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LA MAGIA DEL BANALE

di Anna Fárová

da: Josef Sudek, Gruppo Editoriale Fabbri, 1983 (pg. 58-61)

Traduzione: Doretta Chioatto

Non si deve dimenticare che Sudek appartiene alla stessa generazione dei paesaggisti Edward Weston e Ansel Adams, del dadaista e surrealista Man Ray, di Brassaï, dello sperimentatore del Bauhaus Lázló Moholy-Nagy, dei documentaristi americani Dorothea Lange e Alfred Eisenstaedt, dell’inglese Bill Brandt, di Paul Strand e molti altri. Fotografi profondamente diversi per stile e interessi, che dimostrano la varietà delle ricerche che l’immagine fotografica moderna ha percorso e saggiato nel periodo successivo agli anni venti.

I nomi di questi fotografi assurgono quasi al valore di simboli di tutte le possibilità della fotografia moderna, dei suoi limiti e della sua peculiarità, del suo linguaggio e della sua articolazione. Questi artisti sono sempre stati citati, pubblicati e celebrati nella storia della fotografia mondiale, mentre il personaggio di Josef Sudek ha suscitato un interesse analogo solo dopo la fine degli anni settanta. La sua evoluzione artistica è stata più lenta, la sua maturazione più elaborata e la peculiarità e l’originalità del suo apporto sono state praticamente scoperte e individuate con chiarezza solo dopo la seconda guerra mondiale, quando ormai il suo stile era definito e assolutamente personale.

E’ precisamente a partire dal 1940 che Sudek interrompe l’attività ufficiale, su ordinazione, e si ripiega su se stesso: inizia una serie profondamente significativa, un ciclo che libera finalmente la sua ispirazione più intima e la sua visione più personale e che egli dedica a “La finestra del mio laboratorio”. Nell’isolamento di questo spazio chiuso, circoscritto, nell’intimità di questo universo ripiegato su se stesso, matura lo stile di Sudek che, tuttavia, continuerà a rifiutare ogni astrazione razionale e ogni forma di teorizzazione. In questo periodo Sudek scopre il procedimento per contatto diretto e abbandona gli ingrandimenti: il contatto diretto corrisponde perfettamente alla concezione che l’artista ha elaborato dell’immagine fotografica.

La sgranatura non lo interessa affatto, né lo attraggono i contrasti aggressivi e violenti del bianco e nero, né í contorni netti e stagliati. E non si tratta semplicemente di un principio tecnico. L’uso di fogli di carta leggermente colorati sottolinea ulteriormente la tonalità dolce delle sue immagini, i contorni sfumati, la patina calda. I negativi sono dei formati più diversi: dal 4,5×6 cm fino al 30×40 cm, su pellicola o, preferibilmente, lastra di vetro.

Sudek sembra tornare alla tecnica usata nella giovinezza, all’epoca in cui tutti facevano stampe a contatto e non ingrandimenti, che si sono diffusi soltanto con l’evoluzione del formato ridotto del negativo e con il nuovo stile legato ai servizi fotografici; stile profondamente estraneo alla sensibilità e alla personalità di Sudek, che ha sempre amato lavorare con estrema calma e lentezza. Egli attribuiva un’enorme importanza al lavoro artigianale, alla padronanza delle varie tecniche, senza per questo subirne il condizionamento: desiderava semplicemente essere í n grado di utilizzare al meglio le varie tecniche che gli servivano per ottenere i risultati che si prefiggeva: luce, ombra, volume, dolcezza, intimità, spazio. Per poter cosi esprimere la vita più segreta dell’oggetto, della natura, della città.

Alla domanda se Sudek sia un artista realista si può rispondere affermativamente, poiché tutta la sua opera si fonda sulla realtà: ma il suo realismo è molto particolare e originale, in quanto esalta l’intima e segreta poesia del reale. Perfino la sua semplicità è ambigua, in quanto non può essere percepita con immediatezza: e la sua opera, che sembra, a un primo esame, di un’assoluta chiarezza, si lascia in realtà capire solo dopo un’analisi approfondita, un approccio rigoroso e impegnato.

Le fotografie successive agli anni quaranta sono caratterizzate da un forte chiaroscuro: le zone scure sfiorano i limiti della leggibilità, le ombre si confondono dolcemente con lo sfondo nero dell’immagine e la riproduzione diventa praticamente irrealizzabile. È indispensabile vedere le fotografie originali per gustare appieno le immagini, per apprezzare le gradazioni, i valori cromatici e le sfumature, le varie tonalità dei grigi, dei verdi, dei bruni che l’artista prediligeva.

E non bisogna dimenticare che Sudek studiava accuratamente ogni singola fotografia, ogni stampa a contatto, come fosse stata un disegno o un’incisione; bisogna quindi prendere in considerazione l’intero foglio di carta, analizzare cioè la posizione della fotografia sul foglio, la porzione di carta che rimane intorno alla fotografia, il modo in cui il foglio è stato tagliato o strappato, il rapporto dell’immagine nei confronti dell’intera superficie del foglio, la scelta dei margini bianchi o neri… e mille altre sottigliezze.

Questa minuziosa attenzione per il particolare potrebbe sembrare fine a se stessa, un segno di estetismo: ma Sudek non ha nulla di decadente. Ama la perfezione dell’immagine, ma senza mai perdere di vista l’importanza del contenuto, del messaggio. Le sue fotografie sì fondano sempre sul sentimento, sull’emozione, mai sul virtuosismo tecnico, né sul rigore geometrico, né sul razionalismo puro. Nelle sue immagini, infatti non vi è nulla di artificiale, a eccezione di questa elaborazione raffinata e rigorosa cui sono sottoposte: sono immagini autentiche, oneste. Trasmettono la verità che il loro autore vi ha infuso, sono parti integranti della sua vita, come i soggetti che rappresentano: Sudek non descrive mai nulla cui non sia emotivamente e affettivamente legato.

Il primo ciclo “intimo”, iniziato nel 1940, mostra il vetro della finestra del suo studio con le sue trasparenze e le sue opacità, velato dalle brume del giardino all’esterno, dove si intravvede un albero, e dal vapore che il calore produce all’interno: creando infiniti giochi di contrapposizione fra questi due mondi separati e, al tempo stesso, legati dal vetro onnipresente, ora ostacolo, ora superficie di mediazione e unione, su cui si imprimono i mutamenti delle stagioni e del tempo e quelli della luce che varia nell’arco del giorno.

Se la contemplazione di un soggetto è lunga e approfondita, la sua trascrizione finale può ridursi a una cifra, a un segno emblematico difficilmente leggibile, al limite dell’intelligibilità per l’osservatore che non abbia seguìto l’intero percorso dell’artista, dalla descrizione del reale fino alla trasmutazione finale, alla trasfigurazione poetica. Le fotografie si collocano ai diversi livelli di questa trasmutazione e possono quindi raggiungere gli spettatori più disparati, dal più semplice al più raffinato ed esigente, attraendolo e facendolo penetrare in un mondo sempre più raffinato, difficile e irreale, che sfiora i limiti estremi dell’ermetismo. Sudek era perfettamente consapevole di questo processo e temeva di allontanarsi troppo dalla soglia della comunicazione: per questo abbandonava periodicamente le sue esplorazioni più ardite per tornare a una nuova forma di realismo, a una visione più semplice, essenziale, purificata da cui spiccare un nuovo volo verso la poesia più misteriosa e segreta.

Sulla finestra di Sudek si svolgeva un’avventura assolutamente originale che, inizialmente quasi impercettibile, diventava, via via più ricca e complessa: sul davanzale vi era spesso un oggetto semplice (dei fiori, un ciottolo, un frammento di carta un oggetto qualunque) che finiva per isolare queste nature morte, conferendo loro la realtà di immagini completamente autonome. Si trattava, per lo più, di oggetti banali, quotidiani: ma il fotografo Sudek predilige gli oggetti banali e, Poiché ama la vita dei suoi oggetti, si dedica alla composizione di nature morte. La natura morta subisce, nell’opera di Sudek, un’evoluzione particolare: già il corso del professor Novâk prevedeva la composizione di nature morte nello stile dell’Art Nouveau, che li allievi consideravano moto da tempo e completamente superato.

Ma fu soprattutto la pittura ad avvicinare Sudek alla natura morta; i titoli di queste fotografie sono significativi: “Natura morta alla Navrátil, alla Caravaggio, alla pittura cinese…” Sono evocazioni di esperienze e ricordi tratti dalla lezione pittorica che Sudek aveva assimilato eseguendo numerose riproduzioni di quadri, di sculture e disegni. Spesso queste nature morte si risolvevano in una sorta di omaggio a una determinata espressione pittorica o in un’evocazione di una lezione di stile profondamente assimilato. Negli anni cinquanta la lezione del cubismo si rivela nelle nature morte con bicchieri, caratterizzate un’estrema semplicità, essenzialità. La forma del bicchiere è quasi sempre squisitamente cubista: otto superfici piatte, rettangolari che riflettono e scompongono analiticamente tutto ciò che si trova all’interno del bicchiere o che è posato dietro il bicchiere stesso.

La natura morta con bicchiere è ricorrente nell’evoluzione dell’opera di Sudek e rappresenta sia l’assimilazione, appunto, della lezione cubista, sia l’eco della pittura olandese del XVII secolo, sia, infine, un richiamo alle nature morte di Chardin nel corso degli anni cinquanta, per ricomparire con straordinaria intensità ed evidenza, negli anni sessanta, nel famoso ciclo dei “Labirinti” e proseguire fino all’inizio degli anni settanta. Qui il gioco dei riflessi e delle trasparenze dei bicchieri si complica e si confonde con altri oggetti assolutamente astratti, privi di qualsiasi geometria visibile.

Nei “Labirinti”, gli oggetti preziosi, raffinati e costosi sono accostati, con assoluta, casuale naturalezza, a oggetti sem­plici, strani o anche volgari: disposti esattamente come la vita e il caso li hanno collocati, l’uno accanto all’altro, nello studio di Sudek. Gli oggetti si incontrano sull’armadio o sul tavolo, creando quasi la sensazione di un organismo vivente, autonomo, e si integrano perfettamente poiché questi “Labirinti” sono dominati da un unico principio unificatore: la legge dell’amore. Ogni oggetto è infatti dono di un amico: perciò le fotografie che li rappresentano sono intitolate“ricordi”. Ricordi che evocano persone scomparse per sempre o che semplicemente non vivono più a Praga.

Ed esattamente come aveva creato opere in omaggio dei gran­di pittori, Sudek rende, con queste fotografie, omaggio ai suoi più cari amici. Pur amando la solitudine, infatti, l’artista aveva moltissimi amici, di ogni classe sociale: intellettuali, artisti, ma anche uomini semplici, dediti a lavori manuali; musicisti e fotografi dilettanti, persone che amavano la natura e le lunghe passeggiate. Ognuno di questi amici arricchiva la vita dell’artista, che da questi calorosi rap­porti umani traeva conforto e ispirazione. Era un uomo solitario circondato da persone amiche.

In realtà Sudek viveva circondato anche da oggetti bellissimi e preziosi: a una prima impressione si sarebbe detto che egli vivesse umilmente, come un povero, in un ambiente privo di comodità e di lusso, in quanto non attribuiva alcuna importanza a queste realtà della vita. La sua concezione filosofica dell’esistenza lo allontanava da ogni forma di esteriorità e di ostentazione. Isuoi piaceri erano, al contrario, sottilmente raffinati: collezionista e profondo conoscitore d’arte, riusciva a conferire al suo studio, con assoluta naturalezza, un’atmosfera  indefinibile, assolutamente personale, grazie all’irripetibile e banali e quotidiani con altri estremamente raffinati accostamento casuale di oggetti tutto. E gli accostamenti insoliti di oggetti eterogenei e preziosi. Sudek conservava tutto.

E gli atteggiamenti insoliti di oggetti eterogenei rispecchiavano perfettamente il suo atteggiamento nei confronti delle persone, la sua scelta degli amici.

Un’altra caratteristica costante nella vita di Sudek è il suo rapporto, si potrebbe dire d’amore, con la musica: un amore che lo accompagnò nel corso della sua intera esistenza, arricchendola. Si recava a tutti i concerti interessanti, collezionava dischi scambiandoli con fotografie, scopriva la musica moderna, in particolare Leoš Janácek, al cui villaggio natale, Hukvaldy, in Moravia, avrebbe dedicato il suo ultimo volume di fotografie, pubblicato prima della morte.

Nel periodo successivo alla guerra, un rapporto d’amicizia particolarmente signi­ficativo per l’opera di Sudek è il legame con l’architetto Otto Rothmayer, incari­cato di eseguire i lavori di ricostruzione del Castello di Praga. Rothmayer posse­deva a Praga un meraviglioso giardino: qui i due amici vissero numerosi e stimo­lanti incontri, creando con sapiente raffinatezza, in questo “giardino magico”, im­magini poetiche, spesso dominate dalla presenza delle sedie disegnate dall’archi­tetto.

Esiste un ciclo completo di fotografie dedicate a questo giardino, colmo di un’atmosfera unica e irripetibile, un ciclo che ricorda la collaborazione e la pro­fonda amicizia di Sudek con il grafico Sutnar. Ma in questo caso l’opera non è più il frutto di un’ordinazione: è creazione pura, libera da ogni vincolo esteriore.

La sensibilità poetica di Rothmayer, inoltre, era molto più affine allo spirito di Sudek: trent’anni erano passati e molte cose erano cambiate. E forse proprio nel magico giardino degli oggetti poetici, disposti in base a leggi completamente di­verse da quelle pittoriche, Sudek ebbe l’ispirazione dei “Labirinti”.

Questa feconda e stimolante amicizia durò fino alla morte di Rothmayer, nel 1966. Le ultime fotografie di questo giardino sono scattate con il grande apparec­chio panoramico Kodak del 1894, con un negativo di 10×30 cm e l’otturatore regolato in modo da permettere una profondità di campo da 8 all’infinito. Con questo apparecchio Sudek aveva scattato numerose fotografie di paesaggi cechi e moravi, ma soprattutto una serie di fotografie di Praga, pubblicata nel 1959. Le foto panoramiche furono una delle ultime curiosità che attrassero Sudek negli estremi anni della sua vita, anche per le innovazioni tecniche che presupponeva­no.

Ma le immagini intitolate “Passeggiata nei parchi di Praga” o “Passeggiata nei giardini di Praga” erano quasi tutte eseguite con negativi di formato 18×24 cm. I giardini degli amici, i parchi e i giardini di Praga si contrapponevano, rista­bilendo in un certo senso un equilibrio, al tema delle “Nature morte”: le fotogra­fie della vegetazione, degli alberi e dei giardini sono infatti altrettanto numerose di quelle dedicate alla parte più “artificiale”, antinaturalistica della sua opera. Josef Sudek fu, nel corso della sua intera esistenza, avido di conoscenza. Non sapeva niente di musica, per esempio, ma lentamente, invitando gli amici ad ascoltare dei dischi con lui, scambiando esperienze e impressioni e condividendo il piacere dell’ascolto, imparò a conoscerla e a capirla.

Con lo stesso atteggiamen­to aveva affrontato tutte le altre discipline, dall’arte alla letteratura: apprendeva, assimilava, accumulava esperienze, sensazioni e nozioni per trasformarle, nel cor­so della propria vita, in esperienza personale, unica, originale. Sublimando ogget­ti e persone, accettava e capiva, con straordinaria tolleranza, realtà sempre nuove, filtrandole attraverso la sua geniale creatività istintiva e mantenendosi costante­mente disponibile ad ampliare la sua concezione del mondo, della vita, dell’arte. Ma, dopo ogni nuova esperienza, tornava a ripiegarsi su se stesso.

Sudek non ave­va bisogno di compiere lunghi viaggi per scoprire il mondo: lo scopriva attraver­so i suoi amici, gli incontri, i suoi oggetti, gli alberi e grazie alla loro trasposizio­ne e trasfigurazione nella fotografia. In un piccolo laboratorio per un periodo di quasi trent’anni e per altri vent’anni accanto al Castello, in un altro studio privo di giardino e di quella magica finestra, ma con i suoi “Labirinti” di incontri inso­liti e irreali, Sudek ha creato il suo universo che si espande e irraggia luce all’e­sterno, con un’intensità straordinaria e un potere di coinvolgimento irresistibile.