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Sonja Bullaty, 76 anni, Fotografa del Lirismo

dal New York Times, del 13 Ottobre 2000, Sezione B, Pag. 9

Traduzione di Andreina Mancini

Sudek con la sua “apprendista martire”, come la chiamava nelle sue lettere…

Sonja Bullaty, fotografa famosa per la composizione lirica e per l’uso straordinario del colore e della luce in un vasto corpus di opere create durante una collaborazione quinquennale con il marito Angelo Lomeo, è morta il 5 ottobre al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di Manhattan. Aveva 76 anni e viveva a Manhattan e a Bellmont, nel Vermont.

La causa della morte è stata un cancro, ha dichiarato Mr. Lomeo.

Nata a Praga da una famiglia di banchieri ebrei, Sonja Bullaty ricevette la sua prima macchina fotografica a 14 anni, come regalo di consolazione da parte del padre per aver dovuto abbandonare la scuola e le normali attività di adolescente mentre il loro mondo si incupiva con l’avvicinarsi della guerra.

“Da allora ho amato la macchina fotografica, perché mi ha dato gioia e mi ha dato una vita”, disse. “Negli anni difficili che sono seguiti non ho avuto una macchina fotografica, ma spesso ho visto cose che sono rimaste impresse in modo indelebile nella mia mente. Forse ancora oggi cerco qualcuna di quelle immagini mancanti”.

Fu deportata in Polonia il giorno del suo 18° compleanno e trascorse i quattro anni successivi in prigionia, prima nel ghetto di Lodz, poi nei campi di concentramento di Auschwitz e di Gross-Rosen. Verso la fine della guerra, sfuggì a una marcia della morte nei pressi di Dresda, allora in fiamme, nascondendosi con un’amica dentro un pagliaio nel fienile dove i prigionieri erano stati tenuti per la notte. Sebbene i soldati nazisti, armati di forconi, fossero stati mandati a stanare le donne, non furono scoperte e Sonja Bullaty riuscì a rimanere in vita fino a quando la liberazione non le permise di tornare a Praga.

Lì scoprì che nessuno dei suoi familiari era sopravvissuto.

Alla fine cercò il famoso fotografo ceco Josef Sudek e col tempo divenne quella che lui chiamava la sua “apprendista-martire”: mescolava i prodotti chimici per la camera oscura, archiviava i negativi e assorbiva le regole non scritte della composizione, osservandolo mentre stampava le sue opere scure, malinconiche, quasi astratte. Maestro e allieva condividevano un’affinità per la semplicità delle finestre e il mistero dei riflessi, e una predilezione per il kitsch patriottico e l’apparentemente banale. La Bullaty  scrisse del suo mentore in un libro del 1978, “Sudek”.

Nel 1947 arrivò a New York, la traversata fu pagata da lontani parenti che avevano trovato il suo nome su una lista di sopravvissuti e l’avevano invitata ad andare a vivere da loro.

Nello stesso anno, conobbe Angelo Lomeo quando al citofono chiese informazioni su una camera oscura nell’edificio che lui gestiva e lui andò a cercare la donna che era dietro a quella voce che definì “la più bella che avessi mai sentito”. Le regalò delle mele e i due divennero quasi subito inseparabili. Si sposarono nel 1951 e per cinque decenni vissero e lavorarono insieme, facendo in modo di mantenere le loro prospettive visive individuali. Lui è l’unico che le è sopravvissuto.

Nel decennio successivo, la coppia raggiunse una certa fama fotografando dipinti e sculture in musei e gallerie.

Iniziarono a fare foto in bianco e nero ed erano già a un buon punto della loro carriera insieme quando, all’inizio degli anni ’70, passarono al colore vivido e saturo che oggi viene loro associato.

I critici hanno spesso sottolineato gli aspetti pittorici delle loro composizioni, le evocazioni di Hopper e Magritte, di van Gogh, Monet, Cézanne e dei coloristi veneziani.

Insieme hanno realizzato sei libri, ”Provence”, ”Tuscany”, ”Venice and the Veneto”, “Circle of seasons: Central Park Celebrated”, “Vermont in All Weathers” e “America America”, pubblicato quest’anno da Abbeville Press. Le loro fotografie sono apparse sulle riviste Life, Time e Audubon e sono state esposte al Metropolitan Museum of Art, all’International Center of Photography e alla George Eastman House di Rochester.

“Con le mie fotografie voglio esprimere ciò che vedo, sperimento e sento, un mondo reale o surreale, triste o divertente, ma un mondo unicamente mio”, ha detto la Bullaty a proposito della forza-guida dietro il suo lavoro. “Forse per vivere avevo bisogno di sapere che esiste la bellezza”.