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Back Then in the East, Back in Roudnice

Tenkrát na Východě, tenkrát v Roudnici

28 / 6 – 29 / 7 / 2012

Traduzione di Andreina Mancini

Ringrazio il mio amico Charlie Sawyer per avermi permesso di pubblicare il suo articolo e le foto da lui scattate durante le sue visite in Cecoslovacchia, nel 1975 e nel 1976. (p.p.)

Il nome della mostra richiama un evento organizzato dalla Galleria d’arte di Roudnice il 5 agosto 1976: l’inaugurazione dell’ormai leggendaria mostra delle opere di Josef Sudek. Il Direttore di Czech Photography visitò la galleria accompagnato da Anna Farová e da un fotografo americano, Charles Sawyer, che colse l’occasione per fotografare Sudek e realizzare una serie di scatti mostrando l’artista nei suoi ultimi anni di vita. Ora Charles Sawyer sta tornando a Roudnice, portando con sé le foto scattate negli anni ‘70 durante i suoi viaggi in Cecoslovacchia. La sua collezione si concentra su tre soggetti: ritratti di dissidenti cechi, Josef Sudek all’inaugurazione della mostra di Roudnice sull’Elba e foto della vita familiare di Anna Farová.

Tutte le fotografie furono scattate in un periodo di tempo relativamente breve tra il 1975 e il 1977 ed erano a corredo degli articoli scritti dall’autore sulla Cecoslovacchia per Harper’s Magazine, The Nation e Creative Camera. Le sue osservazioni pubblicate sulla stampa americana davano notizie  di eventi politici e culturali al di là della Cortina di Ferro. Oggi i suoi testi e le sue fotografie offrono una visione esterna molto interessante degli eventi di quel periodo. C’era una volta a Est, c’era una volta a Roudnice non è un semplice riflesso degli avvenimenti degli anni ’70, ma può essere visto come un ritorno simbolico di Josef Sudek alla galleria di Roudnice attraverso le fotografie di Sawyer, che dopo tutto sono state influenzate dal lavoro di Sudek.

Charles Sawyer (nato il 2 luglio 1941 a Concord, NH, USA) si è laureato in fisica presso la Case Western Reserve University e poi in Informatica presso l’Università di Harvard. Dagli anni ’80 ha lavorato come programmatore, perfezionandosi  nel frattempo in varie altre discipline; negli anni ’60 e ’70 ha lavorato presso il New England College di Henniker dove, oltre alla matematica, ha insegnato filosofia e fotografia.

Josef Sudek prima dell’inaugurazione (1976)

Come giornalista e fotografo, ha viaggiato attraverso l’Europa orientale e Israele. Attualmente insegna Programmazione Java e Storia del Blues in America, un genere musicale di cui è appassionato, alla Harvard Extension School. Il blues è la sua più grande passione e molti dei suoi testi e sceneggiature sono dedicati a questo genere di musica, come per esempio una sua ampia biografia dell’icona del blues americano, chitarrista, cantante e compositore B. B. King (L’arrivo di B. B. King, La biografia autorizzata, 1980; www.bluesisking.com). Nel 1998 ha fondato la sua blues band chiamata 2120 South Michigan Avenue. Come musicista, si esibisce negli Stati Uniti e durante le sue visite nella Repubblica Ceca – soprattutto a Praga e anche in altre località – per esempio al castello di Veveří vicino a Brno e nel giugno di quest’anno avremo l’opportunità di vederlo a Roudnice sull’Elba.

Charles Sawyer è sempre stato un appassionato fotografo, e negli anni ‘60 e ‘70 fece della fotografia la sua professione. Verso la fine degli anni ’70 lavorò a fotografie di grande formato, cercando di catturare l’istante e rendere perfetta la composizione. Non è un caso che lo scopo del suo primo viaggio in Cecoslovacchia sia stato quello di andare a trovare Sudek, del quale era un grande ammiratore.

Josef Sudek nel suo atelier, nel 1975

Charles Sawyer venne per la prima volta a Praga nel dicembre 1975. Andò a trovare  Sudek nel suo studio dove scattò diverse istantanee del fotografo. Durante la sua seconda visita, meno di un anno dopo, partecipò all’inaugurazione di una grande mostra di fotografie di Sudek nella Galleria d’Arte Moderna di Roudnice sull’Elba (5 agosto – 12 settembre 1976). Fotografò Sudek, che per abitudine evitava le inaugurazioni ufficiali delle sue mostre, visualizzando le installazioni nella sala prima dell’effettiva apertura della mostra.

Di ritorno oltreoceano, Sawyer pubblicò i suoi articoli su Sudek e anche le fotografie di Sudek.

Estratto da un testo che descrive l’opera di Josef Sudek:

“Il suo atteggiamento da operaio si applicava non solo al lato puramente tecnico delle cose, ma anche all’estetica del suo lavoro con la fotocamera. Da nessuna parte questo è così evidente come nelle sue foto panoramiche. Il formato insolito con le proporzioni estreme di 1 x 3 e le particolari distorsioni causate dall’obiettivo ampio sono estremamente impegnative, come i vincoli di un sonetto. Tuttavia, come tutti i vincoli artistici, i requisiti particolari della foto panoramica offrono opportunità che non si trovano altrove. Sudek non si stancava mai di esplorare le possibilità dei sonetti fotografici che poteva realizzare con il suo antico meccanismo i cui tempi di posa erano contrassegnati semplicemente con “veloce” e “lento”. Con questo ci ha offerto una sensazione geodetica della campagna che supera di gran lunga qualunque cosa otteniamo da vedute isolate, e nella stessa Praga ha mostrato come il fiume Moldava sia parte integrante della città e come la qualità labirintica della città sia compensata dai suoi grandi spazi aperti. Non gli sono mai mancati dei modi ingegnosi di utilizzare il formato panoramico. Prima che il panorama orizzontale avesse svelato tutti i suoi segreti, Sudek ha girato la macchina fotografica su un lato e ci ha offerto dei panorami verticali!

Josef Sudek, di Charles Sawyer, Creative Camera, Aprile 1980, Numero 190

Attraverso Anna Farová, che gli fornì assistenza durante le sue visite in Cecoslovacchia e tradusse le conversazioni con Sudek, poco per volta Sawyer potè conoscere la situazione politica del paese, e questo gli offrì lo spunto per tornare  come reporter allo scopo di documentare gli avvenimenti legati alla Carta 77. Organizzò incontri con importanti personaggi pubblici dell’epoca come Jiří Hájek, Petr Pithart, Jiří Kolář, Jiří Dienstbier, Ludvík Vaculík, Pavel Kohout e altri, e questo lo rese impopolare negli ambienti ufficiali – diventò persona non gradita e più volte fu seguito e interrogato da agenti della polizia segreta. Di conseguenza la sua visita del 1977 in Cecoslovacchia fu l’ultima per molto tempo.

Ludvík Vaculík (1977)

Estratto da un resoconto di Charles Sawyer a proposito dell’inseguimento  da parte della polizia di Praga:

Quando tre ore dopo lasciai l’edificio, dalle scale notai l’uomo che stava sulla strada in piedi con altri due uomini; uno, davanti a me, era grasso e calvo e indossava una giacca di pelle marrone. Cominciai ad attraversare il Ponte Carlo, il ponte medievale che attraversa la Moldava. Il fiume al di sotto scorreva tranquillo, ma le alte statue nere che ogni venti passi costeggiano il ponte davano alla scena un’aria inquietante anche a metà giornata. Sulla riva occidentale, mi diressi lungo la Karlova verso la Piazza della Città Vecchia. Dopo un breve zigzag, mi infilai in un negozio, guardando sopra la mia spalla. Niente.

Mentre il tram si allontanava mi girai e guardai indietro verso il portico dove vidi l’uomo grasso che rimaneva indietro, bene in vista. Tre fermate dopo scesi dal tram e cominciai a camminare per una strada laterale sentendomi compiaciuto e un po’ stordito. Dall’imprevisto del tram in attesa ero stato trasformato dall’ispettore Clouseau a James Bond. Improvvisamente fui sorpassato da un poliziotto ansimante  in uniforme che chiese di vedere i miei documenti. Per cinque minuti rimase in piedi, con le mani tremanti, prendendo in silenzio appunti dal mio passaporto e dal tesserino di giornalista.  Poi salutò e scomparve.

                           Dribblando i ficcanaso, di Charles Sawyer, The Nation, 1978.

C’era una volta a Est, c’era una volta a Roudnice ci riporta agli eventi degli anni ’70 a Roudnice e in altre località della Cecoslovacchia. Nelle fotografie e nei testi di Charles Sawyer le situazioni sono rappresentate con un certo distacco e tuttavia la descrizione è ben informata, considerando la situazione culturale e politica dell’epoca.

                                                                                                                                     Miroslav Divina

Josef Sudek nella Galleria di  Roudnice IV (1976)

Veduta dalla balconata (1976)

Josef Sudek nel suo studio a Praga (1975)

L’Odissea verso  Sudek

Il mio viaggio fino alla porta dello studio di Josef Sudek a Praga, nel dicembre del 1975, fu a dir poco avventuroso. Avendo programmato un viaggio a Praga chiesi alla direttrice della rivista newyorkese di fotografia, Modern Photography, cosa avrei potuto fare a Praga che avrebbe interessato la sua rivista. “Se potessi portare delle foto di Josef Sudek, probabilmente le pubblicheremmo”, rispose. Non aveva nessuna informazione su come contattare Sudek.

Sudek era stato presentato negli Stati Uniti dalla Light Gallery di New York City. Una telefonata alla galleria fornì un indirizzo di Praga.. Questo era tutto, un numero e il nome di una strada. La mattina dopo l’arrivo a Praga (in treno attraverso la Germania Ovest e la Germania Est) andai all’indirizzo segnato sul mio taccuino. Era un grande edificio nel cuore di Praga. L’ingresso era pieno di cassette per la posta. Il nome di Sudek non c’era.

Uno straniero entrò dalla strada e gli chiesi: “Josef Sudek?”. Lo straniero indicò cortesemente un portone alto. Entrai e mi trovai in un ampio cortile. Poi l’ho visto: al centro del cortile c’era una costruzione circondata da piccoli alberi storti e da un basso recinto di legno. Nessun dubbio, in base alle molte foto che avevo visto, scattate da dietro le finestre: si trattava dello studio di Sudek.

Il recinto aveva un cancello con un campanello. Premetti il pulsante e udii un squillo debole, sembrava che venisse non dal capannone ma da qualche parte al di là. Non ricevendo risposta dopo diversi squilli, scrissi un biglietto: “Sono un giornalista americano in visita a Praga e spero di incontrare il fotografo Josef Sudek. Alloggio all’Hotel Europa.” Un gesto inutile, pensai fra me, e me ne andai.

Quella sera il telefono squillò nella mia camera d’albergo. La voce al telefono disse: “Sono Anna Farová. Domani la porterò da Sudek. Posso tradurre per lei. Sudek non parla inglese.” Il giorno dopo la mia nuova benefattrice mi trascinò su per una strada ripida che conduce verso il castello di Hradcany in cima al promontorio. Entrammo nella residenza personale di Sudek, che ospitava anche la camera oscura. C’era disordine ovunque, ma un disordine che dava una sensazione di ordine libero. E c’era Sudek: arruffato, minuscolo, l’ossatura storta, la sagoma sbilenca per la mancanza del braccio.

Grazie alla traduzione di Anna spiegai che intendevo portare delle foto in America per  pubblicarle. Sudek spiegò che non aveva stampe di scorta, che stava preparando una mostra a Praga e che la sua ex assistente, ora a New York, Sonja Bullaty, avrebbe potuto fornirmi delle foto da pubblicare. Mi assicurò che le stampe che avrei potuto ottenere a New York erano altrettanto buone di quelle che avrebbe potuto darmi lui perché le aveva stampate lui stesso. Mi dette il suo indirizzo e il discorso finì lì – ma non la mia visita. Si offrì di mostrarmi alcune stampe che stava preparando per la prossima mostra. Una dopo l’altra posò le fotografie sull’unica superficie chiara della stanza. Molte erano state scattate nella foresta. Scene di grandi tronchi d’albero senza cima trasmettevano il senso di mistero che mi aspettavo dalle sue immagini. Ricordo solo un semplice scambio di parole tra di noi. “Molto bella”, dissi guardando un’immagine. “Il tempo lo dirà“, rispose. Mentre lui e Anna chiacchieravano, scattai delle foto con la mia Leica M-2.

La luce era debole. Esposizioni di f 2.0 1/30° erano appena adeguate (pellicola ASA 400). Tirai fuori il mio piccolo flash e lo appoggiai da una parte. In risposta a una domanda di Anna,  Sudek  andò verso un angolo dove gli scaffali erano pieni di carte e pacchi accatastati. Si chinò appoggiandosi su un ginocchio e frugò tra le carte. Vidi l’occasione per fare una foto a Sudek circondato dal suo caotico ma ordinato archivio. Era vicino alla finestra, ma l’angolo era poco illuminato quindi accesi il flash, cosa che  facevo molto raramente.

Sudek si alzò e si girò per unirsi a noi. Il mio flash non era completamente carico così dovetti provare a indovinare l’esposizione. Sapevo di avere solo un secondo o due per inquadrare e premere l’otturatore. Con una mano puntai il flash sul soffitto, con l’altra alzai la macchina fotografica vicino all’occhio, inquadrai e premetti l’otturatore, tutto più o meno in un unico movimento.

Gli aspetti generali della vita di Sudek erano ben noti tra i cechi e più tardi nel mondo della fotografia oltre i confini del suo paese. Ma fu solo quando Sonja Bullaty pubblicò il suo libro su Sudek che fu evidente la sua  profonda trasformazione sulla scia della sua disgrazia. Come Sonja riferisce nel suo libro, Sudek raccontò di quando andò in Italia con i suoi amici musicisti e trovò il luogo effettivo in cui aveva ricevuto la ferita che gli era costata il braccio. In termini duri e personali raccontò della sua incapacità a rinunciare alla parte di sé che aveva perso, di come era rimasto per settimane nella fattoria dove era stato portato dal campo di battaglia, apparentemente piangendo il suo braccio perduto. Infine, quando ritrovò la pace, tornò a Praga come un uomo cambiato, accettando che sarebbe stato per sempre diverso dalla gente comune. La fotografia divenne la sua salvezza personale. Fu questa trasformazione che lo portò a diventare un grande artista.

Incontrai di nuovo Sudek al mio ritorno a Praga nell’agosto del 1976, giusto in tempo per l’apertura di una mostra delle foto di Sudek a Roudnice, vicino a Praga, nella scuderia trasformata in una sontuosa tenuta. Generazioni della nobiltà ceca avevano vissuto nella tenuta prima che nel 1918 fosse fondata la Repubblica.

Sudek non era mai venuto all’inaugurazione delle sue mostre; era troppo timido per sopportare di essere al centro dell’attenzione. Questa volta fece un’eccezione. Chiese di andare a Roudnice con Anna Farová la sera dell’inaugurazione, solo per vedere come le immagini erano state esposte. Ebbi fortuna – nella macchina di Anna c’era posto anche per me e fui invitato ad andare con loro. Arrivammo molto tempo prima dell’inizio ufficiale. Sudek si prese del tempo per vedere le sue foto in mostra e guardò accuratamente e attentamente anche i dipinti appesi alle pareti della Galleria. Poi si ritirò nell’ufficio del curatore della mostra per uno spuntino con vino e formaggio.

Non partecipò alla cerimonia di apertura della sua mostra. Invece, all’insaputa degli ospiti presenti all’inaugurazione, Sudek si sedette a sbirciare dalla balaustra di una balconata sopra il piano espositivo.

Josef Sudek nel suo studio (1975)

  Josef Sudek e Miloš Saxl (1976)

Coda – Scritto nell’estate 2002

Ieri, tranquillamente e senza cerimonie, mi sono ritrovato a completare un viaggio. Era nello studio restaurato del maestro ceco della fotografia Josef Sudek. E’ situato nel cortile interno di un blocco di appartamenti a Praga. Si tratta di una struttura in legno simile a un capannone, circondata da un piccolo giardino. All’interno c’è una piccola galleria asettica. Oltre a pochi cartelli stampati e alcuni reperti fotografici, tutto quello che resta per dire che questo era uno spazio di lavoro di Sudek sono le vedute attraverso le finestre a doppio vetro verso il giardino. Guardando fuori attraverso queste cornici si può immaginare Sudek sotto il suo telo mentre creava  un’immagine mozzafiato.

C’era un libro degli ospiti con pagine di carta nera e una penna con inchiostro bianco. Io scrissi: “Ho visitato questo posto per la prima volta nel 1975 e quella visita ha messo in moto una catena di eventi che hanno plasmato la mia vita da quel momento in poi e continuano a plasmarla ancora oggi. Il ricordo di Josef Sudek, l’uomo, e l’artista, rimangono con me e rimarranno fino a quando  avrò memoria. Questa galleria è un degno tributo a quel grande artista.

Josef Sudek alla Galleria d’arte di Roudnice III (1976)
                          Josef Sudek alla Galleria d’arte di Roudnice II (1976)                      

A quell’epoca non riuscivo a immaginare che queste circostanze fossero come una molla arrotolata appena fatta scattare dalle dita di un giocatore di flipper e che io fossi la pallina mandata a rotolare sulla pista, sbattuta in mezzo a una serie di paraurti squillanti e cancelletti sonori. No. Non è vero. Potevo immaginarlo, infatti ho desiderato che qualche molla mi mandasse a sfrecciare attraverso la vita. Come dice il proverbio “attenzione a quello che desideri, perché alla fine lo puoi avere”. E infatti io l’ho avuto.

Dai miei incontri con Sudek è nata la mia amicizia con Anna Farová e il mio coinvolgimento nella politica cecoslovacca dentro la saga della geopolitica della guerra fredda… Sono tornato a Praga nel 1977 per trovare la grande storia. Le autorità cecoslovacche erano in preda al panico – la loro sistematica soppressione del dissenso e della libertà artistica era diventata il centro delle manovre della guerra fredda. Avevano un importante drammaturgo chiuso in carcere (Václav Havel) e Anna aveva perso il suo lavoro nel museo dopo aver firmato la Carta 77, una petizione per i diritti umani che divenne un argomento da prima pagina sul New York Times. Ho giocato al gatto col topo con la polizia segreta di Praga e ho incontrato tutti i dissidenti di spicco non sotto chiave o agli arresti domiciliari. Ho anche incontrato Jiří Hájek, ministro degli esteri di Dubček, mentre era sotto sorveglianza, anche se l’incontro davanti alla sua porta ebbe solo la durata di qualche parola  di convenevoli prima che la polizia segreta mi portasse via e mi trattenesse brevemente ed educatamente. I miei resoconti di questi incontri mi fecero guadagnare lo status di persona non gradita e ritardarono di 21 anni il mio successivo ritorno a Praga.

Mi sono appassionato alle eroiche lotte degli intellettuali dell’Est Europa e a questa forma molto innocua di imbrogli da agente segreto, che un paio di decenni prima avrebbe potuto mandarmi in galera per tutta la vita. O peggio, ma al tempo di Carter e Breznev non si passava neanche una notte in cella. Mi sono trasferito in Polonia dove ho raggiunto la prima ondata della Grande Caduta dell’Impero Sovietico.

                                                                                                                              Charles Sawyer 2010