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di Marta Questa

 

Quartiere di Varlungo, villaggio di Sant’Umilà. Foto di Ivo Patu

 

Erano gli anni Sessanta del Novecento quando l’architetto Leonardo Savioli presentava al Comune di Firenze un progetto per la realizzazione di edifici di civile abitazione con relative autorimesse in località Varlungo, fra  via Aretina e due nuove strade ad essa perpendicolari, più tardi denominate via Antonio Salandra e via Filippo Turati, nel nuovo quartiere di Sant’Umiltà, progetto che sarà successivamente ampliato.

Si trattava di un complesso residenziale che veniva costruito su terreni di proprietà del Monastero delle Suore benedettine vallombrosane dello Spirito Santo di Varlungo, il cui ordine risaliva a Rosanese Regusanti, una nobildonna nata a Faenza nel 1226 ed ancora oggi venerata con il nome di Sant’Umiltà, il cui corpo in quegli anni era conservato nel Monastero di Varlungo.

Allora in questi terreni, oltre al Monastero, si trovava un piccolo fabbricato di due piani adibito ad abitazione dei custodi o di qualche curato, data la vicinanza con la chiesa di San Pietro a Varlungo, ed  attigua c’era anche una costruzione molto rustica di appena tre metri per sei, quasi a forma di grotta sotterranea, chiusa da una porta, utilizzata dalle suore da sempre come deposito di vasi da fiore e di arnesi da giardino, ma che dal novembre del 1943 sino alla fine della guerra accolse, grazie al consenso delle suore del Monastero dello Spirito Santo, dodici donne ebree con alcuni loro bambini, che vennero così salvati dalle operazioni di rallestramenti e razzie da parte dei tedeschi.

Queste costruzioni alla fine degli anni  Sessanta furono demolite, fatta eccezione del Monastero, oggi adibito a residenza universitaria, e su questi terreni furono costruiti edifici per civile abitazione su progetti degli architetti Leonardo Savioli e Danilo Santi.

Leonardo  Savioli era nato a Firenze il 30 marzo 1917, era stato allievo di Giovanni Michelucci ed era uno dei principali esponenti della cosiddetta “scuola toscana” insieme a Leonardo Ricci e Giorgio Gori.

Aveva già collaborato ad una delle opere più importanti della architettura italiana del secondo dopoguerra, il Mercato dei fiori di Pescia del 1948, ed aveva già realizzato spettacolari edifici, prestando particolare attenzione all’inserimento nell’ambiente circostante, ispirandosi sempre  a quello studio, svolto  tra gli anni 1943 – 1945, che lo aveva visto realizzare una serie di disegni  e di scritti della “Città ideale”,  dove Firenze risultava  protagonista di trasformazioni utopiche che l’ avrebbero dovuta rendere più funzionale per i suoi abitanti.

Savioli era stato uno degli architetti della ricostruzione di Firenze dopo la seconda guerra mondiale. Aveva  partecipato ai concorsi per la ricostruzione dei ponti di Firenze: ponte alla Vittoria, ponte alla Carraia, ponte alle Grazie ed anche per la zona distrutta intorno a Ponte Vecchio. Fu nel 1948 che terminò la sua collaborazione con Leonardo Ricci e Giorgio  Gori per iniziare poi quella con Danilo Santi che durerà fino alle ultime opere.

Gli anni dal 1957 al 1962 l’avevano visto impegnato nel progetto urbanistico e architettonico per Sorgane e per l’ edificio A, realizzato con la collaborazione di Marco Dezzi Bardeschi ed altri architetti , per il quale  ricevette il primo premio IN-ARCH DO-MOSIC del 1963.

All’ interno del suo originale studio, ben distinto dalla sua abitazione,  in via delle Romite a Galluzzo,  progettò alcuni edifici architettonici degni di nota, quali villa Taddei, villa Sandroni, l’edificio in via Piagentina  per i quali  ebbe riconoscimenti dalla critica.

A partire dal 1964, presentò al Comune di Firenze progetti,  per il complesso residenziale nella zona di Varlungo, lungo via Aretina, nelle attuali via Antonio Salandra, via Filippo Turati, via Emilio Visconti Venosta.

Era il periodo in cui Savioli insegnava architettura degli interni e arredamento all’ Università di Firenze e in cui progettava allestimenti espositivi in edifici storici monumentali, tra cui quello per la mostra di Le Corbusier a Firenze.

A Varlungo sui terreni del Monastero dello spirito Santo  realizzerà tra il 1964 ed i primi anni del Settanta,  in collaborazione con l’ architetto Danilo Santi,  una serie di edifici che prenderanno la denominazione di ”villaggio Sant’ Umiltà”, interamente in cemento armato con fondazioni a plinti e solai in cemento armato e laterizio.

 

Foto di Ivo Patu

 

L’ architetto franco – svizzero le Corbusier fu tra i primi a comprendere le potenzialità innovative del calcestruzzo armato nell’ambito dell’architettura contemporanea ed in Italia una legislazione del novembre del 1939 ne aveva regolato  l’ utilizzo.

Sulla scia di queste trasformazioni  e sul risultato dei suoi stessi studi Leonardo Savioli costruì edifici innovativi, soprattutto per la zona di Varlungo abitazioni di tipo medio con struttura in cemento armato, dotate di un particolare sistema antisismico e con locali interni provvisti di pavimenti in graniglia di marmo, ampi serramenti in abete e intonachi a calce, edifici provvisti di autorimesse, di ampissime terrazze con giardini pensili, ed anche di spazi liberi interni destinati ad uso pubblico, ma non utilizzabili dai singoli condomini.

Il tutto sempre nel rispetto di quel perfetto  equilibrio tra l’ uomo e gli spazi circostanti di cui aveva tanto parlato a proposito della “città ideale” .

Una delle sue innovazioni consistette anche nel prediligere camere da letto di piccola dimensione rispetto all’ ampiezza dei locali da adibire a sale da pranzo o salotti, pensando di favorire in questo modo la convivialità familiare.

Un architetto a tutto tondo, ma anche pittore e grafico , ma soprattutto uomo dalla grande sensibilità e dalla capacità di trovare interesse per i piccoli particolari del vivere quotidiano, amatissimo docente universitario, che insieme ad alcuni suoi allievi formò i primi gruppi di architettura Radicale, riuscendo a rinnovare il panorama della ricerca architettonica d’ avanguardia degli anni Sessanta e Settanta.

Morirà a Firenze l’11 maggio 1982, lasciando l’amata  moglie Flora Wechmann, che definirà “la cosa più bella”della sua vita.


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