà l’aspirazione e il tormento di tutta la sua vita; e si capisce che la «tragedia della Sepoltura» non sarà soltanto determinata dagli ostacoli esterni che via via si frapporranno al compimento dell’opera, ma anche, e principalmente, dalla sua appassionata esigenza di risolvere in tutto, senza approssimazioni e rinunce, la sovrumana impresa. E preferirà infine abbandonarla, attuando il progetto, solenne ma estraneo a quelle grandi idee, della Tomba che si ammira oggi in San Pietro in Vincoli.

Nel corso della sua attività, Michelangelo aveva invece riaffrontato il suo «sogno sia dandone il nucleo lirico nelle sculture singole, dagli Schiavi alle Pietà, sia impostandolo in differenti formulazioni figurative, come nella Cappella Medicea, sia infine esprimendolo negli affreschi della Sistina o nell’architettura di San Pietro. Il primo progetto della Tomba, è noto, fu abbandonato dopo un intero anno di fervido lavoro preparatorio. Ottenuta, nel 1505, l’approvazione di Giulio Il, Michelangelo si era recato a Carrara, dove restò otto mesi per la scelta e l’estrazione dei marmi. Ma, al suo ritorno a Roma, trovò il Pontefice non più disposto a far proseguire i lavori: la costruzione della nuova tribuna di San Pietro, che doveva accogliere il monumento, e che era stata progettata dal Rossellino, era stata abbandonata, per il nuovo progetto dell’intera Basilica, presentato dal Bramante. I rivali di Michelangelo non avevano perso tempo: il Papa non volle nemmeno riceverlo.

Il dolore, lo sdegno, l’ira, spinsero Michelangelo il 17 agosto 1506, alla vigilia della posa della prima pietra della nuova Basilica ideata dal Bramante, a fuggire a Firenze. Come si è già detto, in questo nuovo soggiorno fiorentino, Michelangelo si getta, con passione disperata, al lavoro: riprende la Battaglia di Càscina, il San Matteo, forse le due Madonne a bassorilievo. Resiste alle sollecitazioni e alle minacce del Papa, finché, spinto anche dal Soderini, si deCide a ripresentarsi sottomesso, ma non pentito, a Giulio Il, raggiungendolo a Bologna, allora riconquistata dal Pontefice. È il novembre del 1506. La riconciliazione è suggellata dalla commissione a Michelangelo di una grande statua bronzea, raffigurante Giulio II seduto, e destinata alla facciata di San Petronio. Il lavoro fu lungo: l’artista, poco pratico della tecnica del bronzo, dovette faticar molto per vincere le difficoltà e ottenere il resultato desiderato. Finalmente, nel febbraio del 1508, la statua fu collocata sulla facciata della Basilica, ma già nel 1511 era distrutta dal popolo che festeggiava il ritorno dei Bentivoglio: purtroppo non ne son rimaste copie né disegni.

Nel marzo 1508, l’artista è di nuovo a Firenze, ma già nell’aprile lo ritroviamo a Roma, dove di lì a poco, il 10 maggio, firma il contratto per la decorazione ad affresco della Vôlta della Cappella Sistina. E, da allora, sono quattro anni di tremendo lavoro, che sembra superiore a ogni umana resistenza; l’uomo, che nei miti e nei fatti della propria storia millenaria riconosce ed esemplifica i momenti della sua vita spirituale, ha nelle terribili figurazioni di questa vôlta il suo poema, come doveva averlo nel monumento tombale di Giulio II. E come in quel progetto, anche nell’affresco, struttura architettonica e figure sono inscindibilmente connesse in un ritmo di straordinaria energia, in un organismo aperto a infiniti moti, eppur dominato da un ordine razionale, controllabile, specchio dell’armonia universale.

Più tardi, nello Schiavo morente del Louvre, si potrà riconoscere, come ha notato il Bertini, il ripensamento e lo sviluppo del motivo svolto Ignudo di destra sul trono della Sibilla Libica

Questa scultura, con l’altra detta lo Schiavo ribelle, fu lavorata da Michelangelo nel 1313, quando, morto Giulio Il, l’artista firma un altro contratto per la sua Tomba con gli eredi: un foglio dell’Ashmolean Museum di Oxford porta sei schizzi di figure di schiavi, databili appunto al 1512-13, e uno di essi è riferibile senza dubbio al Ribelle.

Nelle due sculture del Louvre l’impostazione della figura riprende un modulo di «contrapposto che era già stato variamente saggiato dal Tondo Doni al San Matteo, dalla Battaglia di Càscina alla Vôlta della Sistina, non del tutto assente dalle vibrate articolazioni dinamiche dei nudi scolpiti, incisi, dipinti dai quattrocentisti fiorentini, e svolto spesso da Leonardo, specialmente negli schizzi per una figura di San Sebastiano. Ma il fluido movimento leonardesco qui, come nelle precedenti opere di Michelangelo, è sostituiio dalla bloccatura di un gesto che, impegnando tutto il corpo nella più faticosa tensione, lo articola secondo un complicato rapporto di movimenti nello spazio, che ne esalia la potenza plastica. Così ogni atto è amplificato, fatto eroico, per la fatica cui impegna il corpo, e che è misurata dallo scatto di ogni muscolo, di ogni tendine di questi titani impastoiati dal loro stesso peso fisico. Lo Schiavo morente ha il grande, giovane corpo iscritto in una lunga linea ondosa i cui opposti culmini sono nel gomito puntato al cielo e nell’anca: sembra lasciarsi scivolare nel vuoto, con un compiaciuto, sensuale abbandono, che aleggia sul bellissimo volto, chiuso nel sogno. E la mano lascia ormai la presa sulla fascia che attraversa il torace, mentre le gambe si tendono nell’ultima resistenza. Questa forma snodata nella luce rinnova, nel suo sofferto patetismo, il ricordo dei marmi pergameni, e si capisce come potrà dare spunto ai manieristi, ben lontani da quel severissimo travaglio morale, per nuovi canoni di bellezza formale e per inquietanti, morbidi atteggiamenti spirituali.

Se lo Schiavo morente ormai si offre, affranto, alla pace, lo Schiavo ribelle lotta accanitamente contro i legami, torce disperatamente il volto al cielo, chiuso in una muta sfida o in una accorata aspirazione. Anche in questa scultura la tremenda violenza dinamica è espressa dal contrapposto compositivo: sopra l’urto in avanti della spalla massiccia scatta verso l’alto la testa, e alla torsione del corpo si accompagna l’opposta diversione della gamba piegata. Così, in termini di selvaggia, titanica fisicità, si esprime I insopprimibile esigenza spirituale della libertà, della rivolta.

Un’altra figura Michelangelo scolpì dal 1513 al 1516: il Mosè, unica scultura, tra quelle ideate ed eseguite per i primi progetti della Tomba, che abbia poi trovato sistemazione nella redazione ultima del monumento. Il Profeta, simile per grandiosità e per terribile energia spirituale a quelli della Vôlta della Sistina, è, come quelli, raffigurato seduto, ma tutto vibrante di scatti che animano la sua enorme massa e ne rivelano la sovrumana potenza. Già la posa del corpo, che ripete quella del Profeta Gioele e che sarà ripresa e variata nella statua di Giuliano de’ Medici, presenta la figura tesa e pronta all’azione: il piede sinistro preme all’indietro, e dà al corpo una torsione accentuata dall’impetuoso scatto della testa, e controbilanciata dall’avanzare del braccio e dal corso della grande barba. La luce corre su questa superficie liscia, morbida, finitissima, accrescendo — con la vibrazione data alle pieghe taglienti del panneggio, al gioco dei muscoli e dei tendini, alla cascala della barba — quel senso di moto continuo eppur dominato, già indicato nella stessa composizione del blocco. Così questo gigante, questa raffigurazione simbolica di un sacro sdegno, rivela ancora una volta i nuovi canoni dell’antropomorfismo michelangiolesco, non più ispirato a un ideale equilibrio classicisiico o a un interesse naturalistico, ma alla tormentosa concezione morale dell’artista.

Michelangelo stava forse ancora lavorando al Mosè, quando firmò il terzo contratto per la Tomba di Giulio II, nel luglio 1516. Il progetto del monumento è ancora cambiato di proporzioni e ridotto di mole e di decorazioni scultoree. Ma, al solito, altri impegni sopravvenuti impediscono ancora a Michelangelo di dedicarsi completamente alla sua grande opera. Questa volta è Papa Leone X che, grande ammiratore e amico dell’artista, da lui creato Conte palatino, lo incarica di costruire la facciata della Chiesa di San Lorenzo a Firenze. Dal 1516 al 1520 è un suo continuo correre tra Roma, Firenze, Carrara, Pietrasanta (dove sceglie i marmi per la facciata): e fa il modello dell’opera, comincia a lavorare il marmo; ma nel marzo 1520 il Papa annulla il contratto, offendendo profondamente l’artista. Uniche opere scultoree di questi anni sono le due versioni del Cristo risorto, ordinatogli sin dal 1514 per la Chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma. La prima versione, cominciata in quell’anno e lasciata incompiuta per difetti del marmo, è andata perduta. La seconda, pur infiacchita dai guasti e dalle riprese, conserva un’alta armonia formale. Il nudo classico è impostato secondo un quieto ritmo a spirale, e l’espressione dolce del volto, inclinato clemente verso i fedeli, è l’unica concessione alle norme iconografiche della tradizione. Anche in quest’opera Michelangelo ha voluto dare un significato cristiano alla forma pagana.

Sempre in questi anni è un altro grande progetto, rimasio irrealizzato: nell’ottobre del 1519, Michelangelo offre al Papa di fare una Tomba di Dante, a Firenze. Così egli voleva onorare il Poeta, di cui fu sempre appassionato ammiraiore e studioso, come testimonia, non soltanto la sua stessa opera figurativa, ma la sua poesia egli scrisse sonetti dedicati a Dante — e un dialogo di Donato Giannotti.

Fallita anche questa iniziativa, Michelangelo resta a Firenze a lavorare alle sculture per la Tomba di Giulio II, rifiutando gli inviti degli amici, specialmente di Sebastiano del Piombo, a tornare a Roma, ora che la morte di Raffaello gli apre la via al Vaticano. Intanto è sollecitato da Giulio de’ Medici, che fu poi Clemente VII, e dallo stesso Leone X, ad accettare l’incarico di costruire in San Lorenzo una Cappella destinata ad accogliere le tombe di Lorenzo il Magnifico e di suo fratello Giuliano, di Lorenzo Duca d’Urbino e di Giuliano Duca di Nemours. Dopo un primo rifiuto, Michelangelo, nel novembre del 1520, accetta, mantenendo l’impegno anche per la Tomba di Giulio II. Mentre ferve il lavoro per la Cappella, nel 1524, Clemente VII lo incarica anche dell’esecuzione della Biblioteca Laurenziana. E sino al 1536, anno in cui Michelangelo si stabilisce definitivamente a Roma e inizia l’affresco del Giudizio Universale nella Cappella Sistina, per commissione di Paolo II, è un periodo di lavoro accanito, di vicende burrascose: in vari soggiorni a Firenze e a Roma si alterna l’attività per la Tomba di Giulio II — di cui presenta altri due progetti (nel 1526 e nel 1532) agli eredi che protestano per il ritardo dell’esecuzione e lo minacciano a quella per la Cappella Medicea, per la Biblioteca Laurenziana, per il Ciborio e per il Pergamo delle reliquie in San Lorenzo.

Nel 1527, quasi presentendo il sacco di Roma, l’artista si era recato a Firenze, dove — dopo la cacciata dei Medici — si era messo a disposizione della Repubblica, che lo aveva incaricato delle fortificazioni della città. Compiuto, poi, un viaggio a Ferrara, dove aveva studiato quelle celebri fortificazioni e aveva avuto commissione di un dipinto dal Duca Alfonso, per il quale seguì il cartone della Leda, nel settembre 1529, sospettando il tradimento di Malatesta Baglioni, fuggì di nuovo a Ferrara e di là a Venezia. Fu dichiarato allora ribelle dalla Repubblica, ma presto ottenne il perdono, e, durante l’assedio, tornò a Firenze, dove si comportò valorosamente. Capitolata la città, si nascose dapprima nella Torre di San Niccolò, ma, perdonato dal Papa Clemente VII, riprese il lavoro per la Cappella Medicea. Oltre a quelle sculture, sono di questi anni il DavidApollo, i cartoni del «Noli me tangere» e della Venere e Cupido, La Vittoria del Palazzo della Signoria, forse anche gli Schiavi dell’Accademia, e una serie di disegni di soggetto mitologico fatti per Tommaso Cavalieri, giovane romano di straordinaria bellezza e di grande sensibilità, al quale Michelangelo si era legato di profonda, affettuosa amicizia.

Di pochi anni precedente, forse del 1528, è invece il bozzetto in creta per un Ercole e Caco (Casa Buonarroti). Nel potente movimento a spirale delle due figure avvinghiate torna il motivo eroico e doloroso dell’uomo impegnato sempre in una lotta disperata. Basta questo bozzetto, in cui l’esasperata torsione, l’elaborata composizione del groviglio dei corpi si fanno immediatamente umanissimo dramma, per sentire come la poesia di Michelangelo restasse inaccessibile, incomprensibile ai suoi seguaci e ammiratori: e non soltanto a quelli che tentavano il gigantismo in povere accademie o agli intelligentissimi ricercatori di fredde eleganze, di elaborati virtuosismi formali, ma persino ai più grandi, a quelli la cui «invenzione» è sorretta, sì, da un tormento morale, e però accettato ormai con crudele, ossessivo compiacimento.

Ma la più alta meditazione poetica di Michelangelo sul rapporto fra Uomo ed Eternità è certo espressa nella Cappella Medicea. Nell’esatto rigore di quello spazio chiuso, regolato da norme di «divina proporzione», il richiamo al Brunelleschi è scoperto; ma la limpida serenità, la semplicità aurea con cui Filippo esprime la sua presa di possesso dello spazio, qui dà luogo a una solenne severità, che trova forma nel complesso comporsi delle parti strutturali e degli elementi ornamentali. Questo tempio è la creazione di una coscienza disperatamente eroica: facendo rivivere le potenti membrature della classicità romana nella nitida formulazione prospettica rinascimentale, Michelangelo esprime ancora la sua aspirazione di chiudere in una forma «perfetta» la tormentosa lotta dell’uomo tra velleità e necessità, tra ribellione e consapevolezza. E questa architettura, che risolve in un ritmo grave la violenta energia plastica delle membrature in macigno, dei timpani, dei cassettoni della vôlta, delle mensole e volute e frontoni del rivestimento marmoreo, è commento corale alle figure scolpite sulle tombe. In esse l’artista ha figurato la storia spirituale dell’uomo: i simboli antropomorfici del tempo «che tutto consuma» sono anche immagini delle ore «interne» del nostro spirito — ira, sdegno, sconforto, abbandono. E par che i giovani eroi si volgano a Maria, come al più alto esempio di dolorosa, ma serena accettazione del Fato. Così essi son simbolo dell’uomo che, riconoscendo quanto la sua natura e il suo destino siano retti dalle stesse norme che regolano l’eterna vita dell’universo, si innalza sui travagli che segnano il tempo della sua esistenza terrena, e ritrova fiducia nella dignità del suo pensiero e nella validità della sua azione.

Queste figure, che pur sono assolutamente «inventate» rispetto a dati naturalistici, e che un legame compositivo, ricercato e coerente sin nei minimi particolari, dispone in rapporti, inalterabili tra loro e con l’architettura, sembrano tuttavia liberi organismi naturali, hanno una terrificante presenza fisica, vitale, quasi si atteggiassero ognuna secondo propri impulsi e moti spirituali. Esse abitano veramente questo recinto solenne, misurato alle loro proporzioni, configurato alla drammatica gravità dei sentimenti che quelle esprimono. Nel sospeso silenzio della Cappella, ecco il solitario tormento delle grandiose allegorie del tempo, e l’assorta meditazione di Lorenzo e la decisa prontezza di Giuliano; ecco, tra i Santi scolpiti dal Montorsoli e da Raffaello da Montelupo, la Madonna col Bambino, intenta al pensiero della Morte, eppur disperatamente offerta alla sete di vita del Figlio.

Anche per la Cappella Medicea Michelangelo elaborò diversi progetti, come è testimoniato da alcuni disegni, prima di giungere al definitivo, tanto rivoluzionario rispetto alla tradizione. La Cappella avrebbe dovuto essere, secondo le sue intenzioni, arricchita di altre sculture e di affreschi. Delle statue, escluse poi dalla definitiva realizzazione, ne restano due. Il Modello per un dio fluviale dell’Accademia di Firenze — quale un «Diòniso fidiaco che abbia perso l’ideale equilibrio del suo corpo di semidio nella dolorosa fatica del lavoro umano — si protende con sforzo, vinto dal peso della sua carne stanca di atleta maturo: sono ancora gli esempi ellenistici, come il «Torso del Belvedere» che Michelangelo interpreta e rinnova. E il Giovane accosciato di Leningrado, questo «cavaspina» ridotto a nodo di muscoli pulsanti, viluppo di membra che nella forzata pressione s inturgidiscono e si tendono. Pare che Michelangelo voglia saggiare ogni modello compositivo che, costringendo il corpo a posizioni complicate e malagevoli, ne faccia risaltare la pesante struttura fisica e insieme la carica di energia che se ne sprigiona.

Nelle grandi statue dei sepolcri medicei questa sorta di angoscioso titanismo, questa ricerca di forme massicce agitate da una cieca ribellione si esprime in diverso linguaggio plastico. Cioè, in luogo dei groppi compatii e convulsi di masse, che si son visti nell’Ercole e Caco, nel Giovane accosciato, nel Dio fluviale, qua blocco ed energia si fondono in Immagini il cui modulo compositivo risponde a ritmi più sciolti, più aperti. Le figure si allungano, si dispongono in 35

profili ellittici, entro i quali sono costrette, sì, a moti complicati, ad atteggiamenti «serpentinati», ma ben scanditi nelle superfici aperte alla luce. L una ripresa superba di quell’arduo e lucidissimo contrapposto che si era prima espresso nel Tondo Doni e nella Vôlta della Sistina. Per questo, molti studiosi hanno parlato di rapporti con i «manieristi», e il Tolnay ha scritto che «l’eccesso delle forze sembra esausto, l’artista guarda allo spettacolo della vita come dall’altra riva. Si veda come nella composizione stessa dei mausolei, in quella apparente chiusura piramidale, che invece è abolita dalla decisa diversione delle molte linee di forza che la percorrono, si rivela lo studio di rapporti ritmici complicatissimi: consonanze di atteggiamenti contrapposti, tra figura e figura, e nelle singole sculture divergenze di scatti e di direzioni. Eppure questa raffinata, razionale dialettica dinamica si scioglie nella severa gravità, nella sublime immediatezza di un sentimento poetico che fa dimenticare ogni calcolo stilistico, ogni elaborazione culturale. Ecco il ricercato atteggiarsi del Lorenzo risolversi in un quieto moto chiaroscurale sulle ampie superfici, in un’onda lenta che dolcemente chiude il grande corpo, e che sembra partire dall’elmo che isola nell’ombra il bel volto intento. E sotto a questa figura, in cui la forma chiusa esprime l’assorta meditazione, ecco offrirsi alla luce, snodate nella loro «continuata bellezza le allegorie del Crepuscolo, sul cui torace ampio, potente, ma rilassato, si piega il volto annuvolato di malinconia e di sconforto, e dell’Aurora, giovane Sibilla disperata di ridestarsi alla coscienza. Il Giuliano invece par pronto a scattare, a un segno divino; e tutta la scultura è regolata, all’opposto del Lorenzo, da moti improvvisi, protesa nello spazio. Sul suo sarcofago, La Notte e Il Giorno, seguendo il canone del contrapposto, sono allora due titani avviluppati in un complicato intreccio di membra, nodi plastici di inaudita tensione. Pare che La Notte voglia disperatamente chiudersi nella illusoria pace del sonno:

Caro m’è il sonno, e più l’esser di sasso

mentre che ‘l danno e la vergogna dura;

non veder, non sentir m’è gran ventura,

però non mi destar, deh, parla basso.

Questi versi di Michelangelo restano la più appropriata esegesi della scultura. E Il Giorno, terribile gigante sdegnoso di ogni azione, volge irato il volto, che sembra ridotto al solo sguardo di accusa, tagliente.

Ma il più alto di questi capolavori resta la figura della Madonna col Bambino, così lontana da quel tumulto di passioni, assorta in un dolore rassegnato, in un pensiero che la fa assente quasi ai suoi stessi atti: Michelangelo riprende, con più profonda esperienza umana e con piena autonomia espressiva, il pensiero poetico che, giovinetto, figurò nella Madonna della Scala. La Vergine, ora, dispone il suo corpo in modo che il Bambino, voltatosi improvviso a cercar il seno, possa arrivarvi senza lasciare il gioco di cavalcar la sua gamba. Si protende, Maria, e cerca dietro di sé un sostegno. Ma fa tutto questo meccanicamente, si direbbe, con quella sicurezza di gesti dettati dall’istinto e dalla dolce abitudine di madre, che non impegnano l’attenzione; la sua mente è persa dietro il pensiero che accompagna ogni momento della sua vita, il suo sguardo è lontano. E sia perdonata questa povera parafrasi dell’opera; valga essa almeno per intendere come una composizione apparentemente elaborata e dettata da norme di raffinato manierismo (la figura serpentinata, il gruppo legato a spirale) sia invece la trasfigurazione poetica di atti fra i più quotidiani e veri.

In altre opere, di incerta destinazione e datazione, ma che si possono ritenere compiute nello stesso decennio, tra il 1525 e il 1535, Michelangelo rivela in qual modo una sigla formale, un modulo stilistico possano essere volti ai più diversi significati poetici. Il David-Apollo par quasi riecheggiare infatti il Cristo di Santa Maria sopra Minerva, come è stato notato; ma è inutile sottolinearne la sostanziale differenza. ln questa figura sognante, svolta nell’onda armoniosa di un gesto sospeso, dolcemente vibrante nella luce per la morbida gradinatura che rende fluido ogni profilo e fonde i diversi piani, freme un inquieto languore, un trepido compiacimento per la bellezza. Nella Vittoria di Palazzo della Signoria, invece, il motivo delle due figure congiunte in un moto a spirale, che si è già visto simile nel bozzetto per l’Ercole e Caco, trova tutt’altra giustificazione poetica, tutt’altra realizzazione plastica. Mentre nel bozzetto, infatti, è un gruppo di turgide masse che si avventano furiosamente verso il basso, qua è un efebo che — indifferente ormai verso il gigantesco barbaro sconfitto, protervamente chiuso nella sua angoscia di servire da vile piedistallo snoda verso l’alto, in una mossa di ricercata eleganza, il suo corpo nervoso. Come nelle Tombe Medicee, la figura, proporzionata non secondo dati naturalistici o canoni classici, ma soltanto al proprio ritmo dinamico che la snellisce e l’allunga, si torce in un calcolato atteggiamento di esasperato contrapposto, armonioso e incredibile. E alla appassionata gravità del vinto risponde l’atona fissità del bellissimo volto del giovine eroe.

Forse questa scultura fu eseguita per il quinto progetto, del 1532, della Tomba di Giulio II; e di poco tempo dopo dovrebbe essere la mirabile serie degli Schiavi dell’Accademia di Firenze, che però molti studiosi datano assai prima. Dinanzi ai quattro colossi abbozzati, a queste immani figure della disperazione e della rivolta, sembra impossibile tentare un commento che riesca a rendere la sovrumana potenza del loro messaggio poetico. Come nella Cappella Medicea le allegorie del tempo esprimono il tormento dei dolori e delle vane aspirazioni — superato nel momento stesso che l’uomo riesce ad abbracciare col pensiero l’architettura dell’universo, e in essa la propria posizione, i propri limiti, il proprio campo d’azione — così gli Schiavi dovevano rappresentare, nella struttura allegorica della Tomba, il momento delle passioni non dominate dalla coscienza, la cieca furia di chi, non illuminato dalla fede (che è a dire dalla ragione), non accetta la propria condizione, o soltanto la subisce, affranto. Pare che il Giovane schiavo voglia nascondersi nel pianto della vergogna, che ne scuote il corpo inutilmente potente, mentre il Barbuto si accascia, rassegnato al suo destino di servo; l’Atlante sostiene il peso enorme che i vincitori gli hanno imposto, e la sua ribellione si manifesta nell’odio che saetta dallo sguardo; l’ultimo, che è detto lo Schiavo ridestantesi quasi per analogia con L’Aurora, si torce spasmodicamente, premendo contro la materia che lo rinserra, e scatta al cielo la testa tesa in un muto grido di protesta e di implorazione.

Come si è già detto, l’invenzione compositiva di queste figure è pienamente evidente e tutta leggibile anche nel non finito» : certo, però, è tale l’energia poetica di questo contrasto patetico ira forma e materia, è tale la suggestione di questa nascita faticosa dell’uomo dal magma originario che per sempre lo tiene avvinto, che è legittimo porsi la domanda se Michelangelo non abbia così, coscientemente, dato vita a una nuova espressione plastica. Tuttavia, valga ripeterlo, non sta a noi rispondere, anche se, pensando alle Statue Medicee e alle Pietà, sembri che la presenza dialettica nella stessa scultura di elaborati ritmi «perfetti» e di zone fatte vive, nel loro informe peso, da fulminee sbozzature, riveli una precisa intenzione stilistica. Fatto è che in questi Schiavi, in questi Prigioni, si ha la più alta esemplificazione della poetica michelangiolesca:

Non ha l’ottimo artista alcun concetto

ch’un marmo solo in sé non circoscriva col suo soverchio,

e solo a quello arriva la man, che ubbidisce all’intelletto.

Se si ripensa ora ai primi Schiavi, quelli del Louvre, e alle sculture del decennio precedente a questi di Firenze, si osserva come il modellato compatto e duttile, lo scatto energico di quelle forme nitide, articolate secondo un nervoso dinamismo di contrappunti plastici, siano qui sostituiti un grave espandersi di lente masse, di ampie superfici offerte scabre alla luce, la cui torpida forza è improvvisamente rivelata dal taglio deciso dei profili sul blocco, violente sbozzature. «È chiaro», scrive il Carli, «il trapasso verso l’ultimo stadio dell’arte michelangiolesca, nella quale il progressivo interiorizzarsi dei rapporti dinamici impressi alle figure si riassumerà in rapidi accenni essenziali, pure esalazioni di vita emerse dal disfacimento della materia Sarà questo il linguaggio dei grandi affreschi del Giudizio Universale nella Cappella Sistina e delle Storie di San Pietro e di San Paolo nella Cappella Paolina, a Roma. E ne son testimonianza anche i disegni fatti per Tommaso Cavalieri e per Vittoria Colonna, l’amatissima amica e ispiratrice, che guidò e confortò l’artista nei suoi aspri tormenti morali e religiosi.

Sarebbe troppo lungo, ed esula dai limiti di questo breve discorso, seguire tutta l’attività di Michelangelo nel suo ultimo periodo romano, parlare di opere immense come gli affreschi vaticani o il San Pietro. Le sculture di questo tempo ultimo della sua vita hanno però un particolare valore, e permettono di seguire la storia spirituale più intima dell’artista. Compiuti i grandi cicli pittorici, infatti, liberato dal tormento dell’impegno con gli eredi di Giulio Il, Michelangelo, carico ormai di gloria e di onori, si dedica tutto a opere architettoniche, quale lavoro «ufficiale e che può solo rispondere alla sua esigenza di esprimere la struttura cosmica; e alle sculture, che fa soltanto per sé, affida come la segreta confessione della sua anima, e la ricerca, nel travaglio della creazione, di una quiete al proprio tormento morale. Ancora a Firenze, aveva pensato di poter innalzare, sulla piazza di San Lorenzo, per ordinazione di Clemente VII, un Colosso, che servisse da campanile alla Chiesa, «e usciendo el suono per bocca, parrebbe che detto colosso gridassi misericordia; e massimo el dì delle feste, quando si suona più spesso e con più grosse campane». Tornava a tentarlo l’antica aspirazione di fare gigantesco», che già gli aveva suggerito l’idea di una statua scolpita direttamente nel massiccio delle Alpi Apuane; ma ora essa si colorava di quella ossessiva angoscia che darà il tono agli affreschi romani.

Per l’amico Donato Giannotti, poco dopo il 1539, a Roma, scolpì il busto di Bruto. Il motivo dei ritratti imperiali romani è, come sempre, non più di uno spunto esteriore: soltanto di Michelangelo è questa riduzione di un complesso nodo di sentimenti a severa assolutezza, a scabra semplicità. Ogni accentuazione retorica o compiacenza patetica è esclusa: nel solo scatto della piccola testa, compatta nella tensione delle superfici decisamente scandite, nella cruda fermezza del profilo classicheggiante, è espressa la sicura fiducia del tirannicida nella necessità e nella giuStezza della propria azione. Bastano minime vibrazioni e in flessioni del modellato, fatto sensibilissimo alla luce per l’uso della gradinatura, a dare a una maschera idealizzata la vita di un personaggio.

Soltanto nel 1545 Michelangelo poté vedere compiuta l’opera che era stata il tormento di tutta la sua vita: ma come diversa da quanto egli aveva sognato! La Tomba di Giulio II, quella che doveva essere la sua massima creazione, il grande poema delle sconfitte e delle glorie dell’uomo, dei suoi dolori e della sua dignità, quale ora la si ammira in San Pietro in Vincoli, non è che l’ombra dei grandiosi primi progetti dell’artista, una disperata soluzione accettata per porre fine alle continue insistenze dei committenti, che lo minacciavano, lo calunniavano, accusandolo di mancata fede agli impegni, e di furto. «Io mi trovo aver perduto tutta mia giovinezza, legato a questa Sepoltura!», aveva un giorno scritto Michelangelo, in una sdegnata difesa della sua opera. La struttura architettonica del mausoleo è ancora potente, nel rigido ritmo delle nitide membrature, nello scatto cristallino dei pieni e dei vuoti; e giustamente il Tolnay ha notato come, nella veduta laterale, si possa cogliere il pieno valore di questa severissima composizione strutturale, che va sempre più semplificandosi verso l’alto, cui tendono le fasce rastremate dei pilastri, nude, luminose. Ma le fiacche statue, eseguite dagli aiuti, immiseriscono l’opera, che in fondo non è che la solenne cornice del Mosè. Certamente di Michelangelo sono però anche le figure di Lia e di Rachele, e segnano un momento importantissimo del suo percorso stilistico. Solitamente accusate di freddezza accademica, attribuite spesso ad allievi che avrebbero infiacchito il progetto del Maestro, esse sono invece opere in cui una profonda meditazione poetica si esprime in linguaggio di straordinaria coerenza e novità. L’intervento parziale degli aiuti, limitato a certe finiture e alla politura, non ne diminuisce certo il valore e il significato. Non è da cercare in queste sculture l’ardente, tormentosa foga, o la fiera decisione plastica ammirate in tante altre opere di periodi diversi, ma un quieto fuoco, una serena fiducia che si esprimono nel lento moto ondoso che regola il disporsi di queste immagini della Fede e della Carità. Nelle due figure di Lia e di Rachele si deve riconoscere l’espressione plastica di quel momento di coltissima, rigorosa ricerca di forme severe, solenni, castigate, si direbbe, testimoniato anche da disegni di quel periodo. È come la sublimazione poetica di rigidi princìpi religiosi: un titanismo placato in una purissima contemplazione mistica.

Questa ansia religiosa di Michelangelo, questa sua meditazione ossessiva sulla salvezza che l’uomo può trovare innalzandosi sulle passioni terrene nella contemplazione delI ordine divino, era alimentata in quegli anni anche dai rapporti con il gruppo di seguaci di idee di riforma in seno alla Chiesa, che si raccoglievano intorno a Vittoria Colonna. Ma non è dato immaginare un Michelangelo seguace di una qualsiasi dottrina: egli era chiuso nel solitario colloquio con la propria coscienza. Nei grandiosi lavori architettonici ormai trovava modo di esprimere la sicura fiducia dell’uomo nella propria opera, dopo che, riconosciuta la necessità della sua condizione, egli può dominare il proprio spazio e chiuderlo in edifici che ripetono la loro articolazione dalle norme ideali che regolano la struttura del cosmo. E nelle sculture, segretissimi sfoghi, appassionatamente cercava di esprimere la sua gratitudine al Cristo che col suo esempio gli aveva rivelato la via della pace, della salvezza — tornando più volte a figurarlo nel sacrificio: la spoglia dell’Uomo «ch’aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia» è offerta alla meditazione, alla venerazione dei suoi simili.

Oltre a un rilievo fatto per Vittoria Colonna, e che si conosce soltanto attraverso copie, Michelangelo, in questi ultimi decenni della sua vita, dal 1545 circa alla morte, lavorò a tre gruppi della Pietà. E attraverso di essi è possibile seguire non soltanto il progressivo svolgimento di quell’idea poetica in espressioni sempre più assolute, scarne, sintetiche, ma anche il corso stilistico del linguaggio michelangiolesco.

La prima in ordine di tempo sembra essere la Pietà di Palestrina. L’autografia di quest’opera è ancora molto discussa, e in effetti il trattamento delle superfici, meno vibrante che nelle sculture documentate, certe morbidità inconsuete, l’assoluta mancanza di notizie anche in antiche biografie, giustificano in parte i dubbi di alcuni studiosi. È dato però pensare a una maldestra ripassatura del modellato, operata al tempo in cui il gruppo fu posto nella Cappella del Palazzo Barberini a Palestrina, e presentato, secondo un deteriore gusto barocco, sotto un pesante drappeggio in stucco, quasi a nascondere il «non finito» o per alterarne il significato in un senso di moto chiaroscurale seicentesco. Certo è che qui il patetismo michelangiolesco è portato a un punto estremo, quasi a una forzatura scenografica. È riconoscibile il punto di partenza di queste forme espanse, di queste enormi masse inerti, nel largo modellato degli Schiavi di Firenze, ma portato ormai a una disfatta pesantezza. Ed è appunto la consonanza poetica con il mondo dei torpidi giganti che franano nell’affresco del Giudizio Universale e che accampano «malcontenti» le loro moli grevi e opache sulle pareti della Cappella Paolina, a far sentire che si è di fronte a un’opera che può essere stata ideata soltanto da Michelangelo, in quegli anni, anche se ripresa da altri, in seguito. Il Cristo, enorme corpo rilassato, crolla in avanti, troncando le gambe inerti, e Maria lo stringe a sé, intenta disperatamente al suo volto, mentre Maddalena, piegata nello sforzo di sostenere il cadavere, si volge a chi guardi, quasi a chiederne aiuto. E l’enorme torace di Gesù lega, col suo lentissimo espandersi, i punti di moto contrapposto del gruppo: il crollo della testa e del braccio, e la tensione verso l’alto di Maddalena. All’infrenabile slittamento del cadavere verso la terra si oppone disperatamente la volontà della Madre.

A questo momento di sconsolata poesia, di fantasia ossessionata dalle angosciose immagini di un mondo condannato al vano peso della materia cieca, si è visto alternarsene altri di grave serenità conquistata con la fede, e, stilisticamente, di ripresa degli energici ritmi plastici del periodo della maturità, composti però in una severa armonia. La splendida Pietà del Duomo di Firenze, lavorata tra il 1547 e il 1555, è composta appunto secondo un modulo piramidale tutto animato da un complicato intreccio di moti contrapposti, improvvisi e scattanti. Eppure il gruppo è raccolto in una pacificata armonia di dolente tenerezza. Nicodemo è Michelangelo stesso che sostiene e contempla l’abbraccio di Maria al Figlio morto: Maddalena lo aiuta e si volge agli astanti. Così tutto converge al nodo straziante della Vergine e di Cristo. Il gruppo, nella visione frontale, è molto ampio, ma non si presenta più come un enorme blocco squadrato, quale appariva la Pietà di Palestrina, bensì come un organismo tutto fremente di sussulti e di spezzature. Dal vertice del cappuccio di Nicodemo si muove un’onda lenta che, allargandosi, si frange in sempre più drammatiche contrapposizioni di forme scarne, allungate, tagliate da profili guizzanti, sino a placarsi nell’ampia base della piramide, ma con un ultimo improvviso risucchio nella cavità aperta dietro la gamba del Cristo. Ed è il suo corpo, che si abbandona affranto nelle braccia di Maria, a formare, con la doppia spezzatura, con le opposte diversioni delle membra, la spirale lacerata che sommuove tragicamente tutto il blocco. Così, in un ritmo compositivo che pure risponde in pieno ai suoi canoni («che la figura sia piramidale, serpentinata, moltiplicata per uno per due e per tre»), Michelangelo sembra aver fatto rivivere, al di là del furore luministico di Donatello, addirittura il più intenso, vibrato linguaggio gotico dell’ultimo periodo di Giovanni Pisano, quando le forme energiche, compatte, si piegano a una cadenza di lirico abbandono.

Con quale appassionata foga Michelangelo lavorasse a questa scultura, nella inesausta ricerca di dar vita plastica a un fantasma poetico che continuamente vince qualsiasi espressione figurativa, è testimoniato anche dal Vasari, allorché, riportando le cagioni pratiche, materiali, per le quali l’artista ruppe e abbandonò la sua opera il sasso aveva molti smerigli ed era duro, e guasto da un «pelo» non può a meno di aggiungere: «o fosse pure che il giudizio di quello uomo fussi tanto grande, che non si contentava mai di cosa che e’ facessi». Già Michelangelo pensava ad un’altra versione del tema della Pietà, e non sopportava più di lavorare a un’opera il cui «concetto» era ormai compiutamente espresso, e lontano dalle nuove aspirazioni. «Se l’era recata in odio dice il Vasari, e «scappatogli la pazienza la roppe», e la voleva rompere affatto, se gli amici non gliela avessero portata via, prezioso dono.

Tre disegni, conservati a Oxford, tramandano la prima idea di Michelangelo per la scultura che sarà poi la Pietà Rondanini. Il gruppo è ridotto alle sole figure di Maria del Figlio, nel desiderio di chiudere il dramma nei suoi elementi essenziali. Le forme sono grandiose, espanse, lievitanti per una dolce luce, che sembra promanare dall’interno di esse, in modo che il contrasto dinamico tra il peso crollante del gran corpo del Cristo e la opposta tensione della Vergine che a sé lo stringe, trattenendolo nella caduta, si scioglie in un ampia vibrazione, come di entità spirituali. Alla realizzazione di questa scultura, Michelangelo cominciò a lavorare poco dopo il 1553; ma ben presto la abbandonò, quasi che nella traduzione plastica la sua visione perdesse l’effetto di eterea trasfigurazione della materia. Soltanto nell’ultimo anno della sua vita la riprese, e, quando gli amici e i discepoli credevano che ormai il suo quotidiano lavoro non fosse dettato che dalla invincibile abitudine all’attività («fu necessario trovar qualcosa poi di marmo, perché si potessi ogni giorno passar tempo scarpellando»), Michelangelo creava un nuovo linguaggio plastico, dava forma al suo sogno.

Nella prima versione, da quanto è dato arguire dai disegni e dal braccio del Cristo lasciato sussistere, Gesù, figurava agile ma possente, piombava in avanti con la testa e col largo torace, armonicamente chiuso in una ampia onda, scandita dall’orlo del sudario, mentre la Vergine, stringendolo a sé, volgeva implorante la testa al cielo. Ma era ancora una immagine di passione, anche se contenuta in una dolente gravità; e le forme avevano un troppo nitido risalto, una eccessiva definizione fisica, per esprimere quel sentimento di dolore che non nasce più da una lotta con la materia, ma è solo ansiosa aspirazione alla salvezza.

Michelangelo allora distrusse quasi tutto quanto aveva già scolpito, riuscendo a cavare da quel marmo già lavorato un «concetto» totalmente nuovo. Le due esili figure sovrapposte sono prese nel lento ritmo di una larga curva ascendente: unite indissolubilmente, fatte un unico corpo. Non soltanto la Madre serra al seno il Figlio, ma questi pare che ancora tenti di sostenersi a lei. E non sembra assurdo pensare che, nella rielaborazione, Michelangelo abbia lasciato intatte le gambe del Cristo, perché da esse, naturalisticamente definite nella loro forma e nel loro disporsi, abbandonate alla Morte, si salga verso forme che hanno la loro esatta figurazione plastica proprio nell’indeterminazione dei particolari, nel ridursi a parvenze corrose dalla luce, immagini già di un mondo libero dal peso terreno. Ma anche se ci si sia lasciati prendere dalla suggestione del «non finito», indebitamente interpretandolo come volontà stilistica, è chiara qui l’intenzione di rendere il marmo sensibile al massimo al tocco della luce, tutto vibrante, scabro, in modo che i tagli dei piani, i sottosquadri, i profili non creino scatti decisi, ma si fondano in una indistinta luminosità, in un fremito di moti. Ogni principio di bellezza corporea è abbandonato per I espressione di un sentimento puro, e la diversione dal classicismo ha ora raggiunto il suo culmine. Dalla levigata «perfezione dalla serena dolcezza della Pietà di San Pietro, a questa forma fiammeggiante, a queste figure spettrali consunte dalla tragica intensità del loro dolore, quale differenza di linguaggio plastico, eppur quale coerenza di meditazione poetica!

L’«ottimo artista» è arrivato a esprimere anche il «concetto» che più sembrava inaccessibile alla forma scultorea.

Nel febbraio del 1564, il vecchio Maestro, nella sua casa di Macel de’ Corvi a Roma, chiuso nel suo solitario colloquio con la Morte, sfinito dalla malattia, continua tuttavia a lavorare al mirabile gruppo. Così, mentre ancora era intento alla creazione, lasciando agli uomini la più straziante immagine di «quell’amor divino» cui soltanto era ormai volta la sua anima, Michelangelo morì, il 18 febbraio 1564.

 


 

Briganti, Brandi e Russoli,

Galleria dell’Oca, Roma, 1976. Foto contenuta in un album fotografico di Luisa e Giuliano Briganti

Foto Schiavinotto

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