Antonio Trifoglio
Mostra personale al Palazzo Ghibellino di Empoli – Circolo Arti Figurative
Dal 18 Ottobre al 2 Novembre 2003
Presentazione in catalogo di Salvatore Santagata
La pittura di Antonio Trifoglio nel secondo Novecento
Antonio Trifoglio, che è essenzialmente pittore, è anche incisore, scultore, ceramista. Ora, a conferma che, nonostante l’età, il suo è spirito che resta indomabile, sempre alla ricerca di qualcosa, forse di se stesso, ha scoperto e pratica l’elaborazione mediatica delle forme e delle figure al computer.
Di questo perenne fuoco interiore che lo pervade e lo spinge sempre più avanti, sono riprova aggiuntiva le sue ricerche sulla localizzazione dell’antico porto di Locri Epizefiri e sulle origini del suo paese, SanťIlario, e della vicina Condojanni, che, con la pittura e con l’arte figurativa più in genera1e, hanno ben poco a che fare.
Mentre a che fare hanno molto con l’inquietudine che pervade da sempre l’animo e la mente di Trifoglio. Da quando, ancora ragazzino, frequentava, non senza grandissimi sacrifici, il liceo artistico “Mattia Preti” di Alfonso Frangipane, a Reggio Calabria, poi diplomato in quello di Napoli e poi, l’Accademia di Brera ed ancora quella di Firenze.
Allievo di maestri del livello di Salvatore Cascone, del segantiniano Emesto Bergagna, dello scultore Giacomo Manzù ed infine di Primo Conti, col quale consegue il titolo di “maestro pittore” all’Accademia di Firenze.
Da quando aveva meno di quindici anni, Antonio Trifoglio non e stato mai fermo. Prima lo studio, quindi l’insegnamento, poi ancora lo studio e sempre in mano un carboncino o una matita e, sempre più spesso, pennello e colori e, ancora, studio, particolarmente dell’anatomia umana e sempre insegnamento.
Questo impegno, che è ad un tempo intellettuale e materiale, gli ha fatto sentire poco i disagi dell’emigrazione. Trifoglio è figlio della diaspora. Parte dalla Calabria nell’immediato dopoguerra.
Nel 1948 e già a Como. E qui, dice in una poesia, perché tenta anche questa strada,
ho pianto
di smarrimento
un giorno lontano
dalla Calabria quando
il sole
era un lampione.
Poi, negli anni Cinquanta, si stabilizza ad Empoli.
La Toscana ha un paesaggio ed un clima più accettabili. Ma egli, con sistematicità, ogni anno, l’estate la trascorre a SanťIlario e da qui, scorazza per tutta la Calabria, continuando un discorso pittorico iniziato quando, ancora studente al “Mattia Preti” di Reggio aveva cominciato a tracciare, con larghe pennellate di lontano sapore impressionistico, gli infiniti confini di questa aspra regione.
E con il paesaggio le donne. Alte, slanciate, “come colonne”, scrive Corrado Alvaro.
Le donne che portano pesi e che, in teoria, l’una dietro l’altra in lunghe file, si stagliano contro i cieli di fuoco del tramonto, o le trasparenze diafane del mattino, percorrendo i crinali irregolari dei calanchi della Locride. E poi ancora le donne, rannicchiate, minute,ai margini di larghi stradoni, le donne che vendono frutta.
E poi i resti dei fastigi della Magna Grecia: pezzi di colonne, di metope, di pinakes.
Le lontane radici dell’origine magno greca sono sempre presenti nella pittura di Trifoglio, anche nelle tele che raffigurano le donne del periodo più toscano e meno calabrese, le donne al bar.
Una lunga e fortunata fase della sua pittura, che solo apparentemente, sembra avergli fatto dimenticare da dove egli venga; ma poi, basta guardare i profili di quelle donne, per capire che la Magna Grecia c’è sempre: quei profili richiamano quelli delle donne delle pinakes locresi, con i nasi dritti, gli occhi allungati e fermi, lo sguardo quasi trasognato.
Muta solo il contesto. Ma anche in quel nuovo contesto, dove immagini locali di lusso, incendiati da insegne luminose e luci soffuse, se proprio vuoi sottilizzare, ritrovi riverberati, nelle forme dei bicchieri, le sinuosità dei vasi scavati a Centocamere o a Janchina, o, ancora, nei pressi del Teatro Jonico.
E questi temi, che sono propri del mondo c1assico, li ritrovi in tutti gli altri periodi pittorici del Nostro: quello delle icone, quello delle chiesette, e, ancora di più, in quello della rivisitazione pittorica delle pinakes e dei miti, tanto da poterti spingere ad affermare, con grande tranquillità, che sono l’anima stessa e la mente di Antonio Trifoglio impastate di c1assicità e calabresità, ma che l’una e l’altra, nella sua pittura, risultano sempre filtrate, immaginate, quasi, mai copiate, invece riviste, “rivisitate”, appunto, spesso, come in onirici ritorni di un passato di cui il Nostro sente il peso e la grandezza, ma anche tutta la levità, la ma1leabilità e la plasticità che gli consente di farle perfettamente aderire al mondo che egli è chiamato a vivere ed affrontare.
Ed ecco allora spiegato perché, nonostante i periodi che egli vive e che trovano estrinsecazione suIla tela, nella sua lunga attività, che attraversa, intera, la seconda metà del Novecento (con oltre cinquanta personali, tantissime partecipazioni ad importanti collettive, tante chiamate anche per mostre all’estero e tantissimi premi e riconoscimenti), Antonio Trifoglio mantiene un’unicità tematica sostanziale, pur nella varia e, per certi aspetti, eccessiva diversificazione di forme e stili.
Trifoglio, in effetti, continua a dipingere sempre lo stesso quadro, quello della sua anima, desiderosa di cantare, non tanto e non solo la sua terra e quella degli avi e delle origini, quanto l’uomo che, se anche a Como, dove la sorte lo ha sbattuto, scambia, nella nebbia fitta, la luce di un lampione per quella del sole, a quel sole immaginato continua a tendere.
Ed ogni volta che vi torna, pur dopo essersi abbeverato in Arno e con gli occhi pieni della tranquilla calma del paesaggio toscano, e ancora capace d’indignarsi, perché nelle stradine del suo quartiere di SanťIlario, la lucentezza del vecchio, anche se sconnesso se1ciato, e stata fatta sparire nell’opacità piatta del bitume.
E non perché egli voglia rimanere legato e fermo a quel passato, piu immaginato ehe vissuto, ma, perehé, oggettivamente, il presente che gli viene offerto, rispetto al passato immaginato, è assolutamente inadeguato, imparagonabile e da rifiutare.
Egli sa e vede come in Toscana anche i paesini più piccoli rispettano e valorizzano la loro storia e le loro tradizioni. Sa, pure, che la Calabria, ha grande storia alle spalle e tradizioni da vendere ed anche bellezze da valorizzare e si arrabbia, perché si fa poco o niente in questa direzione. I suoi ritorni sistematici coincidono con sistematiche indignazioni che egli sfoga sulla tela.
E nelle tele di Trifoglio, anche in questa mostra, che chiude, speriamo,un periodo di profondo travaglio non solo fisico ed uno ne apre, ne sono certo, di nuova inventiva e di nuove proposte, Trifoglio continua il suo discorso iniziato nel lontano 1947: ricreare ed individuare, alla luce della storia regionale trimillenaria, le ragioni dell’attuale ritardo di sviluppo con la dichiarata volontà di indicare le strade più adeguate e migliori per conseguirlo, nella profonda convinzione che, senza un presente di speranza ed un domani di prospettiva, anche il passato, che è di fasti e di gloria, rischia di essere vanificato nel nulla e finire.
Salvatore G. Santagata