Una recensione di Alessandro Conti
Opere recensite: Pittura umbra e marchigiana fra Medioevo e Rinascimento di Miklòs Boskovits ;
La pittura umbra della prima metà del Trecento dalle dispense redatte da M. Gregori sul corso di Roberto Longhi 1953-54,
Paragone nn. 281-283 (numero speciale);
Il Maestro delle Palazze e il suo ambiente, Paragone, nr. 291 di Bruno Toscano
Recensione di: A. Conti
Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia
Serie III, vol. 4, n. 4 (1974), pp. 1792-1799 (8 pagine)
Editore : Scuola Normale Superiore
Il Trecento umbro è il nuovo mondo che attira l’attenzione degli studiosi di primitivi da quando Roberto Longhi gli dedicò il corso universitario del 1953-54, e si sapeva che, al di là delle grandi presenze assisiati, la regione non era stata un’area laterale, od una provincia senese come, unicamente per definizione corrente, era diventata.
Sì resta perciò molto perplessi quando, in apertura del libro di Miklòs Boskovits (una lunga postilla al catalogo delle opere romaniche e gotiche della pinacoteca di Perugia pubblicato dal Santi nel 1969) si apprende che negli ultimi cinquantanni nessuno ha dedicato un « serio esame critico» all’argomento. A parte il concetto che l’autore può avere del proprio articolo sul ‘Maestro del 1310’ (per lui ‘Maestro del dittico Poldi Pezzoli’), apparso su Arte Antica e Moderna nel 1965, ci si chiede se abbia presenti l’Apertura sui trecentisti umbri (1966), Il Maestro del Farneto o Un dossale italiano a St. Jean Cap Ferrat (1961) di Roberto Longhi, oltre ai saggi su singoli maestri ed opere umbre di Bruno Toscano (sin dal 1953), Giovanni Previtali, Pietro Scarpellini etc. od il catalogo della biblioteca capitolare di Perugia del Caleca (1969). Studi sparsi, con i quali si potrà non concordare, ma da non declassificare dal livello di « serio esame », e sufficienti perché il Bellosi in un fascicolo de ‘I maestri del colore’ dedicato alla Pittura dell’Italia centrale nell’età gotica potesse dare un breve ma adeguato ragguaglio sugli umbri tra Due e Trecento, scegliendo per la sua copertina addirittura un particolare del Maestro di Fossa probabilmente in omaggio ai corsi longhiani.
Il Boskovits non poteva prevedere il diverso approfondimento sulla pittura del Trecento in Umbria, che, al di là degli argomenti già trattati in articoli, sarebbe venuto dalla pubblicazione delle dispense del corso longhiano del 1953-54 in un numero speciale (luglio-settembre 1973) della rivista Paragone. Non un saggio autografo ma, anche nella frammentarietà del dettato, una raccolta delle considerazioni che il grande maestro aveva raccolto su quei temi: uniche per inquadrare e portare avanti la storia pittorica del Trecento umbro.
Del secolo precedente, la valutazione del ‘Maestro di Santa Chiara’ era stata elaborata in forma più compiuta di quanto appare nelle dispense nell’articolo di Longhi del 1966, e non rappresenta una novità, restando un punto acquisito da tenersi ben presente nell’esame dell’arte umbra anteriore a Giotto. Nei suoi excursus su questo secolo il Boskovits si sofferma in alcune utili ricostruzioni: il ‘Maestro di San Felice in Giano’, spoletino, il ‘Maestro di Montelabate’ (del quale non è stato adeguatamente messo in luce il legame col ‘Maestro del messale di Deruta’), il ‘Maestro della Croce di Gubbio’. Ma perché recuperare lo spunto del Coletti di una derivazione del ‘Maestro di San Francesco’ dalla Croce nr. 20 del museo di Pisa? e confondere il trittico di Perugia (‘Maestro grecanico di Perugia’ è il nome annotato nella fototeca di Roberto Longhi) con un affresco in San Matteo che ne ricalca solo alcuni stilemi o con l’Assunzione in Santa Giuliana a Perugia, che dovrebbe risalire al 1260 circa ed inaugurare la serie: ipotesi che si annulla ove, semplicemente, si consideri il prototipo di Cristo e della Vergine abbracciati negli affreschi di Cimabue in Assisi. A parte la correntissima qualità dell’affresco, dov’è il rovello lineare, la forma contorta e chiusa che ha fatto richiamare il nome di Nicolas de Verdun? Caratteri che ricorrono solamente nella Madonna di Sant’Arcangelo al Trasimeno, posteriore alla conoscenza di Cimabue del quale non era ancora traccia nel trittico in pinacoteca, tutto chiuso in una cultura per la quale il richiamo più valido resta quello del Weitzmann alla pittura dei regni crociati in Terrasanta.
Il punto da chiarire prima di ogni altro è il rapporto tra i maestri umbri del Duecento e la pittura romana, sul quale il Boskovits toma più volte, ma mai con l’auspicabile chiarezza: addirittura, sarebbe romano il ‘Maestro della Croce di Nocera Umbra’, proponendone rimandi ad una Madonna ad affresco nella chiesa romana dei Santi Quattro Coronati ed alla Crocefissione nella chiesa della Carità a Tivoli che, parallela allo stile del Cavallini negli affreschi di San Domenico Maggiore a Napoli (riferibili al 1308-9), esula dal contesto che può avere interessato la formazione di un pittore duecentesco. Il rimando a Roma, al di là degli affreschi nella Sala dei Notari di Perugia, ricompare per il ‘Maestro della Croce di Gubbio’ e diventa necessario precisare che tale richiamo, per lui, non può valere nel senso del neoclassicismo cavalliniano; anche gli echi neo antichi che vi si individuano, trovano il rimando più calzante nell’Enciclopedia delle Tre Fontane, gli affreschi di un ciclo profano ritrovati dal Bertelli in quell’abbazia: una produzione, a Roma, anteriore e diversa da quella del Cavallini e Rosuti; invece della distensione che si andrà sempre più allargando a contatto con Arnolfo, questi affreschi mostrano un complicarsi lineare, un’irrequietezza decorativa nel rapporto tra chiaro e scuro, che rimandano alle miniature siciliane del codice vaticano latino 375 e ad un nodo culturale tra gotico, bizantino e, probabilmente, islamico, nel quale piuttosto che un problema romano si potrà forse individuare la traccia verso la grande incognita della cultura pittorica del regno svevo nell’Italia meridionale.
A questa radice risale il ‘Maestro della Croce di Gubbio’, col quale si matura in Umbria un classicismo gotico che, in chiave espressiva, si trasmette al ‘Primo miniatore di Perugia’ («Ad te levavi» del ms. 2781 della Biblioteca Augusta); questi l’andrà sciogliendo nei colori più liberi, di più vasta campitura, dell’ «Aspicies a longe» del ms. 2783 della stessa biblioteca, sino alla Deposizione di Pistoia, dove le eleganze lineari trattengono i colori chiari, da miniatore, nella loro diafana bellezza: è il tentativo più alto di contenere entro un linguaggio illustre la «passione» che Roberto Longhi individuava negli umbri, quasi, realizzatori in figure della nuova accezione di «passio» illustrata dall’Auerbach lungo il suo maturarsi nel corso del Medioevo: non più turbamento dell’animo, come nel mondo antico, ma accensione amorosa.
Le dispense del corso universitario di Longhi accennano più volte ad una differenziazione geografica del complesso degli «umbri»: perugini, spoletino, a proposito del lorenzettiano Palmerucci. accennando a Gubbio come ad un’area laterale. Bruno Toscano ha appropriatamente sviluppato il problema per il ‘Maestro delle Palazze’ precisandone l’attività nota negli ultimi anni del Duecento ma la formazione più arcaica, tale da fargli recepire il lavoro delle squadre cimabuesche nella basilica superiore di Assisi a livello di mutuazione iconografica ma non di aggiornamento stilistico. L’inquadramento generale dell’area spoletina nella seconda metà del Duecento porta al recupero di altri frammenti e ad un bilancio generale sull’Umbria, sino a postulare nella regione l’esistenza di un ciclo cimabuesco anteriore agli affreschi di Assisi, e all’individuazione come creato umbro di Cimabue del ‘Maestro della Cattura di Cristo’, che sembra la soluzione più probabile avanzata su questo pittore, da vedersi però non nell’ambito della «passione degli umbri», ma in quello più accademizzante al quale fanno capo il ‘Maestro della Croce di Nocera Umbra’ ed il ‘Maestro di Montelabate’.
Il Boskovits seguendo le tappe indicate dalle schede del catalogo del Santi, entrato nel Trecento, si sofferma su Marino da Perugia e punta direttamente su Meo da Siena, lagnando lo scarso apprezzamento che ha incontrato nella critica più recente, rimproverando a Longhi di avere osservato che la riscoperta dell’identità anagrafica aveva contribuito a fare attribuire a questo pittore un’importanza nel quadro storico del Trecento umbro che non gli competeva, identificandolo, infine, come il maestro guida della pittura perugina nei primi decenni del secolo. Non è da respingere la proposta di anticipare la data della Madonna (nr. 22 del Santi) che, nello stato di consunzione in cui ci è giunta, si rivela l’opera meglio padroneggiata di Meo da Siena, ma volendo proseguire in vari argomenti a favore di un anticipo eccessivo del polittico in pinacoteca, si troverà l’adeguata risposta nelle dispense longhiane. Anche per la loro semplicità da seminario, potranno illuminare chiunque si attardi in entusiasmi ormai superati per questo pittore. Seguaci di Meo sono figure minori e l’espressività che egli si trova a dover adottare nel contesto delle botteghe perugine trova altrove una coerenza stilistica, sin dai due grandi miniatori delineati dal Longhi. Si veda, in particolare, il piccolo dipinto su pergamena con la Maestà e la Crocifissione inquadrate tra vari compassi con Santi (nr. 71 del nuovo catalogo) che si colloca in parallelo solenne con il ‘Maestro di Figline’ ma sbalzando fisionomie analoghe a quelle che divengono correnti con Meo e ad una data che solamente la presenza di San Ludovico di Tolosa ci assicura essere posteriore al 1317 della sua canonizzazione. E le stesure lisce di Meo, prive del tratteggio che rende vibranti le tempere dei primitivi, non sono nate per i valori di espressione a cui cercano di adattarsi, col risultato del velo di leziosità che blocca in stilema il sorriso dei suoi volti.
Il formulario al quale si andava adeguando il maestro originario di Siena ritorna con maggiore eleganza nel ‘Maestro della Madonna di Perugia’ noto per la tavoletta eponima in pinacoteca e per quella con Quattro santi nella Vaticana, e per il quale sarà opportuno abbandonare contorti sentieri napoletani, che si fondano su un interpretazione in chiaro angioina e sull’attribuzione al maestro di una Madonna assai compassata che né la conservazione né la riproduzione che la fa conoscere in un catalogo del primo Novecento permettono di far proporre, neppure con riserva.
Le dispense longhiane confermano che il ‘Maestro della maestà delle Volte’ non va confuso con Meo da Siena, il confronto degli angeli nell’affresco di Perugia col frammento più piccolo del rogo dei libri eretici di Bevagna allontanerà ogni esitazione. E’ questi un maestro che ha presente un Giotto, più che assisiate, riminese e ne sviluppa con grande originalità di spunti espressivi anche suggerimenti spaziali (si veda l’edificio del rogo dei libri); non so se pensarlo perugino, dato che, oltre che a Bevagna, compare in San Fortunato a Todi, nella cappella affrescata con Storie del Battista che fu nuovamente decorata da un maestro probabilmente orvietano su cui ha dato una breve illustrazione il Donati (Paragone, nr. 229, 1969) proponendone una data precoce; ma non è possibile che questo primo ciclo sia stato sostituito subito dopo la sua esecuzione, il cambiamento di gusto che porta al rinnovamento degli affreschi richiede una ventina di anni, ed il ritardo rispetto alla data che è stata avanzata delinea opportunamente il secondo maestro come un predecessore immediato di Ugolino di Prete Ilario, ormai, verso la metà del secolo.
All’area spoletina va riferito il ‘Maestro del 1310’ delle dispense longhiane. E’ stato proposto un trasferimento pistoiese della tavola Campana (già ad Angers) che gli dà il nome, e se ne rileva l’eco nel «Buffalmacco» del Bellosi; ma il pentittico del museo di Pistoia (già in San Francesco) non appartiene alla stessa mano della Madonna di Filippo Paci datata 1310. La tipologia con gli zigomi sporgenti, il mento rientrante, è la stessa nella Vergine della tavola francese ed in tutte le figure di Pistoia, simile è anche l’addensarsi dell’ombra lungo la profilatura dei volti, con lo strano effetto di rilievo che anziché convesso può apparire concavo. Ad Angers le fisionomie sono però variate di modulo negli angeli dal volto rotondo, o negli occhi guizzanti della donatrice: tratti che non ricorrono nell’altra tavola, dove la radice espressiva li blocca in un’eleganza un po’ inerme; la carpenteria della tavola ha poi una struttura che non può varcare il 1310 (si tenga presente che Pistoia importò opere di alto prestigio e non mostra una committenza di gusto ritardato), l’anno della Madonna di Filippo Paci. Bisogna concludere per due maestri della stessa formazione i quali, attorno a quella data, avevano imboccato le loro strade diverse.
Fra la pittura povera delle altre tavole del ‘Maestro del 1310’ e questa Madonna esistono diversità che dovrebbero suggerire la denominazione di ‘Maestri del 1310’: non un solo artista, ma un sodalizio di pittori che lasciano intravedere i diversi accenti personali ma lavorano affiatati dalla stessa cultura che, ancora con un accento personale diverso, torna in una Croce in San Domenico a Spoleto (ben nota a Bruno Toscano, che me ne procura la fotografia); il suo confronto con la tavola Campana mette in evidenza le oscillazioni di umore del gruppo, mentre l’affresco già in Santa Croce a Trevi delle dispense longhiane si presta bene quale tramite fra la Madonna di Filippo Paci e le altre opere inserite dal Longhi nel gruppo. I ‘Maestri del 1310’ si delineano perciò come un sodalizio di spoletini, più giovani del ‘Maestro di Sant’Alò’, che precedono l’affermazione del ‘Maestro di Fossa’, ed è un gruppo unitario, da non deviarsi in compagnia del polittico di Pistoia. A conferma del suo carattere umbro, si possono tenere presenti le fisionomie, tondeggianti, come per gli angeli della Madonna di Filippo Paci, che compaiono nel codicetto lat. 1281 della biblioteca nazionale di Parigi, dove si incontra una Sant’Anna (c. 265) che ricalca la Madonna del ‘Maestro del Farneto’ in San Damiano ad Assisi.
L’area spoletina, nella prima metà del Trecento, ha un altro grande maestro, ricostruito nelle dispense longhiane: il ‘Maestro di Fossa’; oltre agli affreschi in San Ponziano (non San Pancrazio) e nel vescovado, a Spoleto ne esiste un’altra opera, su tavola, già correttamente classificata nella fototeca di Longhi: un San Pietro Martire scoperto una quindicina di anni orsono da Bruno Toscano nel convento di San Domenico e poi recuperato dai restauratori della Soprintendenza liberandolo dalle ridipinture che ne nascondevano la stesura originale. A parte il ‘Maestro del Crocifisso d’argento’, che gli è parallelo, il largo dei volti del ‘Maestro di Fossa’ determina la chiave espressiva di un amico di Meo da Siena, che si riconosce per le pupille occhieggianti di figure graziose per certi ghigni o sorrisi, il ‘Maestro dei dossali di Subiaco’ del Boskovits (che è necessario dissociare dalle infelici tavole bifronti con i Santi Ercolano e Pietro, Lorenzo e Paolo di pinacoteca); la risonanza del ‘Maestro di Fossa’, diretta o mediata dall’amico di Subiaco, porta anche ad un aggiornamento di Meo: al sorriso più ammiccante col quale si presentano le figurette di Francoforte, datate 1333. Ma il contesto delle opere note è troppo rado per una semplificazione netta tra persone nei rapporti tra i pittori di Perugia e Spoleto: forse, da protagonista, in questo nodo va ricordata anche la Madonna di Allentown che il catalogo Kress, pur riferendo un giusto orientamento di Roberto Longhi, classifica come opera di un seguace di Pietro Lorenzetti, proponendone una data troppo inoltrata, dal momento che difficilmente può superare il 1340; ed è l’esemplare più meditato di attenzioni senesi da parte di un maestro umbro, e non sui moduli larghi e para ducceschi di cui si era nutrito Meo da Siena, ma sulla pittura nuova delle botteghe dei Memmi, dei Lorenzetti.
La codificazione in scuola che avvenne a Perugia tra il quarto ed il quinto decennio del Trecento non ebbe buon esito: cominciarono le importazioni frequenti, non solo Allegretto Nuzi (il Boskovits gli aggiunge alcuni inediti), ma anche il modesto Francesco Pisano, un compagno di Giovanni di Nicola proposto dallo stesso studioso. L’unità, più di stilemi che di stile, tra i pittori locali non basta a confermare l’appartenenza di un gruppo stilistico al medesimo pittore: la proposta di un ‘Maestro del 1348’ si arena davanti all’impossibilità di individuare la stessa persona nell’affresco con tale data in San Matteo a Perugia e nella famosa Natività di Santa Chiara ad Assisi. Con questo gruppo e col ‘Maestro di San Francesco al Prato’, Perugia si mostra una città che ospita una scuola di pittura omogenea, ma solamente come gruppo di pittori che hanno scoperto un comune formulario artigianesco col quale soddisfare le esigenze più immediate del pubblico cittadino.
La geografia e la storia del Trecento umbro non si concludono in quest’arco tra Perugia e Spoleto: Assisi (studiata dallo Scarpellini) oltre ai fiorentini ed ai senesi della basilica di San Francesco presenta il ‘Maestro espressionista di Santa Chiara’ (Longhi l’esaminò individualmente: In traccia di alcuni anonimi trecentisti, Paragone, nr. 167, 1963), il maestro dell’affresco staccato ora diviso fra il tabernacolo in piazza del comune e la pinacoteca civica che ebbe la gloria di un’attribuzione a Simone Martini da parte dello Schmarsow, i tre frammenti nrr 4143, 4144, 4145 della National Gallery di Londra, oltre alla presenza di ‘Stefano’ o, risalendo sino al momento in cui era ancor viva l’eco del passaggio di Giotto dalle Storie bibliche alle Storie di San Francesco, i frammenti del Monte Frumentario, che si potranno apprezzare non appena un intervento conservativo li renda leggibili. Un centro come Montefalco, oltre agli affreschi di Santa Chiara (1333) registra la precoce Madonna giottesca illustrata dal Nessi (Commentari, 1969) e il maestro che prende il nome dal Crocefisso che vi è conservato, che ricompare ad Assisi: con ogni probabilità uno dei principali collaboratori di Giotto nelle Storie di San Francesco.
Tra i problemi da studiare ulteriormente resta infine quello del legame tra i maestri di vetrate che lavorano ad Assisi, ad Orvieto, ed il ‘Maestro di Figline’, indiscutibile anche se non si voglia accedere all’ipotesi del Marchini che l’identifica con l’assisiate Giovanni di Bonino, ultimamente ribadita nel suo volume del Corpus vitrearum Medii Aevi dedicato all’Umbria (Roma, De Luca, 1973), che si rivela uno strumento indispensabile per conoscere le vicende artistiche della regione fra Due e Trecento.
Dall’area che culturalmente si differenzia più chiaramente come umbra, Orvieto resta distaccata nella prima metà del Trecento ed una scuola distinta dai senesi che vi avevano lavorato al seguito della corte papale si va formando sulla metà del secolo. Dopo il Tracciato orvietano di Roberto Longhi (1961), è inutile sottolineare la sua importanza; negli ultimi venti anni del Trecento Perugia ospita l’orvietano Cola Petruccioli, segno evidente della preminenza assunta dalla nuova scuola; il Boskovits gli dedica alcune precisazioni, in particolare, è notevole l’aggiunta di un affresco col Martirio di San Pietro Martire in San Domenico a Perugia, datato 1396.
Ormai al di fuori del confronto con le dispense longhiane, e con gli articoli più appassionati, il Boskovits conclude l’itinerario attraverso il catalogo del Santi con una serie di annotazioni sulla pittura tardogotica che sembrano le più meditate di questo suo studio; al di là dei punti di disaccordo, che anche qui non mancano, è notevole la proposta di orientare sul Salimbeni il disegno che con tanta inerzia è rimasto sinora nell’ambito di Agnolo Gaddi delle raccolte civiche di Milano, o l’identificazione di Lello da Velletri in palazzo Trinci a Foligno, sino alla serie di osservazioni in favore di un’anticipazione della data degli affreschi del Pisanello a Mantova, che, al momento della stesura del saggio, erano stati sempre riferiti agli ultimi anni del maestro.
Alessandro Conti